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Marie Vidal. Amerai il tuo prossimo come te stesso.


Da Marie Vidal "Un ebreo chiamato Gesù" Una lettura del Vangelo alla luce della Torah


AMERAI IL TUO PROSSIMO COME TE STESSO!



Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso.
Ef 5, 33. 


Una rondine non fa primavera. Per la seconda parola scelta nella Torah, ricevuta e compiuta dagli amici di Gesù, il lettore beneficerà di un salto nel tempo per incontrare Paolo.


Ascolterà uno dei suoi insegnamenti per la concreta applicazione del comandamento: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18). Comprenderà così la vicinanza della pratica dei primi cristiani con quella degli Ebrei. In effetti, il salto nel tempo non è che virtuale. Poich? l'Ebreo Paolo è profondamente radicato nella Torah scritta e orale. Egli stava ai piedi del Sinai con il suo popolo, il popolo di Israele, quando questo riceveva la Torah e, con il suo po-polo, Paolo rispondeva: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!» (Es 24, 7). L'insegnamento tratto da que-sto comandamento sorprenderà, farà persino ridere e provocherà battute di spirito. Il fatto è che, da un lato, la pedagogia usata qui non è più quella del racconto, dell'Haggadah, ma quella dell'etica, dell'Halakhah. E, come ai tempi di Noè, "il sapiente è amato dai suoi contemporanei finch? non dà lezioni di morale" (p. 38). D'altra parte, si tratta di una sola applicazione pratica scelta fra molte altre. I rabbini dicono che ci sono settanta spiegazioni per ogni Parola. L'una è qui preferita alle altre per stimolare ancora una volta i cristiani alla riconoscenza verso gli Ebrei dai quali han-no ricevuto questa Parola. Sfortunatamente, nel corso dei secoli, molti cristiani hanno trascurato la memoria, dimenticando che il comandamento dell'amore del prossimo è ebraico prima di essere cristiano. Non è uscito dal Nuovo Testamento, ma è dato dalla e nella Torah. E ritorna la domanda lancinante (p. 7): cosa fare e come fare perch? "aprano un piccolo spiraglio come il foro aper-to dalla punta acuta di un ago"?   Al centro del libro centrale della Torah, il Libro del Levitico, quello che si insegna per primo ai bambini, c'è la parashah «Siate santi» (Lv 19-20)1. Il Levitico è conosciuto molto poco dai cristia-ni. Tuttavia, la prima frase di questa sezione è loro familiare: «Sia-te santi, perch? lo, il Signore, Dio vostro, sono Santo». L'appello iniziale di questa sezione è seguito da esortazioni concrete e det-tagliate, incarnate, per le relazioni con il prossimo nella vita di tutti i giorni. La responsabilità del credente si esercita diversamente secondo i diversi gradi di vicinanza: il fratello, il compatriota, il figlio del compatriota, il prossimo. Ed ecco, che in mezzo alla parashah «Siate santi», in Lv 19, 18, ascoltiamo: «Amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore». I maestri della Torah orale insistono su questa Parola, e i bam-bini ebrei cantano da generazioni: "Rabbi Aqiba ha detto Amerai il prossimo come te stesso, è tutta la Torah " (Ned 9, 4 del Talmud di Gerusalemme). Anche Gesù ripete diverse volte questo comandamento. Anzitutto, nel Discorso della montagna, quando si riferisce alla Torah orale per spiegare la Torah scritta: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo» (Mt 5, 43). Poi, durante il Suo incontro con l'uomo ricco, Gesù ricorda le cinque Parole-comandamenti verso il prossimo, incise in una delle due Tavole della Torah. Ma non dice la quinta «non desidererai». Al suo posto, Gesù enuncia due Parole. Dice anzitutto la quinta Parola a fronte, sull'altra Tavola, quella dei doveri verso il Signore: «onora tuo padre e tua madre». E aggiunge subito: «ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19, 19). Infine, Gesù ripete questa Parola quando deve rispondere alla domanda dello scriba sul primo comandamento. Egli propone contemporaneamente l'atto di fede «Ascolta Israele» e il comandamento di amare