29 settembre. Santi Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele. Approfondimenti









San Gregorio Magno, Regola Pastorale. 

La guida delle anime sia vicino a ciascuno con la compassione e sia più di tutti dedito alla contemplazione, per assumere in sé, con le sue viscere di misericordia, la debolezza degli altri, e insieme, per andare oltre se stesso nell’aspirazione delle realtà invisibili, con l’altezza della contemplazione. E così, se guarda con desiderio verso l’alto non disprezzi le debolezze del prossimo o se viceversa, si accosta ad esse, non trascuri di aspirare all’alto. Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo (cf. 2 Cor. 12, 2 ss.), e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie al marito (1 Cor. 7, 2). E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti (1 Cor. 7, 5). Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dall’intimo abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli altri. Perciò infatti dice: Chi è debole e io non sono debole? Chi patisce scandalo e io non brucio? (2 Cor. 11, 29). E perciò ancora dice: Con i Giudei sono divenuto come Giudeo (1 Cor. 9, 20). Evidentemente mostrava ciò non con la perdita della fede, bensì con l’estendere la sua misericordia, così che trasferendo in sé la persona degli infedeli potesse imparare da se stesso come avrebbe dovuto avere compassione degli altri e fare a loro il bene che — nella medesima condizione — avrebbe rettamente voluto fosse fatto a lui. E di nuovo perciò dice: Se usciamo di mente è per Dio; se siamo sobri è per voi (2 Cor. 5, 13), poiché nella contemplazione egli sapeva salire oltre se stesso, ma sapeva ugualmente moderare se stesso per condiscendenza verso i suoi ascoltatori. Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano (cf. Gen. 28, 12): a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra. Ugualmente Mosè entra ed esce tanto frequentemente dal Tabernacolo: dentro, è rapito dalla contemplazione; fuori, è pressato dalle necessità di creature inferme. Dentro, medita i misteri di Dio; fuori, porta i pesi delle realtà carnali. Ma pure, quando si tratta di casi dubbi egli ricorre sempre al Tabernacolo e davanti all’arca del testamento consulta il Signore: certo per offrire un esempio alle guide delle anime perché, quando nelle decisioni di carattere esterno si trovano nell’incertezza, ritornino sempre al proprio cuore come . al Tabernacolo; sarà come se fossero davanti all’arca del testamento a consultare il Signore, se riguardo a ciò per cui dentro di sé sono in dubbio, ricercheranno nel loro intimo le pagine della parola sacra. Perciò la Verità stessa che ci si è mostrata nell’assunzione della nostra umanità, sul monte si immerge nella preghiera, ma nelle città opera i miracoli (cf. Lc. 6, 12): evidentemente per appianare la via dell’imitazione alle buone guide delle anime, perché se anche sono già protese alle somme altezze della contemplazione, sappiano tuttavia mescolarsi compatendo alle necessità di creature inferme. Poiché la carità si eleva a meravigliosa altezza quando si trascina con misericordia fino alle bassezze del prossimo; e con quanto maggior benevolenza si piega verso le infermità tanto più potentemente risale verso l’alto. Coloro che presiedono si mostrino tali che quanti sono loro soggetti non arrossiscano di affidar loro i propri segreti, affinché, quando si sentono come bambini nella lotta contro i flutti delle passioni, ricorrano al cuore del Pastore come al seno di una madre; e col sollievo della sua esortazione e le lacrime della sua preghiera lavino le impurità della colpa che preme e minaccia di contaminarli. Per questo davanti alla porta del tempio c’è il mare di bronzo, cioè il bacino per la purificazione delle mani di chi entra, ed è sostenuto da dodici buoi i quali sporgono con la parte anteriore mentre la posteriore resta nascosta (cf. 1 Re 7, 23-25). Che cosa significano i dodici buoi se non tutto l’ordine dei Pastori, dei quali, secondo il commento che ne fa Paolo, la Scrittura dice: Non mettere la museruola al bue che trebbia (1 Cor. 9, 9)? Di essi non vediamo le opere compiute apertamente, ma ignoriamo ciò che li attende nella segreta retribuzione del severo Giudice. Tuttavia quando essi con la loro paziente accondiscendenza dispongono il prossimo alla confessione purificatrice è come se portassero su di sé il bacino davanti alle porte del tempio, affinché chiunque si sforza di entrare per la porta dell’eternità, manifesti al cuore del Pastore le sue tentazioni e — per così dire — lavi il suo pensiero e le sue azioni nel bacino dei buoi. Accade pure spesso che il Pastore nell’ascoltare benevolmente le tentazioni altrui ne diviene vittima egli stesso come senza dubbio resta inquinata quella medesima acqua del bacino, nella quale si purifica la moltitudine del popolo. Infatti mentre riceve l’impurità di coloro che si lavano, l’acqua viene come a perdere la sua limpida purezza, ma non si deve temere che avvenga lo stesso del Pastore, poiché Dio che pensa a tutto con cura minuziosa lo strappa alla sua tentazione tanto più facilmente quanto maggiore è la misericordia con cui egli si carica della tentazione altrui.
Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano: a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra




