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Giovedì della XXX settimana del Tempo Ordinario. Approfondimenti






Giuliana di Norwich (tra 1342-1430 cc), reclusa inglese 
Le Rivelazioni del Divino Amore, cap. 31


« Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli »


        La sete spirituale di Cristo finirà. Ecco la sete : il suo intenso desiderio di amore verso di noi che durerà fino a quando ne saremo testimoni al giudizio universale. Perché gli eletti, che saranno la gioia e la felicità di Gesù per l'eternità, sono ancora, in parte, qui giù e, dopo di noi, ce ne saranno altri fino all'ultimo giorno. La sua ardente  sete è di averci tutti in Lui, per la sua più grande felicità - è quello che mi sembra, almeno...


        In qualità di Dio, Egli è la beatitudine perfetta, felicità infinita che non potrebbe né aumentare né diminuire... Ma la fede c'insegna che, per la sua umanità, ha voluto subire la Passione, soffrire ogni tipo di dolore e morire per amore per noi e per la nostra felicità eterna... Come Egli è la nostra Testa, Cristo è glorificato e non può più soffrire; ma poiché è anche il Corpo che unisce tutti i suoi membri (Ef 1,23), non è ancora del tutto glorioso e impassibile. È per questa ragione che egli prova sempre questo desiderio e questa sete, che risentiva sulla croce (Gv 19,28), e che erano, mi sembra, in lui dall'eternità. Così è ora e così lo sarà fino a quando l'ultima anima salvata sarà entrata in questa beatitudine. 


        Sì, come è vero che in Dio c'è la misericordia e la pietà, così c'è in lui anche la sete e questo desiderio. In virtù di questo desiderio che è in Cristo, anche noi lo desideriamo : diversamente nessuna anima andrebbe in Cielo. Questo desiderio e questa sete provengono, credo, dalla bontà infinita di Dio, come la sua misericordia...; e questa sete durerà in Lui, fino a quando saremo nel bisogno, attirandoci alla sua beatitudine.


Origene. La Gerusalemme terrena e la Gerusalemme celeste


"era dunque nei cieli una realtà (veritas) e sulla terra la sua ombra e la sua
imitazione (exemplar et umbram). E finché sulla terra esisteva quest’ombra
c’era una Gerusalemme terrena (Hierusalem terrestris)… Ma quando con la
venuta del Salvatore nostro Dio … vennero a cadere l’ombra e l’imitazione
(umbra et exemplaria ceciderunt). Gerusalemme è crollata (cecidit enim
Hierusalem)… sicché ormai il luogo in cui si deve adorare non è più sul monte
Garizim, né a Gerusalemme (segue citazione di Lc 4,21-23; necque in Hierosolymis sit locus)… Se dunque, giudeo, quando vieni a Gerusalemme, città
terrena (ad Hierusalem civitatem terrenam), e la troverai abbattuta, ridotta in
cenere e polvere, non piangere… ma al posto della città terrena cerca quella
celeste. Guarda in alto e vi troverai «la Gerusalemme celeste (Hi e rusal em
coelestem) che è madre di tutti» (cf. Gal 4,26).  (Origene, In Jos. XVII,1)


Prof. R. J. Zwi Werblowsky  GERUSALEMME

Geografia sacra


Una via attraverso la quale gli uomini hanno acquisito e, come forse sarebbe meglio dire, cristallizzato il loro senso del sacro è stata quella del loro rapporto con lo spazio (1). Ci sono delle terre sante, cioè delle terre che sono considerate sante in virtù del vincolo che unisce i gruppi umani alla terra su cui vivono. E' un vincolo di gratitudine e di amore che frequentemente, e a volte impercettibilmente, diviene venerazione. In un tempio di Benares, che alcuni di voi hanno forse visitato, l'oggetto di culto è una carta geografica della Madre India. Ci sono dei luoghi santi, distinti dalle terre sante, luoghi dove il divino si è manifestato, in un modo o in un altro, agli occhi di uomini e donne credenti, luoghi che sono amati e venerati come testimonianze concrete, tangibili, spazialmente definite, della realtà del divino, divenuto visibile attraverso esperienze o tradizioni di teofanie, attraverso rivelazioni, miracoli, o le vite di uomini santi. Ci sono delle città sante distinte dai luoghi santi: città che hanno acquisito la loro santità in seguito a circostanze o eventi storici, o città che sono sante perché sia in teoria sia in pratica sono state costruite in maniera tale da riflettere una realtà cosmica, e sono una specie di immagine spaziale microcosmica dell'universo e della sua struttura divina come è stata concepita e espressa mitologica (2). Ci sono città che sono sante perché custodiscono un oggetto sacro o una reliquia: La Mecca, Angkor, Benares, Lhasa, Roma e molte altre. Come esempio moderno si può citare la città di Tenri (vicino a Nara. in Giappone) che è una città santa non soltanto perchè non è stata costruita intorno all' "ombelico della terra", il sacro kanrodai, ma anche perché è stata edificata secondo un piano divino.