il prossimo come se stessi che gli è simile (Mt 22, 39)2. Gesù, come in molte esortazioni della Torah, parla del prossimo, chiunque sia. È bene, tuttavia, ascoltarne una applicazione molto particolare data da Paolo, che la riceve dalla Torah. Ma questa applicazione non ha di particolare che il qualificativo, perch? si rivolge ad ogni uomo e a ogni donna. E dalla fedeltà quotidiana a questo comandamento dipende la vita di ogni essere umano. La sezione che proclama «Amerai il tuo prossimo come te stesso» si intitola: «Siate santi». Tuttavia, il nome "santi, Qedoshim" di questa parashah è stato scelto dal popolo ebraico per dire matrimonio. Infatti, "Qidushin, matrimonio", è una parola al plurale, chiamato plurale di intensità. Qidushin significa "santificazioni, consacrazioni". Un trattato del Talmud porta questo nome, come se il matrimonio fosse la situazione della santità. Un altro trattato si intitola Nidah, dal nome della separazione regolare tra lo sposo e la sposa durante il ciclo mestruale. Questa nidah, questo allontanamento, permette loro, secondo la Tradizione, di sposarsi una volta al mese... di prepararsi a questo ma-trimonio durante la metà del tempo, due settimane per ciclo. La donna fa il bagno rituale, il migweh, ogni mese, come fece il bagno rituale il giorno del suo matrimonio. Il trattato Nidah appartiene alla sesta e ultima parte del Talmud, su "Le cose pure", molti precetti della quale sembrano esagerati a degli Occidentali del XX secolo. Ecco tuttavia cosa si sente dire da parte di seri rabbini! "Rabbi Hisda dice: È vietato avere rapporti sessuali con la propria moglie durante la giornata, perch? è detto: Amerai il tuo prossi-mo come te stesso! Dove questo testo contiene tale divieto? Nel fatto che l'uomo potrebbe, andando a letto con sua moglie durante la giornata, vedere in lei un difetto ripugnante, dice Abaye. Rabbi Huna dice: Gli israeliti sono santi. Essi non vanno a letto con la loro moglie durante la giornata. Rab ha detto: In una casa scura è permesso, e un discepolo dei sapienti può sempre fare ombra con il suo mantello e andare a letto con sua moglie" (Nid 17a).

Ed ecco ciò che, facendo eco a tali insegnamenti, dice Paolo nella Lettera agli Efesìni (Ef 5, 25-33): «Mariti, amate le vostre mo-gli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro (il miqweh) dell'acqua accompagnato dalla Parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia n? ruga o alcunch? di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perch? chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poich? siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa'. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito». Paolo, da ebreo, parla con le parole del matrimonio ebraico, della sua preparazione, della sua salute spirituale attraverso il miqweh, della sua purezza e della sua santità. Si basa sulla teolo-gia della coppia data dalla Genesi, dove "la carne tratta dalla carne" offre possibilità di comunicazione e di annuncio di buona notizia, e dove "l'osso tratto dalle ossa" offre la profonda interiorità, "le quant-à-soi de l'?tre", il s? a se stesso. Ma Paolo dice: «I due formeranno una carne sola», mentre la Torah scritta dice: «L'uomo si unirà a sua moglie e saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi...». Paolo è impreciso? Egli scrive «due» (cfr. Ef 5, 31) riportando il versetto 24 di Genesi 2, per assimilazione dal versettto successivo: «Ora tutti e due erano nudi...» (cfr. Gn 2, 25)*. D'altra parte, Paolo dice: «della sua carne e delle sue ossa», mentre la Torah scritta usa il superlativo: «osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne». Paolo è impreciso? Oppure la sua logica è piuttosto quella della Torah orale? Paolo evoca anche l'immagine del corpo e delle membra, conosciuta a proposito di Giuseppe'. Il Midrash Rabba dice (GenR 100, 9): "Davanti ai suoi fratelli preoccupati della sua reazione quando rimasero soli dopo la morte del loro padre Giacobbe, Giu-seppe