Speciale Avvento. Testi per prepararsi e viverlo






L’Avvento è riconoscere di avere bisogno

di Costanza Miriano

L’Avvento è riconoscere di avere bisogno. O meglio, forse non nell’ordine, cercare di imparare a cucinare entro il pranzo di Natale che ormai si è grandi ed è ora, trovare quella bambola mai prodotta che ci è stata chiesta perché tanto Gesù trova tutto, spedire qualche biglietto come se si fosse vere signore almeno qualche secondo prima della messa di mezzanotte, e riconoscere di avere bisogno.
Perché, cosa si aspetta se non si ha bisogno di nulla?
L’Avvento dunque è innanzitutto riconoscere la propria sofferenza o fatica o pesantezza di vivere, o vero e proprio dolore. È dirlo, una buona volta. Io da sola non posso nulla. Non posso neanche fare felici le persone a cui voglio bene, guarda un po’, perché non basto a me stessa figuriamoci se posso bastare a un altro.
Perché ci si prova, ma volere veramente bene è così difficile. Volere il bene dell’altro, saperlo guardare con lo sguardo che lui desidera, capire il suo mistero, rispettare il suo silenzio. Neanche con i figli si riesce, e sì che lo si vuole più di ogni altra cosa!
Ma non basta riconoscere di stare male. Quello può venire anche facile, al limite può anche essere qualcosa a cui ci si affeziona. Una cuccia in cui ci si accomoda. Una scusa, un rifugio, un’abitudine, un alibi. E quindi il passaggio che ci fa fare l’Avvento è distogliere lo sguardo da noi, dal nostro dolore, e posarlo sull’attesa di quello che ci può salvare. Perché Salvatore non è solo quello che ci salva dall’inferno, dalla morte, ma innanzitutto è quello che ci salva qui e ora, oggi, su questa terra. Gesù passa nella nostra tristezza e la rende feconda se noi siamo docili, se siamo disponibili a collaborare con lui, se siamo aperti alla vita (che poi è un po’ il principio dei metodi naturali: se vuoi agire, Dio, noi non ti mettiamo ostacoli).
Come avviene questo concretamente? Alzando lo sguardo dalla nostra sofferenza e guardando quella di qualcun altro. Riconoscere che il nostro è un vuoto strutturale da riempire amando gratis (formula non vissuta, purtroppo, ma imparata a memoria al corso vocazionale ad Assisi da piccola e rimasta scolpita nella zucca, come molte delle cose che spaccio per mie). Cominciare telefonando a quella persona noiosa, facendo la spesa per quell’altra, dando un aiuto economico a quella famiglia, accarezzando una piaga. E farlo con la certezza che è l’unico modo per convertirsi, cioè per essere felici, e che quella croce è misurata per noi, è della grandezza e della pesantezza esatte, al grammo, per le nostre spalle, per guarirci e farci felici.
I santi hanno fatto tutti così, si sono occupati di qualcun altro, e a volte, direi spesso se non sempre, nel momento del buio, del dubbio, della desolazione, della notte oscura. Ma nella notte brilla una luce, o anche solo la promessa di una luce. A volte basta per non lasciarsi morire.


L'Avvento e i Padri della Chiesa (PDF)

Tutte le prediche di Avvento di P. Raniero Cantalamessa

Sul mondo esausto spunta il fiore della speranza. In Avvento con sant'Ambrogio



L'AVVENTO DI J. RATZINGER



Celebrare l’Avvento non significa altro che parlare con Dio come ha fatto Giobbe 



da J. Ratzinger, Tempo di Avvento, Queriniana, Brescia, 2005, pp. 7-14

In queste settimane la chiesa, e noi con essa, celebriamo l’Avvento. Se cerchiamo di ripensare a quanto nella nostra infanzia abbiamo imparato a proposito dell’Avvento e del suo senso, ci ricorderemo che ci fu detto  che la corona dell’Avvento e le sue luci ci rammentano i millenni [forse le centinaia di millenni] della storia dell’umanità prima di Gesù Cristo. Tale corona rammenterebbe a noi e alla chiesa il tempo in cui un’umanità irredenta aspettava la redenzione. Ci rammenterebbe le tenebre di una storia ancora irredenta, in cui solo lentamente si accesero le luci della speranza, finché alla fine Cristo, la luce del mondo, venne e liberò il mondo dalle tenebre della mancanza di redenzione.

Inoltre ci ricorderemo d’aver imparato che questi millenni prima di Cristo sarebbero stati i tempi della perdizione provocata dalla caduta nel peccato, mentre abbiamo imparato a chiamare i secoli successivi alla nascita del Signore “anni salutis reparatae”, anni della salvezza ristabilita. Infine ricorderemo che ci fu detto che durante l’Avvento la chiesa non riflette soltanto sul passato, nel quale per l’umanità l’Avvento fu un tempo di mancanza di redenzione e di attesa, bensì guarda contemporaneamente al di là di sé alla schiera di coloro che non sono ancora battezzati, di quelli per i quali e ancor sempre tempo di ‘avvento’, perché essi attendono e vivono ancor sempre nell’oscurità della mancanza di redenzione.