Una sola città è l'oggetto del nostro studio, ma una città alla quale tre grandi religioni, fra loro connesse, sono strettamente legate da vincoli di venerazione e di amore. Tenteremo di capire che cosa Gerusalemme ha rappresentato per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, e che cosa rappresenta per loro oggi. Tenteremo di vedere e comprendere le differenze esistenti nella natura del legame, nelle origini del carattere sacro, e nell'essenza e nelle funzioni della santità implicita.


La tradizione ebraica: Sion e Israel


La tradizione ebraica è profondamente differente. Non è necessario qui entrare nella questione della preistoria di Gerusalemme, la "fondazione della divinità Shalem", e del suo ruolo come città santa, cioè come centro di culto nei tempi precedenti alla presenza degli israeliti, dei gebusei e anche delle popolazioni anteriori ai gebusei. Per il nostro scopo è sufficiente ricordarci del fatto che Gerusalemme non fa parte delle più antiche tradizioni ebraiche, quali appaiono nei corrispondenti strati del testo biblico. Gerusalemme non era il maggior centro di culto né all'epoca dei patriarchi né durante il periodo immediatamente successivo alla conquista ebraica. I centri di culto erano Shilo, Beth-El, Shechem e altri. L'episodio dell'incontro di Abramo con Melchisedek, il sacerdote-re di Shalem (Gen.14) riflette probabilmente un'ideologia più tarda, posteriore a David, tendente a rafforzare il legame della città santa con il progenitore della nazione. Gerusalemme è entrata nella storia ebraica e nella coscienza storico-religiosa degli ebrei all'epoca di David. La storia della conquista della città, così come le ragioni che indussero David a farne un centro simbolico--sia rituale sia politico--sono troppo note perché si debba ripeterle qui. E' sufficiente dire che David fece di Gerusalemme la pietra angolare dell'unificazione religiosa, cultuale e nazionale del popolo d'Israele. Come ha scritto il Prof. Shemaryahu Talmon (22). "Gerusalemme divenne così il simbolo e l'espressione più significativa del passaggio dalla 'condizione di popolo' alla formazione di una 'nazione' e di uno 'stato'. Ma la città non fu mai completamente subordinata a questo nuovo fenomeno sociale, né con esso identificata, e perciò, quando lo stato cessò di esistere, Gerusalemme non perse la sua importanza e il suo valore simbolico per il popolo ebraico. La città, che nell'antichità aveva subito una decisiva trasformazione del suo significato, poté facilmente adattarsi alle successive diverse situazioni storiche. Ed essa, in realtà, ha fatto così per molti secoli senza perdere il suo prestigio e il valore simbolico che le era stato conferito da David". Invero, l'aspetto sorprendente e cruciale della storia è la profondità e la tenacia con cui la "coscienza di Gerusalemme" (come vorrei chiamarla) ha messo radici nel sentimento, nella fede, nella teologia degli ebrei. Gerusalemme era la città che Dio aveva scelto, e la scelta di questa città era parte fondamentale del patto di Dio con il Suo popolo, come del Suo patto con David e la sua discendenza, ed era eterno come il Suo patto con la natura (cf. Geremia 31:34-39 e 33:14-26).