BENEDETTO XVI. GLI ANGELI

CAPPELLA PAPALE PER L’ORDINAZIONE EPISCOPALE DI SEI ECC.MI PRESULI , 29.09.2007


Cari fratelli e sorelle,

Celebriamo questa Ordinazione episcopale nella festa dei tre Arcangeli che nella Scrittura sono menzionati per nome: Michele, Gabriele e Raffaele. Questo ci richiama alla mente che nell’antica Chiesa – già nell’Apocalisse – i Vescovi venivano qualificati "angeli" della loro Chiesa, esprimendo in questo modo un’intima corrispondenza tra il ministero del Vescovo e la missione dell’Angelo. A partire dal compito dell’Angelo si può comprendere il servizio del Vescovo. Ma che cosa è un Angelo? La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci lasciano scorgere due aspetti. Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola "El", che significa "Dio". Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui. Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terra. Proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi. Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri – angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio. Se la Chiesa antica chiama i Vescovi "angeli" della loro Chiesa, intende dire proprio questo: i Vescovi stessi devono essere uomini di Dio, devono vivere orientati verso Dio. "Multum orat pro populo" – "Prega molto per il popolo", dice il Breviario della Chiesa a proposito dei santi Vescovi. Il Vescovo deve essere un orante, uno che intercede per gli uomini presso Dio. Più lo fa, più comprende anche le persone che gli sono affidate e può diventare per loro un angelo – un messaggero di Dio, che le aiuta a trovare la loro vera natura, se stesse, e a vivere l’idea che Dio ha di loro.

Tutto ciò diventa ancora più chiaro se ora guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi. C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del "serpente antico", come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche "l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte" (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. È compito del Vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo? L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1). Cari amici, siate veramente "angeli custodi" delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.

Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38). Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo "sì" alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio. Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano. Nell’Apocalisse dice all’"angelo" della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (3, 20). Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi. Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo. Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.

San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.

"Rimanete nel mio amore", ci dice oggi il Signore nel Vangelo (Gv 15, 9). Nell’ora dell’Ordinazione episcopale lo dice in modo particolare a voi, cari amici. Rimanete nel suo amore! Rimanete in quell’amicizia con Lui piena di amore che Egli in quest’ora vi dona di nuovo! Allora la vostra vita porterà frutto – un frutto che rimane (Gv 15, 16). Affinché questo vi sia donato, preghiamo tutti in quest’ora per voi, cari fratelli. Amen.