Quando, come uomini del nostro secolo e forti delle esperienze del nostro secolo, ripensiamo a queste affermazioni imparate da bambini, ben difficilmente riusciamo ancora ad accettarle in misura piena. Le parole che parlano degli anni della salvezza successivi a Cristo, contrapposti a quelli antecedenti la sua nascita, non ci muoiono sulle labbra, anzi, non suonano come un’amara ironia, se pensiamo a date come quelle del 1914, 1918, 1933, 1939, 1945, a date che delimitano il periodo di guerre mondiali in cui milioni di uomini persero la vita spesso in circostanze terribili, a date che risvegliano il ricordo di atrocità, di cui l’umanità prima non sarebbe stata capace già per motivi puramente tecnici? Inoltre tra di esse c’è anche la data che ricorda l’inizio di un regime, che aveva portato a una feroce perfezione lo sterminio di massa, nonché la data che ricorda l’anno in cui la prima bomba atomica fu fatta brillare su una città popolata da creature umane e che con la sua luminosità accecante aveva dato inizio a una possibilità del tutto nuova di tenebre per il mondo.

Quando riflettiamo su queste cose, non riusciamo semplicemente più a suddividere la storia in tempi della perdizione e in tempi della salvezza. Se poi allarghiamo il nostro sguardo e prendiamo in considerazione i disastri e i guai che i cristiani [quindi persone che diciamo uomini ‘redenti’] hanno combinato nel nostro secolo e nei secoli precedenti, non siamo più capaci di suddividere i popoli del mondo in popoli che vivono nella salvezza e in popoli che vivono nella mancanza di salvezza. Se siamo onesti, non dipingiamo più un quadro in bianco e nero, che divide la storia e la cartina geografica in zone della salvezza e in zone della perdizione. Tutta la storia e tutta l’umanità ci appaiono piuttosto come una massa grigia, in cui brillano in continuazione lampi di un bene mai del tutto sopprimibile, in cui gli uomini cercano in continuazione di migliorarsi, ma in cui si verificano anche in continuazione cadute in tutte le forme spaventose del male.

E così nel corso di tale riflessione vediamo che l’Avvento non è [come forse si poteva dire in tempi passati] una sacra rappresentazione della liturgia, nella quale questa ci fa, per così dire, ripercorrere ancora una volta le vie del passato e ci mostra ancora una volta in maniera plastica com’era una volta la situazione, affinché possiamo adesso gustare con tanta maggior gioia e felicità la salvezza odierna.

Forse dovremo piuttosto ammettere che l’Avvento non è soltanto un ricordo e una rappresentazione del passato, bensì anche un nostro presente e una nostra realtà: nel corso di queste settimane la chiesa non tiene una sacra rappresentazione, ma ci indica quel che costituisce la verità anche della nostra esistenza cristiana. Il senso del tempo dell’Avvento nell’anno liturgico è anche quello di risvegliare in noi questa coscienza. Esso ci deve spingere a prendere posizione di fronte a questi dati di fatto, ad ammettere la grande mancanza di redenzione che non aleggiava solo una volta e che forse non aleggia ancora soltanto da qualche parte sul mondo, ma che è una realtà pure tra di noi e in mezzo alla chiesa.

Mi sembra che qui siamo non di rado vittime di un certo pericolo: non vogliamo vedere queste cose; viviamo per così dire con le luci abbassate, perché temiamo che la nostra fede non sia in grado di sopportare la luce accecante della realtà. Perciò ci schermiamo nei suoi confronti e la espelliamo dalla coscienza, per non cadere.

Ma una fede, che riconosce solo una metà della realtà o non la riconosce affatto più, è in fondo già una forma di rifiuto della fede o perlomeno una forma molto profonda di pusillanimità, la quale teme che la fede non sia in grado di guardare in faccia la realtà. Essa non ha il coraggio di ammettere di essere la forza che vince il mondo. Credere veramente significa invece guardare senza timore e a viso aperto tutta la realtà, anche se tale tutto depone contro l’immagine che per qualche motivo ci siamo fatti della fede. L’esistenza cristiana comporta perciò anche che osiamo parlare, nel bel mezzo della tentazione della nostra oscurità, come l’uomo Giobbe con Dio. Comporta che non pensiamo di poter presentare a Dio soltanto la metà della nostra esistenza e di dovergli risparmiare il resto, perché forse lo potremmo così infastidire.

No, proprio davanti a lui possiamo e dobbiamo presentare molto sinceramente tutto il peso della nostra esistenza. Dimentichiamo un po’ troppo che nel libro di Giobbe, tramandatoci nella Sacra Scrittura, alla fine del dramma Dio dichiara giusto Giobbe, che gli aveva mosso le accuse più gravi, mentre disapprova i suoi amici come gente che parla in maniera sbagliata, quegli amici che avevano difeso Dio e che avevano trovato una qualche bella risposta e spiegazione a tutto.

Celebrare l’Avvento non significa altro che parlare con Dio come ha fatto Giobbe. Significa guardare francamente in faccia tutta la realtà e tutto il peso della nostra esistenza cristiana e presentarli davanti al volto giudicante e salvante di Dio, e ciò anche quando non abbiamo come Giobbe alcuna risposta da dare a essi, bensì non ci rimane altro che lasciare che sia Dio stesso a dare la risposta e dirgli come siamo senza risposte nella nostra oscurità.




Dio viene


CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA DOMENICA I DI AVVENTO
OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana

Sabato, 2 dicembre 2006


Cari fratelli e sorelle!