Il significato di Gerusalemme, che ha poi determinato l'autocomprensione e la coscienza storica ebraica, è compiutamente formulato nei Profeti e nel libro dei Salmi. Gerusalemme e Sion sono sinonimi, e sono giunti a significare non soltanto la città ma tutta la terra e il popolo ebraico (ossia quanto di esso rimaneva). Quando l'autore delle Lamentazioni piange sulla distruzione della "figlia di Gerusalemme" e sull'esilio dei "figli di Sion" si riferisce evidentemente al popolo; e quando il profeta noto come il Deutero-lsaia rapsodicamente esulta per la gioia di Sion quando i suoi figli ritorneranno a lei dalla dispersione, egli chiaramente si riferisce al popolo e al paese come entità storiche. La città, il paese e il popolo divengono un tutto unico in una grande fusione simbolica. Sion, cioè Gerusalemme, è la "Madre" anche nel linguaggio simbolico ebraico, e le stesse figure stilistiche che l'idioma cristiano usa in rapporto alla 'mater ecclesia', sono usate dagli antichi rabbini per la keneseth Yisrael, identificata con Sion e Gerusalemme in quanto 'madre'. Queste equazioni simboliche sono un tratto distintivo permanente dell'esperienza ebraica fin dall'epoca del Salmista. L'identificazione di Sion e Gerusalemme con la madre vedova, addolorata e in lutto, che un giorno esulterà e gioirà di nuovo quando i suoi figli si riuniranno in lei, è uno dei motivi fondamentali delle immagini tradizionali ebraiche fin da quando il modello fu stabilito dal Deutero-Isaia. I dottori del Talmud, nei loro numerosi commenti su questo tema, hanno formulato più esplicitamente ciò che era già implicito nei profeti e in molti salmi.


Il versetto del profeta (Isaia 49:14) "E Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonata" è parafrasato nel Talmud (23). - come una cosa naturale - "l'adunanza d'Israele ha detto:...". L'espressione liturgica perfetta di questo simbolismo si trova nel rituale ebraico del matrimonio, in cui una delle benedizioni liturgiche dice così: "Possa colei che era sterile (cioè Sion) essere estremamente felice e esultare quando i suoi figli saranno riuniti in lei nella gioia. Benedetto sii Tu, o Signore, che rendi lieta Sion per mezzo dei suoi figli". Un'altra versione della stessa benedizione termina con le parole "...che rendi lieta Sion e ricostruisci Gerusalemme". In modo simile una delle benedizioni che si recitano ogni sabato dopo la lettura del brano profetico dice: "Abbi pietà di Sion che è a dimora della nostra vita... Benedetto sii tu, o Signore, che fai gioire Sion nei suoi figli".


Nella sfera di questo studio non è possibile esaminare, nemmeno in una rapida rassegna, il ruolo di Sion, o di Gerusalemme, nella liturgia quotidiana, nella benedizione di ringraziamento dopo ogni pasto, e nella poesia e negli scritti omiletici dell'ebraismo medievale. Il punto che io desidero sottolineare qui è la funzione semantica di un termine geografico per designare un'entità storica, ma in maniera tale che la storia rimane ancorata a un centro geografico concreto, sia che si tratti del luogo di origine (il patto della terra promessa e della città eletta) e della catastrofe e della sofferenza (l'esilio, la dispersione), sia che si tratti del luogo escatologico (della redenzione e del futuro ritorno). La tradizione rabbinica ha raccolto e sviluppato in un suo modo particolare a nozione di una Gerusalemme celeste che aveva cominciato a diffondersi e a evolversi nel periodo intertestamentario. Ma nella tradizione rabbinica la priorità è invertita rispetto alla tradizione cristiana, nella quale il simbolismo della Gerusalemme celeste tende a prevalere. La liturgia, la pietà popolare, il simbolismo religioso, e la speranza messianica--anche nelle sue forme laiche dei secoli XIX e XX--si riferiscono anzitutto e soprattutto alla Gerusalemme terrestre come ;simbolo della riunione del popolo nella sua terra promessa, su questa terra. Un detto rabbinico molto impressionante va al di là del modo abituale di invertire la cosmologia apocalittica, secondo la quale la Gerusalemme terrestre non è che un riflesso della Gerusalemme celeste. Secondo questo midrash(24). "voi trovate anche che c'è una Gerusalemme n alto, corrispondente alla Gerusalemme in basso. Per puro amore della Gerusalemme terrestre, Dio se ne è fatta una in alto". In altre parole, la Gerusalemme terrestre non riflette un archetipo celeste, nè trae il suo significato dal fatto che rispecchia una realtà celeste. Essa è un valore in se stessa, e come tale è l'archetipo della Gerusalemme celeste di Dio. Secondo questa tradizione, la pienezza spirituale non può essere raggiunta riducendo al minimo la sfera storica con le sue realtà materiali, sociali e politiche. La Gerusalemme ideale, restaurata, della visione di Geremia è una città, anzi un centro politico, pieno di attività, di vita e di popolo: "Poiché, se voi farete realmente queste cose, dei re assisi sul trono di David entreranno per le porte di questa casa (cioè questa città), montati su carri e su cavalli, essi, i loro servitori e il loro popolo" (Geremia 22:4). Si può notare incidentalmente il plurale "dei re assisi sul trono" nella visione di Geremia. La nozione escatologica del messia uno figlio di David non si era ancora sviluppata. Cito ancora una volta il prof. Shemaryahu Talmon: "Tuttavia, anche al culmine del suo sviluppo, l'idea della Gerusalemme celeste come è stata concepita nel pensiero ebraico e anche nell'immaginazione mistica, non ha mai perduto il contatto con la realtà terrestre. Un definito senso di questo legame con la terra... sembra permeare la religione normativa ebraica in tutte le sue ramificazioni" (25). Il più antico riferimento a una Gerusalemme celeste nella letteratura talmudica pone le seguenti, e alquanto sorprendenti, parole nella bocca di Dio stesso, che dice: "lo non entreró nella Gerusalemme celeste finchè non sarò entrato perima nella Gerusalemme terrestre (26).