dice: Voi siete il corpo e io la testa! Se il corpo è colpito, è buona la testa?" Ritroviamo questo paragone in un altro trattato, questa volta del Talmud di Gerusalemme, Nedarim, sui voti. Con un esempio concreto e molto particolare, questo trattato enuncia la solidarietà degli uomini tra loro. Bisogna discernere e avere una condotta intelligente e adulta. "Tagliando la carne, un uomo lascia cadere il coltello che gli mozza una delle mani. È immaginabile che si taglierà la seconda mano per essersi tagliato la prima? Così accade con i nostri rapporti con gli altri. la società rappresenta la moltitudine dei membri che costituiscono nel loro insie-me il corpo della collettività. È pensabile che si colpisca del proprio corpo un membro che ne abbia mutilato un altro? in questa vasta prospettiva che bisogna concepire il dovere di amare l'altro. Se gli esseri umani sono separati fisicamente gli uni dagli altri, l'anima è tuttavia loro comune per le sue origini e la sua natura, sicch? i sentimenti degli uni si ripercuotono negli altri. La società costituisce un'unità organica. Ogni membro condivide le sofferenze e le gioie degli altri. È anche detto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Rabbi Agiba dice: Qui c'è il grande principio della Torah. Ben Azay dice: il versetto `l'uomo fu creato a immagine di Dio' (Gen 5, 1) è ancora più grande, perch? incita al ri-spetto dell'uomo " (Ned 9, 4 Talmud di Gerusalemme). Queste due citazioni della Torah orale divergono molto dalle riflessioni occidentali e dalle meditazioni classiche cristiane. Tuttavia, attraverso l'irrigazione sotterranea della teologia di Paolo, i cristiani occidentali ne dipendono. Liberi di intenderle o no. Tut-tavia, nelle loro orecchie sono ancora una volta risuonati prima l'importanza della donna e della coppia, poi l'appello a vivere l'incarnazione. I discepoli, gli apostoli, i credenti, debbono vivere in modo concreto i rapporti con il prossimo. I responsabili trasmettono ciò con la grande frase della Torah, ripetuta e ripetuta dagli ebrei, da Gesù e dai suoi amici. L'etica del matrimonio proposta da Paolo è rigorosamente iden-tica a quella della Torah. Se egli paragona l'alleanza del Cristo e della Chiesa alla coppia, e viceversa, è per insegnare ai credenti le loro capacità e competenze per rendere armonico il mondo. Se fonda la sua esortazione della vita di coppia sul comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso!», e se sembra di primo acchito ridurla a una situazione particolare della vita dell'uomo, è per restare nel solco del suo popolo. Perch? egli sa come l'espe-rienza e la sapienza del popolo di Israele portino frutto. Paolo trasmette silenziosamente la sua ispirazione di apostolo ai cristia-ni molto lontani dalla propria identità. L'ispirazione, per il suo popolo, non è anzitutto l'imposizione di parole venute direttamente dall'alto. L'ispirazione è il respiro, il dialogo mai esaurito con la Torah scritta, i Profeti e gli Scritti, per proporre comportamenti da tenere in ogni circostanza della vita. L'ispirazione è il respiro e gli scambi continui, la cui pedagogia è la Torah orale, per cerca-re sempre di migliorare i suoi gesti e le sue attitudini. E cosa c'è di più importante dell'attitudine e dei gesti della vita di coppia? Leggendo la Lettera agli Efesini, il Cristiano non si irriterà più contro una pretesa misoginia di Paolo. Perch? non soffermerà più la sua attenzione sulla frase: «la donna sia rispettosa verso il marito». Ascolterà anzitutto il comandamento dato al marito: amare la propria moglie come se stesso significa non vedere in lei alcun difetto. Allora, egli può dormire con lei e riceverla nella sua inti-mità. Il cuore di suo marito si appoggia e confida in lei (Pr 31, 11). Sono due, senza vergogna (Gen 2). Sono una carne sola. Ma per ascoltare Paolo, Apostolo di Gesù, bisogna conoscere e frequentare i suoi amici, gli amici della Torah orale. Essi non smettono di vivere l'Incarnazione.