La prima antifona di questa celebrazione vespertina si pone come apertura del tempo di Avvento e risuona come antifona dell'intero anno liturgico. Riascoltiamola: "Date l'annunzio ai popoli: Ecco, Dio viene, il nostro Salvatore". All'inizio di un nuovo ciclo annuale, la liturgia invita la Chiesa a rinnovare il suo annuncio a tutte le genti e lo riassume in due parole: "Dio viene". Questa espressione così sintetica contiene una forza di suggestione sempre nuova. Fermiamoci un momento a riflettere: non viene usato il passato - Dio è venuto -, né il futuro - Dio verrà -, ma il presente: "Dio viene". Si tratta, a ben vedere, di un presente continuo, cioè di un'azione sempre in atto: è avvenuta, avviene ora e avverrà ancora. In qualunque momento, "Dio viene". Il verbo "venire" appare qui come un verbo "teologico", addirittura "teologale", perché dice qualcosa che riguarda la natura stessa di Dio. Annunciare che "Dio viene" equivale, pertanto, ad annunciare semplicemente Dio stesso, attraverso un suo tratto essenziale e qualificante: il suo essere il Dio-che-viene.

L'Avvento richiama i credenti a prendere coscienza di questa verità e ad agire in conseguenza. Risuona come un appello salutare nel ripetersi dei giorni, delle settimane, dei mesi: Svegliati! Ricordati che Dio viene! Non ieri, non domani, ma oggi, adesso! L'unico vero Dio, "il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", non è un Dio che se ne sta in cielo, disinteressato a noi e alla nostra storia, ma è il-Dio-che-viene. È un Padre che mai smette di pensare a noi e, nel rispetto estremo della nostra libertà, desidera incontrarci e visitarci; vuole venire, dimorare in mezzo a noi, restare con noi. Il suo "venire" è spinto dalla volontà di liberarci dal male e dalla morte, da tutto ciò che impedisce la nostra vera felicità. Dio viene a salvarci.

I Padri della Chiesa osservano che il "venire" di Dio - continuo e, per così dire, connaturale al suo stesso essere - si concentra nelle due principali venute di Cristo, quella della sua Incarnazione e quella del suo ritorno glorioso alla fine della storia (cfr Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 15, 1: PG 33, 870). Il tempo di Avvento vive tutto di questa polarità. Nei primi giorni l'accento cade sull'attesa dell'ultima venuta del Signore, come dimostrano anche i testi dell'odierna celebrazione vespertina. Avvicinandosi poi il Natale, prevarrà invece la memoria dell'avvenimento di Betlemme, per riconoscere in esso la "pienezza del tempo". Tra queste due venute "manifeste" se ne può individuare una terza, che san Bernardo chiama "intermedia" e "occulta", la quale avviene nell'anima dei credenti e getta come un "ponte" tra la prima e l'ultima. "Nella prima - scrive san Bernardo - Cristo fu nostra redenzione, nell'ultima si manifesterà come nostra vita, in questa è nostro riposo e nostra consolazione" (Disc. 5 sull'Avvento, 1). Per quella venuta di Cristo, che potremmo chiamare "incarnazione spirituale", l'archetipo è sempre Maria. Come la Vergine Madre custodì nel suo cuore il Verbo fatto carne, così ogni singola anima e l'intera Chiesa sono chiamate, nel loro pellegrinaggio terreno, ad attendere il Cristo che viene e ad accoglierlo con fede ed amore sempre rinnovati.

La liturgia dell'Avvento pone così in luce come la Chiesa dia voce all'attesa di Dio profondamente inscritta nella storia dell'umanità; un'attesa purtroppo spesso soffocata o deviata verso false direzioni. Corpo misticamente unito a Cristo Capo, la Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento efficace anche di questa attesa di Dio. In una misura nota a Lui solo la comunità cristiana può affrettarne l'avvento finale, aiutando l'umanità ad andare incontro al Signore che viene. E fa questo prima di tutto, ma non solo, con la preghiera. Essenziali e inseparabili dalla preghiera sono poi le "buone opere", come ricorda l'orazione di questa Prima Domenica d'Avvento, con la quale chiediamo al Padre celeste di suscitare in noi "la volontà di andare incontro con le buone opere" al Cristo che viene. In questa prospettiva l'Avvento è più che mai adatto ad essere un tempo vissuto in comunione con tutti coloro - e grazie a Dio sono tanti - che sperano in un mondo più giusto e più fraterno. In questo impegno per la giustizia possono in qualche misura ritrovarsi insieme uomini di ogni nazionalità e cultura, credenti e non credenti. Tutti infatti sono animati da un anelito comune, seppure diverso nelle motivazioni, verso un futuro di giustizia e di pace.

 Iniziamo dunque questo nuovo Avvento - tempo donatoci dal Signore del tempo - risvegliando nei nostri cuori l'attesa del Dio-che-viene e la speranza che il suo Nome sia santificato, che venga il suo Regno di giustizia e di pace, che sia fatta la sua Volontà come in Cielo, così in terra.

Lasciamoci guidare, in questa attesa, dalla Vergine Maria, Madre del Dio-che-viene, Madre della Speranza. Ella, che tra pochi giorni celebreremo Immacolata, ci ottenga di essere trovati santi e immacolati nell'amore alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo, al quale, con il Padre e lo Spirito Santo, sia lode e gloria nei secoli dei secoli. Amen.




Omelia del 2002
Homilia
Cari amici, fratelli e sorelle, i testi della liturgia di oggi, del venerdì della seconda settimana di Avvento, sono pieni di luce per il nostro cammino e ci aiutano di realizzare l’essenza dell’attesa che poi è l’essenza del nostro essere cristiani. 