Se è vero. come io ho suggerito che i termini sinonimi Gerusalemme e Sion hanno simbolizzato la realtà storica di un popolo e il suo legame a una terra, si può forse giungere a una migliore comprensione (benché non necessariamente a una affermazione) delle fasi moderne e laiche di questa realtà storica. Il movimento nazionale ebraico moderno non ha preso il suo nome né da quello di un paese o di un popolo, ma da quello di una città: Sionismo. L'inno del movimento sionistico, che nel 1948 è diventato l'inno nazionale d'Israele, parla dell'"occhio che guarda verso Sion" e della millenaria speranza di un ritorno alla "terre di Sion e Gerusalemme". L'inno, noto come ha-Tiqvah ("la speranza"), è invero poesia povera, goffa e sentimentale, ma nonostante ciò esprime l'essenziale consapevolezza del popolo ebraico che al centro della sua esistenza c'è un indissolubile legame con la terra, e che al centro di questo centro è Sion, la città di David. Gerusalemme e Sion sono nomi geografici che hanno un significato al di là della pura e semplice geografia, ma che non restano al di fuori della geografia: essi sono "il luogo, la dimora e il nome" di un'esistenza storica e della sua continuità --un'esistenza che per gli ebrei religiosi ha dimensioni religiose e per gli ebrei laici è suscettibile di una formulazione laica.


Gerusalemme nella tradizione cristiana


Ho menzionato ora la letteratura dei fadha'il al-Kuds e la sua notevole fioritura durante il periodo delle crociate, cioè quando la nostalgia dei ,cristiano per la Terra Santa e per la Gerusalemme terrestre, come anche altri impulsi meno lodevoli e meno cristiani, aveva raggiunto il suo acme. 'entusiasmo dei cristiani per la città santa celebrò il suo trionfo, in maniera molto poco cristiana, con la conquista di Gerusalemme da parte dei crociati nel 1099. L'entusiasmo musulmano trionfò a sua volta con la riconquista della città da parte di Saladino e con la rimozione della croce dorata dalla sommità del duomo dove era stata posta dai crociati. Ma 'atteggiamento dei cristiani verso la Terra Santa e la Città Santa è molto più complesso e non è stato sempre e inequivocabilmente uguale a quello dei crociati. Un incidente dei tempi della seconda crociata illustra questa ambiguità.


Intorno al 1129, un chierico inglese di nome Filippo, dalla diocesi di Lincoln partì in pellegrinaggio per la Terra Santa. Strada facendo egli si fermò a Clairvaux (Chiaravalle). Poco dopo il vescovo di Lincoln ricevette una lettera dall'abate di Clairvaux, che gli annunciava che -Filippo era arrivato sano e salvo e molto rapidamente alla sua destinazione, e che intendeva rimanere lì per sempre. "Egli è entrato nella Città Santa e ha scelto il suo retaggio... Egli non è più un uomo che ~a alla ricerca della sua via, ma un abitante pio e un cittadino stabile di Gerusalemme". Ma questa Gerusalemme, "se voi volete saperlo, è ,Clairvaux. Essa è la Gerusalemme unita a quella che è in cielo da una profonda pietà, dalla conformità della vita e da una certa affinità spirituale" (11)