Il sogno di Dio: una casa per tutti i popoli

Suor Maria Gloria Riva


Questo brano, molto denso, è caro alla tradizione cristiana e rappresenta uno dei due poli dell’esperienza di Giacobbe (l’altro sarà la lotta con Dio presso il fiume Jabbok). 
Il sogno rappresenta qui la combinazione di una visione, la scala, e di una teofania. Giacobbe è colto dal sonno come Abramo, nella notte in cui stipulò l’alleanza con Dio, e come Balaam solo attraverso la visione cade il velo dei suoi occhi e vede la visone dell’Onnipotente.
La porta del cielo era, nella cosmologia antica, la porta di congiunzione tra cielo e terra, il punto di entrata e di uscita delle comunicazioni con il mondo celeste.
Il riferimento alla scala è molto concreto e riporta alle ziqqurat babilonesi, torri a gradini destinate al culto alla cui sommità si ergeva un santuario, dimora del Dio della città ove la torre era situata. La torre di Babele è precisamente una di queste ziqqurat infatti, sebbene l’etimologia popolare spieghi il nome Babele a partire dalla radice bll, che significa confondere (con riferimento alla confusione delle lingue), il nome significa in realtà bab-ilu cioè porta del Dio. Quella contemplata da Giacobbe è invece la shar hashamaìm cioè la porta del cielo ed egli chiamerà il luogo BetEl, cioè casa di Dio.Se la scala di Babele rappresenta il tentativo dell’uomo di toccare il cielo e il conseguente fallimento dell’unità del genere umano (prima della costruzione della torre infatti i popoli avevano una sola lingua), la scala offerta a Giacobbe in visione è segno del dono di Dio che farà di tutte le nazioni un solo popolo, il popolo di Dio.
La benedizione che Dio promette a Giacobbe: «La tua discendenza sarà come la polvere della terra e ti estenderai a occidente e ad oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E saranno benedette per te e per la tua discendenza tutte le nazioni della terra», si ricollega direttamente a quella di Abramo (cfr. Gn 12). Tuttavia notiamo che ad Abramo Dio aveva detto: «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra», ad Isacco disse: «Ti benedirò e moltiplicherò la tua discendenza per amore di Abramo, mio servo» mentre a Giacobbe proclama: per te per la tua discendenza saranno benedette le nazioni della terra. Abramo fu egli stesso benedizione, Isacco fu il benedetto, mentre Giacobbe fu causa di benedizione tra le genti, anzi il popolo di Dio stesso in Giacobbe diviene causa di benedizione tra i popoli. Per questa missione Giacobbe - a differenza di Abramo e Isacco - riceve da Dio la promessa di assistenza: «Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai».Il gesto che segue, quello di innalzare la stele (cioè una massebâ, pietra che poteva raggiungere anche 2-3 metri di altezza con la quale si ricordava un fatto sacro) e di ungerla è denso di significato. É la prima pietra di un santuario che attraverserà i secoli: il santuario di Bet’el ha goduto di molta fama anche al tempo dei grandi profeti come Amos e Geremia. Segno a sua volta di un tempio che segnerà il dimorare di Dio in mezzo al suo popoloI padri della chiesa, rifacendosi alle parole di Gesù a Natanaele hanno visto nella visione della scala l’incarnazione del Verbo, quale ponte gettato tra cielo e terra (persino Calvino vide nella scala la figura di Cristo: mediante il quale il ministero degli angeli la giustizia e la vita e tutte le grazie dello Spirito Santo discendono come per gradini fino a noi). Mentre nella pietra piantata a terra e unta con olio, essi videro Cristo stesso, l’Unto per eccellenza, santuario che le mani di Dio hanno fondato. Egli è il vero tempio, l’Emmanuele cioè il Dio con noi, ed insieme il vero popolo di Dio, primogenito tra molti fratelli. 
La risposta di Giacobbe alla rivelazione divina è triplice: «JHWH sarà il mio Dio; Questa pietra sarà una casa di Dio; di quanto mi darai ti offrirò la decima».Giacobbe si lega perciò a Dio con triplice voto: uno personale, uno che lo designa fondatore di un santuario e un terzo che lo rende iniziatore della decima. Poiché nell’esperienza di Giacobbe va vista in filigrana l’esperienza di tutto il popolo, ecco che abbiamo qui i fondamenti della religiosità di Israele: Israele è proprietà particolare di Dio; nei santuari, meta di pellegrinaggi si fonda la ricerca di una patria, di una terra che segni la piena comunione con Dio e tra gli uomini; l’offerta della decima fa di Israele una nazione santa e un popolo di sacerdoti, mediatore cioè tra la realtà mondana (il creato) e il divino (l’offerta).





L'appellativo «angelo» designa l'ufficio, non la natura
Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa

 E' da sapere che il termine «angelo» denota l'ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi son chiamati arcangeli.
Per questo alla Vergine Maria non viene inviato un angelo qualsiasi, ma l'arcangelo Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi.
A essi vengono attribuiti nomi particolari, perché anche dal modo di chiamarli appaia quale tipo di ministero è loro affidato. Nella santa città del cielo, resa perfetta dalla piena conoscenza che scaturisce dalla visione di Dio onnipotente, gli angeli non hanno nomi particolari, che contraddistinguano le loro persone. Ma quando vengono a noi per qualche missione, prendono anche il nome dall'ufficio che esercitano.
Così Michele significa: Chi è come Dio?, Gabriele: Fortezza di Dio, e Raffaele: Medicina di Dio.
Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele, perché si possa comprendere, dall'azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. L'antico avversario che bramò, nella sua superbia, di essere simile a Dio, dicendo: Salirò in cielo (cfr. Is 14, 13-14), sulle stelle di Dio innalzerò il trono, mi farò uguale all'Altissimo, alla fine del mondo sarà abbandonato a se stesso e condannato all'estremo supplizio. Orbene egli viene presentato in atto di combattere con l'arcangelo Michele, come è detto da Giovanni: «Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago» (Ap 12, 7).
A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato Fortezza di Dio; egli veniva ad annunziare colui che si degnò di apparire nell'umiltà per debellare le potenze maligne dell'aria. Doveva dunque essere annunziato da «Fortezza di Dio» colui che veniva quale Signore degli eserciti e forte guerriero.
Raffaele, come abbiamo detto, significa Medicina di Dio. Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità. Fu giusto dunque che venisse chiamato «Medicina di Dio» colui che venne inviato a operare guarigioni.


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