Vorrei cominciare con l’orazione: la parola fondamentale dell’orazione di oggi è “vigilanza” che tra l’altro è la parola chiave di tutto l’Avvento. Vigilanza, essere vigilanti, che cosa vuol dire? Chi dorme è chiuso in se stesso, non percepisce la realtà fuori di sé, e anche nei suoi sogni non è in grado di percepire la realtà, ma solo ombre riflesse della sua mente, del suo subcosciente. Svegliandosi, esce dal carcere, dal muro di sé e percepisce la realtà stessa che lo circonda. Si apre ad essa. La nostra generazione è convinta di essere realmente molto “sveglia”, più di tutte le altre generazioni precedenti solo perché percepisce molto più del mondo: il nostro occhio va fino alle distanze più lontane, distanze immense sia spaziali che temporali. E nello stesso tempo siamo capaci di entrare anche all’interno della materia, fino alle ultime particelle che la compongono.

L’orizzonte è allargato enormemente, così anche le nostre possibilità di agire in questo mondo. E ciò nonostante dobbiamo dire che questa generazione, in un senso più profondo, dorme. È chiusa in sé, perché vede soltanto quanto può fare e avere, e si ferma alla facciata esteriore della realtà, alle cose materiali che può prendere in mano. Ma proprio così, siamo sempre più chiusi in noi stessi e non siamo più capaci di andare realmente all’infinito, di vedere la trasparenza della luce divina nella materia creata, in noi stessi l’occhio del nostro cuore: i nostri sensi interiori sono ottenebrati dal vedere tutte queste cose esteriori che ci aiutano a fare e ad avere, non rispondono più, non funzionano più, non hanno più accesso alla vera realtà, alla grandezza del mondo. È per questo che dormiamo. Dorme la nostra generazione.

Tramite l’Avvento il Signore ci dice di risvegliarci, di uscire da questo cerchio, da questo carcere del materiale, di aprire i cuori e cominciare a vedere la realtà più grande, il senso di Dio nel mondo, la presenza di Dio nel Signore Gesù Cristo, nella sua Parola, nei suoi sacramenti.

Questo è il primo imperativo che ci obbliga anche ad andare avanti per aprire gli occhi del cuore e ad aiutare i nostri amici, i nostri contemporanei perché possano ricominciare a vedere la vera profondità e la vera grandezza della realtà. Vedere è anche partire e così logicamente dalla parola vigilanza viene fuori l’altra, propria del cammino d’Avvento: “andare incontro al Signore”.

La fede non è un mucchio di idee, ma un’avventura della vita, un cammino, un mettersi in moto verso il Signore e il cammino esteriore che facciamo preparandoci a Colonia, dovrebbe essere nello stesso tempo e soprattutto un cammino interiore, un uscire da noi stessi per andare incontro a Dio, alla vera realtà, all’amore e al prossimo.

Appaiono poi una terza parola, importante in questa orazione, la Parola di Dio, chiamata Luce e l’invito ad accendere le lampade del nostro essere per arrivare al Signore. Cosa vuol dire questo?

Se vediamo la storia della Chiesa, la storia dei santi, vediamo queste “lampade” accese che illuminano il mondo, e vediamo che esse non solo illuminano questo tempo, ma saranno decorazioni e luce nella festa eterna dell’amore di Dio. Cominciamo con i martiri dei primi secoli, con i grandi dottori, Agostino, Ambrogio, Bonaventura, Tommaso, lampade accese che illuminano il cammino della storia e continuano ad illuminare. E san Francesco d’Assisi, san Carlo Borromeo, san Domenico, santa Teresa d’Avila, san Giovanni della Croce, santa Teresa di Lisieaux, fino a Massimiliano Kolbe, Padre Pio, Edith Stein, Madre Teresa …

Realmente, nell’oscura notte della storia, perché spesso è oscura - pensiamo alle violenze di questo tempo, a tutte le guerre - sono veramente lampade accese che illuminano, ci fanno vedere che c’è luce, che l’uomo non è una creatura fallita, ma può essere simile a Dio, conformandosi nella strada dell’amore perché Dio è amore. E siamo simili a Dio nella misura in cui percorriamo la strada dell’amore.

Passiamo ora dall’orazione alla lettura e al Vangelo. Ambedue sono intimamente connesse tra di loro e si vede proprio oggi , tra la lettura e il Vangelo, l’intima unità dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Le letture parlano della sofferenza di Dio nel rapporto con la sua creatura uomo. Dio soffre. Perché non si impone con forza con la sua onnipotenza a questa creatura? Va chiedendo il suo amore, va incontro alla nostra libertà, perché desidera non una cosa da ottenere con forza, ma desidera amore, cioè il sì libero, e così lascia alla nostra libertà di dire sì o di dire anche no, alla sua offerta e invito di amore.

Purtroppo succede che la creatura uomo dica quasi sempre di no e pensi che solo il dire no, rappresenti la prova della libertà. Dio cerca l’uomo con tutti i registri possibili; il Signore lo dice in questa parabola di oggi, cerca il cammino del rigore, della severità, nel Sinai, nel tempo dei profeti, nelle parole di Giovanni battista.

E l’uomo risponde: no, io sono libero, non accetto il rigore di questi comandamenti, prendo la mia strada. Dio cerca anche con la strada dell’umiltà, della bontà, della sua vita, dell’amore all’uomo. E cosa succede? Anche qui l’uomo dice no, anzi, deride questo Dio debole che cerca il suo consenso e si rivela così non onnipotente.