a vera dimora del cristiano--secondo la concezione medievale--è la Gerusalemme celeste. Non che egli debba disprezzare la Gerusalemme terrestre, ma la vera Gerusalemme terrestre che è "unita a quella che è in :cielo" è dovunque si viva la vita cristiana perfetta. Si riconosce in questa lettera la voce dello stesso abate di Clairvaux che, nel 1131, rifiutò 'offerta fatta dal re crociato di Gerusalemme, Baldovino II, del sito di San ,Samuele (noto anche come Monte della Gioia o Mons Gaudii) a nord- ovest di Gerusalemme, e che incoraggiò i Premostratensi a stabilirvisi al ) posto dei Cistercensi. Eppure lo stesso San Bernardo predicò la seconda :crociata e favorì l'istituzione del nuovo ordine dei Templari. C'è qui, "in nuce", in essenza, la tarda versione medievale di una fondamentale ambiguità, o dialettica, cristiana.


invero, per molti secoli la cristianità si è dibattuta fra i due corni del dilemma della Gerusalemme celeste contrapposta alla Gerusalemme terrestre (12). Il Nuovo Testamento stesso manifesta una notevole tendenza verso ciò che si potrebbe chiamare una "deterritorializzazione" del ,concetto di santità, e una conseguente dissoluzione delle sue componenti spaziali. Il centro della santità non è il Tempio e il suo Sancta Sanctorum, ma Cristo; non la Città Santa o la Terra Santa costituiscono l"'area" della santità, ma la nuova comunità, il corpo di Cristo. (13). Tuttavia per le generazioni posteriori di cristiani, la terra in generale e Gerusalemme in particolare erano la scena sulla quale si erano svolti gli eventi più importanti della storia. Il mistero dell'incarnazione e della redenzione aveva avuto luogo lì. L'atto divino della salvazione, nonostante il suo significato universale--e cosmico, secondo alcuni dei primi Padri della Chiesa--aveva avuto lì la sua sede e la sua manifestazione incarnata. La Natività e gli eventi che l'avevano preceduta, l'infanzia e la maturità di Cristo, il suo ministero e la sua predicazione, il compimento del suo ministero nella sua passione, la sua resurrezione e la sua ascensione, la nascita della Chiesa nel giorno della Pentecoste e gli inizi della prima comunità cristiana, tutti questi fatti avvennero in questa particolare città e in questa terra, e non importa se i luoghi nei quali secondo la tradizione essi si svolsero siano storicamente "autentici" o no.


Nessuna meraviglia, perciò, che i cristiani abbiano sempre considerato e amato la Palestina come una "terra santa" e Gerusalemme come una "città santa", e che i pellegrini siano venuti in tutti i tempi a visitare questi luoghi collegati al mistero della salvazione e a permeare le loro anime delle benedizioni di questo mistero nel luogo stesso della sua manifestazione terrestre e storica. Tuttavia si affermava contempo- raneamente anche la già menzionata tendenza alla "deterritorializzazione", e molte delle grandi figure della storia della cristianità esprimevano dei dubbi su ciò che a loro sembrava, almeno potenzialmente, un modo rozzo, non spirituale, e perciò imperfetto, di avvicinarsi al mistero. Commentando le parole di Gesù "se qualcuno ha sete, lasciate che venga a me e che beva" (Giovanni 7:37), Sant'Agostino ha scritto:


Quando abbiamo sete, noi dobbiamo venire non con i nostri piedi ma con i nostri sentimenti, dobbiamo venire non con il nostro camminare ma con il nostro amore. in senso interiore amare e camminare. Una cosa e muoversi con il corpo, una tra cosa è muoversi con il cuore. Chi cammina con il corpo cambia di posto con il movimento del corpo, chi cammina con il cuore cambia i suoi sentimenti con ilmovimento del cuore(14).