QUAL È IL PRIMO COMANDAMENTO?

Ci sono diversi modi di parlare del primo comandamento. Si può rispondere, alla maniera di Gesù, con i due comandamenti dell'amore del Signore e dell'amore del prossimo (Mt 22, 34-40 e Mc 12, 28-34). Oppure, si può cercare il primo nello svolgimento della Torah. È allora la prima parola che Dio dice all'uomo: «Moltiplicatevi!» (Gen 1, 28). Israele l'ha compresa e l'ha seguita con perseveranza'. O ancora, si può ripetere e apprendere la prima delle dieci Parole scritte dal dito di Dio sulle Tavole di pietra portate giù dalla montagna da Mosè: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20, 1). E questa Parola ripetono coloro che hanno provato la sua forza e la sua esigenza per generazioni. Possono apprenderla e scoprirla coloro che, stranamente, sono stati distratti dalla sua vitalità. Per sbadataggine? Per rispetto? Volontariamente? Mancanza di discernimento? Perch?, come proclamare una serie di comandamenti a proposito di Qualcuno, quando non si sa di Chi si parla? Questa fu tuttavia, per secoli, l'indifferenza di molte Chiese cristiane. Il loro atteggiamento provocò uno spostamento nelle Dieci Parole. La prima, considerata come introduzione o prologo, non fu presa in considerazione. E quindi, la seconda Parola divenne prima, la terza seconda, ecc. ma si ebbe soprattutto un disordine nell'apprezzamento e nell'intelligenza della vita di fede e della morale. Disordine si dice in ebraico "Faraone". E se Faraone, il re d'Egitto, dimentica Giuseppe (Es 1, 8), opprime gli Ebrei. Gli Ebrei hanno due ragioni per non dimenticare l'Egitto. Essi le cantano nella preghiera di Qidush, il giorno di Shabat. Anzitutto, decidono di non accettare mai di essere rinchiusi: fanno memoria della loro uscita dall'Angoscia e di Colui che li ha fatti uscire. Poi, desiderano soddisfare la loro vocazione di comprensione e di solidarietà verso gli oppressi e gli stranieri. Il primo comandamento è dunque specifico e costitutivo del popolo di Israele e del suo percorso: della sua storia nel senso della generazione e della nascita. Esso non appartiene alle sette leggi noaidi e le nazioni non debbono appropriarsene. Tuttavia, coloro che si richiamano all'Ebreo Gesù debbono accostarlo con rispetto, e tenerlo in considerazione. Poich? Egli ha condiviso con il suo popolo il vissuto effettivo della prima delle Dieci Parole. Le Dieci Parole sono presentate ai Figli d'Israele come due Tavole ci cinque. La prima Tavola mostra i doveri verso il Signore. Essa è indissociabile dalla seconda che precisa, in modo molto conciso, i doveri verso il prossimo. Le Parole-comandamenti corrispondono due a due. Parlando della prima, si è dunque costretti ad ascoltare la sesta, "non uccidere". Questa ha un suo omologo nelle sette leggi noaidi, ma non è affatto formulata alla stessa maniera. La legge di Noè dice: "non versare il sangue". La sesta Parola dei figli di Israele è enunciata con un verbo molto poco usato nella Torah. Questo verbo lo ritroviamo soltanto nella cura posta nella costruzione delle città di asilo (18 volte in Nm 35; 2 volte in Dt 19, Dt 4, 42 e Dt 22, 26). Lì, i Leviti rieducano gli assassini, volontari o involontari, e li proteggono dai "vendicatori del sangue". Inoltre, sette delle Dieci Parole sono espresse con ampiezza, in forma negativa, e tre sono enunciate in forma positiva. Scritte sulla Tavola dei comandamenti verso il Signore, la prima, la quarta e la quinta danno rispettivamente il Nome del Signore, la memoria e la conservazione dello Shabat, l'onore da riconoscere al