Abbiamo questa parola, abbiamo suonato il flauto e non avete cantato o ballato, lamento e non avete pianto… L’uomo non entra in questo gioco del divino amore, si oppone. Questa è la tristezza e la sofferenza divina con questa sua storia.

E nella lettura sentiamo questo lamento di Dio: se avesse prestato attenzione ai miei comandi, il tuo benessere sarebbe come un fiume…

La stessa parola ritorna nel salmo 81, forse fatto anche dello stesso periodo: se tu avessi prestato attenzione ai miei comandi, io ti nutrirei con miele con fior di frumento.

E la stessa parola ritorna anche nella bocca del Signore: se avessi compreso anche tu la via della pace. A Gerusalemme, probabilmente molti di voi conoscono la cappella sulla collina il Signore piange, che è stata costruita sul punto dove Gesù vedendo la sua città avrebbe detto queste parole. Se tu avessi compreso, anche tu la via della pace.

E la storia prova la verità di questo lamento di Dio.

Il testo della lettura, così come del salmo, probabilmente appartengono al tempo dell’esilio. Prima Geremia aveva detto con chiarezza ai re e a tutti i potenti di Israele, ”non fate questa guerra contro Babilonia”, non comportatevi come se Israele fosse uno dei grandi poteri che può entrare in guerra contro Babele, non fate questo e non pensate questo. L’elezione, l’essere totalmente a Dio e tutt’altra cosa. Fate pace e rimarrete in questo paese.

Ma non l’hanno sentito, Israele non ha ascoltato, è andato per 70 anni in esilio, è sparito dalla storia, come soggetto proprio. Il Signore prende proprio la stessa predicazione di Geremia: non entrate in opposizione militare contro i romani, non pensate che il Signore sia un guerriero che vi dia forze militari che non avete.

Prendete la strada del pentimento, della fede, dell’amore, la strada della comunione con Dio, che sola può trasformare il mondo. Ma di nuovo non ascoltarono, facendo come la generazione di Geremia. Credono a Barabba … e alla fine è la distruzione di Gerusalemme, e san Luca dice nel Vangelo: va calpestata la città di Gerusalemme dai pagani, fino alla fine del mondo.

E le stesse parole sono vere anche nel nostro presente, nel secolo che viviamo: perché non avete ascoltato? Può di nuovo dire il Signore. Avreste potuto evitare il disastro del governo comunista che ha distrutto le anime e la terra, avreste potuto evitare questo grande disastro del nazismo che è una vergogna per noi, una ferita all’umanità, soprattutto della coscienza, particolarmente del popolo tedesco.

Non hanno ascoltato, Signore. Così vediamo la verità che è questo lamento di Dio, che è nello stesso tempo non solo una descrizione del passato, ma un avviso e un’ammonizione forte a noi e alla nostra generazione: ascoltate finalmente, la cosa non è ancora persa, ascoltate e seguite il Signore, il Signore della pace e non il signore della guerra.

È una parola che il Signore dice proprio a voi, la nuova generazione che ha in mano la chiave del futuro. È un grido forte: ascoltate, non c’è una sorte inevitabile. È libertà dell’uomo di dire sì, a questi cambiamenti per il meglio. E il nostro dovere, il vostro dovere è veramente di ascoltare, cari fratelli, e prendere questa strada con coraggio, gridare anche al mondo questo, anche se non vuol sentire, per lo meno far sentire questo lamento e grido del Signore, con tutto il peso del passato che conosciamo …

Così, queste parole dell’Antico e del Nuovo Testamento, sono uguali, dicono la stessa cosa per generazioni diverse, e anche tra di noi la storia appare ancora aperta nelle nostre mani. Questa è la grande sfida che ci è data dai testi della liturgia di oggi.

Ma, alla fine del Vangelo, dopo la tristezza degli uomini di tante generazioni, e il pericolo che anche quelli di questa generazione dicano no, appare tuttavia una parola di gioia: una parola di promessa vittoriosa. Il Signore dice, nonostante tutto, alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere.

Sentendo questo, prima ci domandiamo: è vero che Dio è sapiente? Possiamo dire che Dio è la sapienza, che Cristo vinto sulla croce è la sapienza? In realtà il Signore vinto ha lasciato un germe della nuova vita per il suo popolo e per il mondo, un lievito che trasformerà tutto. È così creata una nuova forma di vivere la fede.

La Gerusalemme terrestre è stata distrutta sì, ma dalla croce di Cristo cresce una nuova Gerusalemme, una città nuova diffusa in tutte le parti del mondo, nelle piccole e anche nelle grandi comunità dei credenti. Cresce una città nuova, animata dalla fede, una immagine della Gerusalemme futura. E la sapienza va giustificata per le sue opere, nascono le prime comunità cristiane, un nuovo umanesimo, un amore per i sofferenti e i poveri che prima non esisteva nel mondo, una luce della verità che illumina le strade dell’umanità, trasforma il mondo e nonostante la vittoria del male.

Abbiamo già parlato della strada delle lampade accese, una strada di luce che si apre sempre di più nella storia. È stata così creata una nuova città, una nuova vita.

Nell’Apocalisse sta scritto: ho visto una folla immensa, vestiti di bianco, che vengono dalla grande tribolazione e sono la nuova umanità. La sapienza è giustificata. Dio è sapiente, nonostante queste sconfitte cresce la nuova umanità, cresce il dono dell’amore della fede della speranza che ci ha dato Cristo.