Altre voci si levavano contro i pellegrinaggi, mettendo in dubbio il loro valore. San Gregorio di Nissa in una delle sue lettere scriveva (15):"Consigliate dunque ai fratelli di elevarsi dal corpo a Dio, piuttosto che dalla Cappadocia alla Palestina", ma egli stesso aveva fatto un pellegrinaggio a Gerusalemme. San Girolamo, sebbene avesse scelto di trascorrere la parte migliore della sua vita a Betlemme, dichiarava (16):"Il santuario celeste è aperto dalla Britannia non meno che da Gerusalemme, perché il Regno di Dio è dentro di voi", e molti scrittori mistici posteriori lasciavano intendere che i pellegrinaggi non erano sempre o necessariamente un mezzo di santificazione. Il protestantesimo a adottato questa tendenza della tradizione cristiana, esaltandola elaborandola, e non è necessario ricordare la beffa del poeta puritano sua descrizione del paradiso degli stolti (17): Qui vagano i pellegrini, che si spersero cosi lontano per cercare sul Golgota, morto, colui che vive in cielo.


Altri hanno sognato di una Gerusalemme terrestre ma onnipresente, una Gerusalemme che potrebbe essere costruita "nel verde e ameno paese l'Inghilterra". Ma, ancora una volta, come per spiegare la suddetta .ambivalenza cristiana su questo punto, sono stati gli studiosi protestanti che hanno dato il maggiore impulso ai moderni studi di archeologia e antichità bibliche (18).


La Gerusalemme celeste


In linea generale, tuttavia, la religiosità cristiana si è basata sul principio che il movimento del corpo e quello del cuore non sono incompatibili e che, al contrario, il primo può stimolare e favorire il secondo. Ma questa soltanto una parte--e forse la meno importante--della questione. Noi abbiamo già incontrato un leitmotiv fondamentale del pensiero cristiano ella lettera di San Bernardo al vescovo di Lincoln: l'idea della Gerusalemme celeste, che è la vera, l'essenziale, e di cui ogni possibile Gerusalemme terrestre non è che un pallido riflesso. Le origini di questa concezione di una Gerusalemme celeste si trovano nell'ebraismo dell'epoca del secondo Tempio; riparleremo fra breve di ciò, così come quella sviluppo di questa idea nel periodo posteriore alla distruzione del secondo Tempio, nell'ebraismo tannaitico e amoraico, cioè nell'ebraismo rabbinico (19) Il monte Sion e la città del Dio vivente sono esplicitamente identificati con la Gerusalemme celeste nell'Epistola agli ebrei 12:22, e non c'è nessun bisogno di citare per intero la visione apocalittica della gloriosa Gerusalemme celeste, brillante d'oro e adorna di zaffiri, come è descritta nel capitolo 21 dell'Apocalisse di San Giovanni. Questo capitolo a avuto una durevole influenza sul simbolismo cristiano, ma si potrebbe forse osare una generalizzazione e dire che questa influenza si è sentita soprattutto nel quadro della tendenza alla spiritualizzazione e alla deterritorializzazione", di cui si è già fatta menzione. Gerusalemme è essenzialmente la Gerusalemme celeste, e la Gerusalemme celeste è archetipo della Chiesa. Come ogni città che è una metropoli, cioè una città che nel senso letterale del termine e nel senso di archetipo è una madre per i suoi figli


L'esame dei canti di Sion nella poesia cristiana meriterebbe di essere l'oggetto di uno studio particolare. Chi non ha ascoltato con emozione e batticuore la struggente speranza di salvazione espressa in più di un 'Negro spiritual' sul tema di Gerusalemme? Chi non ha sentito un'esaltazione spirituale nell'ascoltare il canto corale tedesco Jerusalem, Du hochgebauie Stadt, così ricco di tensioni? Quanto a 'Gerusalemme d'oro', strettamente collegata per la maggior parte degli israeliani alla bellissima canzone di Naomi Shemer, che dal 1967 è divenuta un'espressione del sentimento popolare israeliano ancor più genuina dell'inno nazionale, pochi di essi sanno, io sospetto, che nella raccolta degli inni della chiesa anglicana si trova un poema recante lo stesso titolo, il quale, a sua volta, trae origine da un più antico inno medievale. Nel rito latino, ogni volta che viene consacrata una nuova chiesa-- poiché ogni chiesa riflette la chiesa celeste in cui tutti i figli di Dio sono riuniti si canta il seguente bellissimo inno:


Urbs Jerusalem beata
Dicta pacis visio
auae construi ur in coelis
Vivis ex lapidibus
Plateae et muri ejus
Ex auro purissimo


così anche la Gerusalemme celeste," la gerusalemme che è in alto", è, secondo l'apostolo paolo (galati 4:26), "la madre di tutti noi". infatti, la città come madre, cioè la gerusalemme celeste che è la madre di tutti noi, si identifica pienamente con la mater ecclesia l'eliminazione, a tutti i fini pratici, dell'escatologia storica concreta nei secoli che intercorrono fra l'apocalisse e sant'agostino, ha prodotto una immagine cristiana della gerusalemme celeste che è puramente spirituale. questa entità celeste e spirituale, di cui la chiesa in questo mondo è un riflesso terrestre, è la dimora di dio che risiede in mezzo al suo popolo fedele e santificato. questa visione spirituale dell'umanità unita a dio, largamente espressa nella formulazione di immagini allegoriche e omiletiche, è stata soltanto in parte controbilanciata dalle tradizioni della religiosità popolare, dai pellegrinaggi, e dalle esplosioni di entusiasmo come quelle di cui dà testimonianza il periodo delle crociate.


Ma forse la composizione più bella e commovente di tutta la poesia cristiana su questo tema è un canto scritto da Abelardo, non in onore di Eloisa, ma in onore di quel giorno perfetto che è Sabato eterno e eterna gioia. Nella scia del simbolismo tradizionale, Abelardo identificava questo eterno Sabato con la Gerusalemme celeste, I'uno simbolo cosmico-temporale, l'altra simbolo cosmico-spaziale di eterna benedizione e perfezione:


O quanta qualia
Sunt illa sabbata
auae semper celebrat
Superna curia
Quae fessis requies
auae merces fortibus
Cum erit omnia
Deus in omnibus
Vera Jerusalem
Est illa civitas
Cujus pax iugis est
Summa iucunditas.


Non so che cosa avrebbe detto Abelardo se avesse saputo che questa combinazione del simbolismo di Gerusalemme e del Sabato, giunta a lui dal tesoro delle figurazioni allegoriche cristiane, avrebbe prodotto più tardi alcuni fenomeni molto strani nell'ambito delle sette. Il grande risveglio religioso di molte tribù antu nell'Africa del sud (e sul quale il vescovo Bengt Sundkler ha scritto un pregevolissimo libro2') ha dato vita a centinaia di chiese e sette, di cui alcune hanno la parola Sion nella loro denominazione, altre usano anche la stella di David a sei punte come simbolo; alcune di esse hanno nomi strani come 'IThe Apostolic Jerusalem Church in Sabbath in Zion". Questo aspetto della que_ ._.._ esula dalla sfera del presente studio.


L'innologia cristiana è quasi esclusivamente celeste. Come dice il poeta mediovale, Gerusalemme è la


Urbs Sion unica, mansio mystica, condita coelo.


Quanto al fatto che Gerusalemme ha anche una dimensione terrestre, geografica, come città santa, la sua importanza consiste soprattutto nella sua qualità di testimonianza di avvenimenti sacri accaduti in alcuni luoghi che essa contiene--i "luoghi santi".



Note


1. Cf. Mircea Eliade, The Sacred and the Profane (1959), cap. I "Sacred Space and Making the World Sacred".


2. Cf. Werner Muller, Die heilige Stadt (1961). Lo studio erudito di Muller è interessante da molti punti di vista, ma molte delle sue affermazioni sulle teorie sulla questione del Monte Sion, Der Berg Zion und der Schopfungsfelsen (179 e sgg.), sono insostenibili e assolutamente erronee.


3. Questa tesi è stata avanzata da I. Horovitz in molti lavori, come anche nel suo articolo Mi'radj nella prima edizione della Encyclopaedia of Islam. La letteratura sul ruolo di Gerusalemme nell'Islam è amplissima. Bibliografie più o meno complete si trovano nelle enciclopedie pertinenti (e specialmente nella Encyclopaedia of Islam) alle voci al-Kuds, Isra, e Miradj, come anche negli articoli citati più avanti, alle note 6, 8 e 10. A questi si deve aggiungere lo studio erudito e estremamente chiarificatore di M. J. Kister "You shall set out for three Mosques" -- A Study of an Early Tradition", in Le Muséon 82 (1969), 173-196. Affinché non si pensi che il pubblico ebraico in Israelle sia poco informato su questo argomento, desidero segnalare qui--fra le più recenti pubblicazioni - due eccellenti articoli (in ebraico): H.Z. Hirschberg, "The Temple Mount in the Arab period (638-1099) in Jewish and Muslim Traditions, and in Historical Reality", in Jerusalem through the Ages (Atti del 250 Congresso d'archeologia della Società israeliana d'esplorazione (Gerusalemme 1068), 109-119. H. Lazarus Yaffeh, "The Sanctity of Jerusalem in Muslim Tradition" in Molad, N.S. 4, no. 21 (Agosto--Settembre 1971), 219-227.