padre e alla madre. Inoltre, la prima e la quinta incorniciano le al-tre e sono in inclusione (tabella p. 42). Per la quinta, l'onore da riconoscere a coloro che hanno generato permette al credente di inserirsi in una famiglia e in una storia. Egli ha i suoi diritti e i suoi doveri verso gli altri: i collaterali da un lato, e gli ascendenti e i discendenti dall'altro, con la responsabilità della trasmissione. La sana comunicazione indispensabile all'interno della famiglia, chiunque sia il genitore, è unita ad una clausola concreta e precisa, si potrebbe quasi dire storica e geografica: «Onora tuo padre e tua madre, perch? si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Es 20, 12). L'altra formulazione è questa: «Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha co-mandato, perch? la tua vita sia lunga e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà» (Dt 5, 16). La "vita lunga" e la "felicità" sono forse i figli e i figli dei figli, che saranno dati come ricom-pensa a chi praticherà il comandamento. Essi apriranno l'avveni-re. Faranno penetrare nel duraturo. La Torah orale comprende, ripete e annuncia questa nozione del tempo come la Risurrezio-ne dei morti (Qid 39b). Inoltre, la promessa legata al riconoscimento del padre e della madre è affermata per un luogo particolare. "Il suolo, la terra, Adamah", femminile in ebraico, "è dato dal Signore tuo Dio". Si può allora fare memoria della prima Parola che pronunciava il nome "di un paese, una terra, Eretz", pure femminile in ebraico, "la terra d'Egitto", da dove nessuno può uscire se non grazie al "Signore, tuo Dio"! La lettura liturgica è in generale ascoltata stando seduti, ma per ascoltare le Dieci Parole ci si alza. Il prima Parola è il segno dell'esplosione e della breccia aperta nell'oppressione. Si ascolta al-lora il racconto dello spostamento e del passaggio dei figli di Isra-ele, dal paese, la terra d'Egitto, casa di schiavitù, fino al Suolo, fino alla terra donata. Lì, ciascuno deve assumere la sua vita di figlio e di figlia. Ciascuno accoglie i doni, la gratuità e la scelta di Colui che è all'origine del Suo popolo. Ognuno ha dei diritti: la terra, i figli, la Risurrezione. Ma ciascuno dovrà rispondere compiendo e non abbandonando i suoi doveri, tra cui quello di onorare suo padre e sua madre. Tale è la sana comunicazione della Parola, la sua trasmissione e attuazione: è l'esigenza e la pedago-gia del Signore verso il Suo popolo. Si racconta spesso l'episodio del Midrash Rabba in cui le lettere dell'alfabeto volevano tutte essere scelte per iniziare la Torah. Esse vennero avanti a cominciare dall'ultima, ciascuna con eccellenti argomenti. Ma ognuna veniva rifiutata. Infine, il Signore scelse la penultima che si presentò, ossia la seconda lettera dell'alfabeto, beth. Allora, la prima lettera, aleph, non osava più avvicinarsi. Ma il Santo, Benedetto sia, la chiamò e le disse: "Il mondo e la sua pienezza sono stati creati per merito della Torah (dunque con il beth), come sta scritto: Il Signore ha fondato la terra con la Sapienza (Pr 3, 19). Per domani, quando darò la Torah sul Sinai, non aprirò e non comincerò che con te (dunque con l'aleph). Come sta scritto: Io, il Signore Dio tuo!" (GenR 1, 11 e Zohar). "Io", in ebraico, inizia con un aleph. Così, le Dieci Parole iniziano con un aleph, e la tradizione ebraica dice che l'aleph, lettera impronunziabile, è il Nome del Signore. La prima delle Dieci Parole designa l'origine dei figli di Israele usciti dall'Egitto. Affermazione piuttosto che comandamento. Trascendenza