San Luca nel suo Vangelo trasmette questa parola con una variante, dicendo: la sapienza è stata giustificata dai suoi figli, i figli di Cristo, i suoi fratelli. Cominciando dai primi martiri, fino ai grandi testimoni di oggi, essi giustificano Cristo come la vera sapienza divina. E così il testo invita ad essere figli della sapienza e a fare le opere della sapienza, per trasformare il mondo.

Alla fine, i testi arrivano proprio nel concreto della liturgia; il testo citato nel salmo 81 dice, se tu avessi prestato attenzione ai miei comandi, io ti avrei dato il miele ti avrei nutrito con fior di frumento. Il Signore ci nutre con fior di frumento, con se stesso, ci dà questo pane, nella piccola quantità di frumento dona se stesso. Si mette nelle nostre mani, nei nostri cuori.

Preghiamo il Signore Gesù che ci illumini, che ci permetta di ascoltare e di realizzare la sua Parola. E così di essere suoi figli, di fare le sue opere, opere della sapienza divina. Amen.





AVVENTO

Capitolo Primo
STORIA DELL'AVVENTO


Il nome dell'Avvento
Si dà, nella Chiesa latina, il nome di Avvento [1] al tempo destinato dalla Chiesa a preparare i fedeli alla celebrazione della festa di Natale, anniversario della Nascita di Gesù Cristo. Il mistero di questo grande giorno meritava senza dubbio l'onore d'un preludio di preghiera e di penitenza: cosicché sarebbe impossibile stabilire in maniera certa la prima istituzione di questo tempo di preparazione, che ha ricevuto solo più tardi il nome di Avvento [2].

L'Avvento deve essere considerato sotto due diversi punti di vista: come un tempo di preparazione propriamente detta alla Nascita del Salvatore, mediante gli esercizi della penitenza, o come un corpo d'Uffici ecclesiastici organizzato con lo stesso fine. Fin dal secolo V troviamo l'uso di fare delle esortazioni al popolo per disporlo alla festa di Natale; ci sono rimasti a questo proposito due sermoni di san Massimo di Torino, senza parlare di parecchi altri attribuiti una volta a sant'Ambrogio e a sant'Agostino, e che sembrano essere invece di san Cesario d'Arles. Se tali documenti non ci indicano ancora la durata e gli esercizi di questo tempo sacro, vi riscontriamo almeno l'antichità dell'uso che distingue mediante particolari predicazioni il tempo dell'Avvento. Sant'Ivo di Chartres, san Bernardo, e parecchi altri dottori dell'XI e del XII secolo hanno lasciato speciali sermoni de adventu Domini, completamente distinti dalle Omelie domenicali sui Vangeli di questo tempo. Nei Capitolari di Carlo il Calvo dell'anno 864, i vescovi fanno presente a quel principe che egli non deve richiamarli dalle loro chiese durante la Quaresima né durante l'Avvento sotto il pretesto degli affari di Stato o di qualche spedizione militare, perché essi hanno in quel periodo dei doveri particolari da compiere, principalmente quello della predicazione.

Un antico documento in cui si trovano, precisati, in maniera sia pure poco chiara, il tempo e gli esercizi dell'Avvento, è un passo di san Gregorio di Tours, al decimo libro della sua Storia dei Franchi nel quale riferisce che san Perpetuo, uno dei suoi predecessori, che occupava la sede verso il 480, aveva stabilito che i fedeli digiunassero tre volte la settimana dalla festa di san Martino fino a Natale [3]. Con quel regolamento, san Perpetuo stabiliva un'osservanza nuova, o sanzionava semplicemente una legge già esistente? È impossibile determinarlo con esattezza oggi. Rileviamo almeno questo intervallo di quaranta giorni o piuttosto di quarantatré giorni, designato espressamente, e consacrato con la penitenza come una seconda Quaresima, sebbene con minor rigore [4].

Troviamo quindi il nono canone del primo Concilio di Mâcon, tenutosi nel 583, il quale ordina che, durante lo stesso intervallo da san Martino al Natale, si digiunerà il lunedì, il mercoledì, il venerdì, e si celebrerà il sacrificio secondo il rito Quaresimale. Qualche anno prima, il secondo Concilio di Tours, tenutosi nel 567, aveva ordinato ai monaci di digiunare dall'inizio del mese di dicembre fino a Natale. Questa pratica di penitenza si estese a tutti i quaranta giorni per i fedeli stessi; e si chiamò volgarmente la Quaresima di san Martino. I Capitolari di Carlo Magno, al libro sesto, non ne lasciano alcun dubbio; e Rabano Mauro attesta la medesima cosa nel secondo libro della Istituzione dei chierici. Si facevano anche particolari festeggiamenti nel giorno di san Martino, come si fa ancor oggi all'avvicinarsi della Quaresima e a Pasqua.

Variazioni nelle osservanze.