4. Chiamare una cosa "ebraica" era nel medioevo uno dei metodi più pratici per screditarla; cf. l'abitudine degli scrittori cristiani ortodossi di denunciare le tendenze millenariste come una riprovevole "giudaizzazione".


5. Goldziher, Muhammedanische Studien, II (1890), 35 e sg.


6. S.D. Goitein, "The Sanctity of Jerusalem and Palestine in Early Islam", in Studies in Islamic History and Institutions (Leiden, 1966), 135-148; questo studio riassume molte ricerche e pubblicazioni dell'autore sull'argomento (generalmente in ebraico).


7. Questo aspetto della questione merita forse di essere esaminato con una cura maggiore di quella che abitualmente gli si dedica. Il ruolo di Gerusalemme nella fede e nel sentimento dei musulmani non è esaurientemente spiegato dal solo riferimento a certi eventi miracolosi della vita del Profeta. Gerusalemme è anche il luogo dello scioglimento finale della storia di questo mondo, è il luogo sul quale si concentrano tutte le credenze e le idee escatologiche, che non sono forse meno importanti-- per il fedele musulmano--dei riferimenti "storici" del ministero del Profeta.


8. Cf. E. Sivan, "Le caractère sacré de Jerusalem dans l'lslam aux Xlle-Xllle siècles", in Studia Islamica27 (1967),149-182, in particolare pp. 152 e sg.


9. A.L. Tibawi, "Jerusalem: its place in Islam and Arab History" in The Islamic quarterly12 (1968),185-218. La citazione è da p. 196.


10. Il prof. M. Kister ha scoperto in una moschea di San Giovanni d'Acri un manoscritto di ciò che potrebbe ben essere la più antica composizione di questo genere. Il testo (la cui esistenza era già nota, poiché è menzionato da al-Maqdisi, autore del XIV secolo) è stato composto a Gerusalemme non più tardi del 410 H/1019-1020. Il testo di al-Wasiti è in corso di pubblicazione (come tesi di M.A. per l'Università Ebraica di Gerusalemme) da parte di Y. Hason. Cf. anche E. Sivan, "The beginnings of the Fada'il Al-auds Literature" in Israel Oriental Studies 1 (1971 ), 263-271.


11. Lettera 64 dell'edizione benedettina (P.L. vol. 182, coll. 169-70); La traduzione inglese si trova in Bruno Scott James, The Letters of St. Bernard of ClairvauJ, 1953, 90-92.


12. Cf. L'articolo di J. Prawer (in ebraico) "Christianity between the Heavenly and the Earthly Jerusalem" nel volume Jerusalem through the Ages (vedi sopra, nota 4), 179-192


13. Su questo argomento cf. W.D. Davies, "Jerusalem and the Land: the Christian Tradition" in M.M. Tanenbaum and R.J.Z. Werbwlowsky (edd.), The Jerusalem Colloquium on Peligion, Peoplehood, Nation and Land (Jerusalem, 1972),115-154; cf. anche il contributo di Canon M. Warren nello stesso volume, 187 e sgg.


14. In loannis Evangelium, Tract XXXII (P.L. vol. 35, col. 1642).


15. P.G. vol. 46, col. 1013.


16. Epistle 58 (P.L. vol. 22, col. 581).


17. John Milton, ParadiseLostiii, 476-7.


18. J. Prawer, nell'articolo citato sopra, nota 12.


19. Cf. il mio articolo "Jerusalem --Metropolis of all the Lands" nel volume Jerusalem through the Ages (vedi sopra, nota 4), 172-178, e E.E. Urbach, "The Heavenly and the Earhly Jerusalem in Rabbinic Thought", ibid., 156171. L'ultimo articolo offre una bibliografia completa.


20. Cf. Lewis Mumford, The City in History (1961), 8-10 e 12-13, in particolare p. 13: "House and village, eventually the town itself, are woman writ large...


'house' or 'town' may stand as symbols for 'mother'."


21. B. Sundkler, Bantu Prophets in South Africa, 1948 (2nd, augmented ed.Oxford, 1961).


22. S. Talmon, "Die Bedeutung Jerusalem in der Bibel"







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