dell'Essere assoluto. E tuttavia, ogni membro del popolo di Israele, popolo di Dio, è strettamente legato a questo Nome. Deve riconoscerlo non solo con la fede, ma con la sua vita spirituale manifestata e comunicata in atti e comportamenti. È chiamato ad accettare la relazione di prossimità e intimità che gli dà il Signore. Ascolta. E risuona nelle sue orecchie il "tu" dell'Alleanza: «Ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione di servitù». Egitto, Mitsrayim, significa nella lingua del popolo di Dio: "angoscia dinamica, duplice angoscia, angoscia totale, luogo dove l'umano è definitivamente incastrato e rinserrato". Uscirne sarà opera di un intervento divino, l'unico capace di aprire strade impossibili. Questo intervento è detto in ebraico "miracolo, mera-viglia". Tuttavia, tale intervento da parte del Signore richiede la carità dell'uomo verso il Signore. Occorre che l'uomo, come Abramo (Gen 15, 6), abbia fiducia e creda nell'Opera e nella Ma-nifestazione del Signore. Per meglio misurare l'angoscia che è l'Egitto, bisogna anche intendere l'altro termine della chiusura: "la condizione di servitù". Lì, il servo non è semplicemente lo schiavo fisico. Egli è stato forzato al servizio, al culto degli idoli, o si è lui stesso incondi-zionatamente sottomesso alla degenerata servitù, all'idolatria, all'Avodah Zarah. È nella situazione dichiarata inumana dalle sette leggi di Noè, poich? una di queste leggi universali per tutti gli uomini proibiva sorprendentemente questo culto straniero. Far uscire dalla "condizione di servitù", significa far scoppiare il sistema infallibile in cui l'idolatria è la certezza più stimata e rispettata. Ciò non è alla portata di tutti. Il popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che "Solo il Signore, suo Dio" può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del Faraone. Vuole servire il Solo Signore, rendergli culto, orien-tare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto, questo solo lavoro. In questo senso "lavorerà" sempre e soprattutto il giorno di Shabat, giorno di intimità con il Signore, giorno per eccellenza del culto e del "servizio" verso il Signore. Erede di questo insegnamento farisaico, Gesù dirà dunque che Egli "opera sempre" e che il Padre è sempre nel Figlio (Gv 5, 17). I rabbini, nello stesso desiderio di intimità del Giorno del Signore, diranno che l'Ebreo entra un po' più "nella nobiltà della vocazione di figlio ". Allo stesso tempo questo atteggiamento evoca i Leviti dei quali una delle preoccupazioni era la riabilitazione degli assassini. Ritroviamo il progetto iniziale dei due comandamenti, il primo e il sesto, fianco a fianco sulle due Tavole della Torah. Finch? l'uomo o il credente non è uscito dall'angoscia e dall'idolatria, finch? non riconoscerà il Creatore e il Redentore, finch? non ammetterà che Dio ha creato l'uomo a Sua immagine, avrà paura dell'altro. E il modo migliore per lottare contro l'altro sarà di ucciderlo con parole, azioni, non azioni, omissioni. Il Midrash racconta una parabola (Mekilta su Es 20, 13): "È un po' come un re che entrò in una provincia. Gli si innalzarono statue, gli si fecero ritratti, si coniarono monete con la sua effigie. Qualche tempo dopo, si rovesciarono le statue, si distrussero i ritratti, si dimenticarono le monete, e così si sminuì l'immagine del re. Così, chiunque versi il sangue, la Scrittura glielo imputa come se avesse diminuito la Somiglianza del Re!'