L'obbligo di questa Quaresima che, cominciando a pesare in modo quasi impercettibile, era cresciuto successivamente fino a diventare una legge sacra, diminuì grado a grado; e i quaranta giorni da san Martino a Natale si trovarono ridotti a quattro settimane. Si è visto come l'usanza di tale digiuno fosse cominciata in Francia; ma di qui si era diffusa in Inghilterra, come apprendiamo dalla Storia del Venerabile Beda; in Italia, come consta da un diploma di Astolfo, re dei Longobardi († 753); in Germania, in Spagna [5], ecc., ma se ne possono vedere le prove nella grande opera di dom Martène sugli antichi riti della Chiesa. Il primo indizio che riscontriamo della riduzione dell'Avvento a quattro settimane si può ritenere che sia, fin dal IX secolo, la lettera del Papa san Nicola I ai Bulgari. La testimonianza di Raterio di Verona e di Abbondio di Fleury, autori appartenenti entrambi allo stesso secolo, serve anche a provare che fin d'allora si discuteva molto per diminuire d'un terzo la durata del digiuno dell'Avvento. È vero che san Pier Damiani, nell'XI secolo, suppone ancora che il digiuno dell'Avvento fosse di quaranta giorni e che san Luigi, due secoli dopo, continuava ad osservarlo in questa misura; ma forse questo santo re lo praticava in tal modo per un trasporto di devozione particolare.
La disciplina della Chiesa d'Occidente, dopo essersi rilassata sulla durata del digiuno dell'Avvento, si raddolcì presto al punto da trasformare tale digiuno in una semplice astinenza; si trovano inoltre dei Concili fin dal XII secolo, come quello di Selingstadt del 1122, che sembrano obbligare soltanto i chierici a tale astinenza [6]. Il Concilio di Salisbury, nel 1281, pare anch'esso obbligarvi solo i monaci. D'altra parte, è tale la confusione su questa materia, senza dubbio perché le diverse chiese d'Occidente non ne hanno fatto l'oggetto di una disciplina uniforme, che, nella sua lettera al Vescovo di Braga, Innocenzo III attesta che l'uso di digiunare per tutto l'Avvento esisteva ancora a Roma al suo tempo, e Durando, sempre nel XIII secolo, nel suo Razionale dei divini Uffici, testimonia ugualmente che il digiuno era continuo in Francia per tutta la durata di quel tempo sacro.

Comunque sia, questa usanza venne sempre più diminuendo di modo che tutto quello che poté fare nel 1362 il Papa Urbano V per arrestarne la caduta completa, fu di obbligare tutti i chierici della sua corte a conservare l'astinenza dell'Avvento, senza alcuna menzione del digiuno, e senza comprendere affatto gli altri chierici, e tanto meno i laici, sotto questa legge. San Carlo Borromeo cercò anch'egli di risuscitare lo spirito, se non la pratica, dei tempi antichi nelle popolazioni del Milanese. Nel suo quarto Concilio, ordinò ai parroci di esortare i fedeli a comunicarsi almeno tutte le domeniche della Quaresima e dell'Avvento, e indirizzò quindi ai suoi stessi diocesani una lettera pastorale in cui, dopo aver loro ricordato le disposizioni con le quali si deve celebrare questo sacro tempo, faceva istanza per condurli a digiunare almeno il lunedì, il mercoledì e il venerdì di ciascuna settimana. Infine, Benedetto XIV ancora arcivescovo di Bologna, calcando così gloriose orme, ha consacrato la sua undicesimaIstituzione Ecclesiastica a ridestare nello spirito dei fedeli della sua diocesi la sublime idea che i cristiani avevano un tempo del tempo dell'Avvento, e a combattere un pregiudizio diffuso in quella regione, cioè che l'Avvento riguardava le sole persone religiose, e non i semplici fedeli. Egli dimostra che questa asserzione, salvo che la si intenda semplicemente del digiuno e dell'astinenza, è di per sé temeraria e scandalosa, poiché non si potrebbe dubitare che esiste, nelle leggi e nelle usanze della Chiesa universale, tutto un insieme di pratiche destinate a mettere i fedeli in uno stato di preparazione alla grande festa della Nascita di Gesù Cristo.

La Chiesa greca osserva ancora il digiuno dell'Avvento, ma con molto minore severità rispetto a quello della Quaresima. Esso consta di quaranta giorni, a partire dal 14 novembre, giorno in cui quella Chiesa celebra la festa dell'apostolo san Filippo. Per tutto questo tempo, si osserva l'astinenza dalla carne, dal burro, dal latte e dalle uova; ma si fa uso di pesce, olio e vino, cose tutte vietate durante la Quaresima. Il digiuno propriamente detto è d'obbligo soltanto per sette giorni sui quaranta; e tutto l'insieme si chiama volgarmente la Quaresima di san Filippo. I Greci giustificano queste mitigazioni dicendo che la Quaresima di Natale è solo di istituzione monastica, mentre quella di Pasqua è d'istituzione apostolica.

Ma se le pratiche esteriori di penitenza che consacravano una volta il tempo dell'Avvento presso gli Occidentali, si sono a poco a poco mitigate, in maniera che oggi non ne resta alcun vestigio fuori dei monasteri, l'insieme della Liturgia dell'Avvento non è cambiato; ed è nello zelo per appropriarsene lo spirito che i fedeli daranno prova d'una vera preparazione alla festa di Natale.

Variazioni nella Liturgia.