. L'uscita dall'Egitto è l'evento storico preciso la cui memoria viene fatta a Pasqua, in ogni Qiddush, in numerosi momenti della preghiera, in numerosi gesti quotidiani. Ma prima di tutto questo, l'uscita dal paese d'Egitto e dal soffocamento dell'idolatria è una condizio-ne dello spirito. Ecco perch? non è paragonabile a nessun altro evento, perch? è più di un evento storico o fondatore. È una dinamica, un apprendimento - in ebraico si dice Lamed, Talmid, Talmud I - per coloro che desiderano marciare e andare avanti. Certi cristiani hanno detto e pensato: "La Pasqua degli Ebrei libera dall'Egitto, la Pasqua-Risurrezione di Gesù Cristo libera dalla morte". Forse non hanno valutato il pericoloso fossato che hanno scavato per gli altri e per se stessi, disgiungendo l'uscita dall'Egitto e la Vittoria sulla morte. Desiderano stabilire paragoni e superiorità per rassicurarsi e tranquillizzarsi. Come se volessero proteggere e difendere Gesù. Ma Gesù non ha affatto bisogno di essere difeso. Gesù è incarnato in un popolo, nel popolo che ha accettato di ascoltare il Nome del Signore: «Io sono il Signore, Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di idolatria». Gesù conferma per i non-Ebrei lo "la condizione di spirito e il respiro di questo Popolo". Il suo popolo rifiuta di essere schiavo. Ogni mattina, rivolgendosi anzitutto al Signore e poi annunciandolo al mondo, dice: "Benedetto sii tu, Signore, nostro Dio, Re dell'Universo, che non mi hai fatto schiavo!". Egli accetta di non essere più sottomesso alla paura e all'angoscia. Comprende che per servire il Signore Solo non deve essere schiavo, deve sta-re comodo, in piedi. Anche nei suoi gesti più ripetitivi, anche nei suoi riti più rigorosamente ordinati - il pasto pasquale è chiamato Seder, ordine, concatenamento, e la preghiera è chiamata Sidur, ordinato - Israele, popolo di Dio, deve continuamente discernere tra l'apparenza meccanica dei suoi atti e il loro valore. Ecco la sua vita spirituale: - Ridare a ogni gesto mille volte ripetuto una vitalità; - Riascoltare il Nome di Colui che fa uscire dall'Angoscia inestinguibile e dalle tentazioni che soggiogano inesorabilmente; - Adeguare ogni giorno la comprensione dei gesti concreti da compiere verso Dio e gli altri. È l'atteggiamento di Abramo qualificato dall'Angelo del Signore come "timore di Dio" (Gen 22). I sapienti dicono infatti che Abramo teneva il coltello alzato e rifletteva. Ripassava e recitava tutta la Torah. Poteva uccidere suo figlio, dal momento che non bisogna uccidere? - Raccontare, recitare, e ripetere ad alta voce l'uscita dall' 'Egitto con tutti i partecipanti, è il ruolo primordiale delle donne. È il principio e il metodo dell'Haggadah. È anche la musica di certi Salmi dell'Hallel (Sal 118, 5)6 e dei Salmi delle Ascensioni (Sal 122-128). - Apprendere di nuovo ogni giorno a stupirsi e a rinnovare le domande. Perch?, ad esempio, il Signore, capace di far uscire il suo popolo, annuncia Egli stesso (Es 14, 4) che "indurirà il cuore del Faraone"? Per comprendere queste cose, il discepolo deve ricordare la pedagogia delle benedizioni-maledizioni, delle Beatitudini. All'uomo è dato il dono della libertà totale. È un forza e una capacità che riceve per permettergli di andare fino al fondo di se stesso, in un senso o nell'altro. È lui a decidere. Così, questa vigilanza, questo perpetuo desiderio di avanzare, questo consenso a svegliarsi giorno per giorno, fanno di Israele un popolo in stato di veglia. Gesù non poteva venire che in que-sto popolo per manifestare ai cristiani l'Uscita dalla morte e il Risveglio.

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