La forma liturgica dell'Avvento, quale si ha oggi nella Chiesa Romana, ha subito alcune variazioni. San Gregorio (590-604) sembra aver istituito per primo questo Ufficio che avrebbe abbracciato dapprima cinque domeniche, come si può vedere dai più antichi Sacramentari di quel grande Papa. Si può anche dire a questo proposito, secondo Amalario di Metz e Bernone di Reichenau, seguiti da Dom Martène e da Benedetto XIV, che san Gregorio sembrerebbe essere l'autore del precetto ecclesiastico dell'Avvento, benché l'uso di consacrare un tempo più o meno lungo a prepararsi alla festa di Natale sia del resto immemorabile, e l'astinenza e il digiuno di questo tempo sacro siano iniziati dapprima in Francia. San Gregorio avrebbe determinato, per le Chiese di rito romano, la forma dell'Ufficio durante questa specie di Quaresima, e sanzionato il digiuno che l'accompagnava, lasciando tuttavia una certa libertà alle diverse Chiese circa la maniera di praticarlo.

Fin dal IX e X secolo, come si può vedere da Amalario, san Nicola I, Bernone di Reichenau, Reterio di Verona, ecc., le domeniche erano già ridotte a quattro; è lo stesso numero che porta il Sacramentario gregoriano dato da Pamelio, e che sembra sia stato trascritto a quell'epoca. Da allora, nella Chiesa Romana, la durata dell'Avvento non ha subito variazioni, ed è sempre consistito in quattro settimane, di cui la quarta è quella stessa nella quale cade la festa di Natale, a meno che tale festa non capiti di domenica. Si può dunque assegnare all'usanza attuale una durata di mille anni, almeno nella Chiesa Romana; poiché vi sono delle prove che fino al secolo XIII alcune Chiese di Francia hanno conservato l'usanza delle cinque domeniche [7].

La Chiesa ambrosiana conta ancor oggi sei settimane nella sua liturgia dell'Avvento; il Messale gotico o mozarabico mantiene la stessa usanza. Per la Chiesa gallicana, i frammenti che Dom Mabillon ci ha conservati della sua liturgia non ci attestano nulla a questo riguardo; ma è naturale pensare con questo studioso la cui autorità è rafforzata anche da quella di Dom Martène, che la Chiesa delle Gallie seguiva su questo punto, come su tanti altri, le usanze della Chiesa gotica, cioè che la liturgia del suo Avvento si componeva ugualmente di sei domeniche e di sei settimane [8].
Quanto ai Greci, le loro Rubriche per il tempo dell'Avvento si leggono nei Nenei, dopo l'Ufficio del 14 novembre. Essi non hanno un Ufficio proprio dell'Avvento, e non celebrano durante questo tempo la Messa dei Presantificati, come fanno in Quaresima. Si trovano soltanto, nel corpo stesso degli Uffici dei Santi che occupano il periodo dal 15 novembre alla domenica più vicina a Natale, parecchie allusioni alla Natività del Salvatore, alla maternità di Maria, alla grotta di Betlemme, ecc. Nella domenica che precede il Natale, celebrano quella che chiamano la Festa dei santi Avi, cioè la Commemorazione dei Santi dell'Antico Testamento, per celebrare l'attesa del Messia. Il 20, 21, 22 e 23 dicembre sono decorati del titolo di Vigilia della Natività; e benché in quei giorni si celebri ancora l'Ufficio di parecchi Santi, il mistero della prossima Nascita del Salvatore domina tutta la Liturgia.


[1] Dal latino Adventus, che significa Venuta.
[2] La proclamazione del dogma della Maternità divina, avvenuta ad Efeso nel 431, diede vivo impulso al culto mariano e una grande celebrità alla commemorazione della Natività del Signore. È infatti poco dopo il Concilio di Nicea (325) che la Chiesa romana istituì la festa di Natale e la fissò al 25 dicembre, ma è dall'Oriente che attinse i primi elementi dell'Avvento.
[3] Secondo i più recenti lavori dei liturgisti, si possono segnalare testimonianze ancora più antiche di questa. Così un frammento di un testo di sant'Ilario, quindi anteriore al 366, dice che "la Chiesa si dispone al ritorno annuale della venuta del Salvatore, con un tempo misterioso di tre settimane". Il Concilio di Saragozza, da parte sua, fin dal 380 impone ai fedeli di assistere agli uffici dal 17 dicembre al 6 gennaio. In questo periodo di ventun giorni, la parte che precede il Natale formava un quadro ben indicato per la preparazione di questa festa e costituiva una specie di Avvento. Ma siccome si era introdotto l'uso, nel IV secolo, di considerare l'Epifania e il Natale stesso come festa battesimale, potrebbe qui trattarsi solo d'una preparazione al battesimo e non d'una liturgia dell'Avvento.
In Oriente, nel V secolo, a Ravenna, nelle Gallie e nella Spagna, una festa della Vergine era celebrata la domenica prima di Natale, e talvolta anche una festa del Precursore la domenica precedente. Si avrebbe qui ancora una breve preparazione al Natale, un Avvento primitivo, a meno che non si tratti d'un semplice ampliamento della festa di Natale. Infine, il Rotolo di Ravenna, di cui sarebbe autore san Pier Crisologo (433-450), possiede 40 orazioni che possono essere considerate come preparatorie al Natale.
[4] Bisogna notare anche che questo digiuno non era proprio del Tempo dell'Avvento, poiché, tra la Pentecoste e la metà di febbraio, i fedeli digiunavano due volte la settimana e i monaci tre volte. Il carattere penitenziale dell'Avvento derivò a poco a poco, a causa dell'analogia che si presentava naturalmente tra questa stagione e la Quaresima.
[5] Forse il digiuno esisteva già in Spagna a quell'epoca. Una lettera del 400 circa, ci parla di tre settimane che pongono fine all'anno e ne cominciano uno nuovo, comprendenti la festa di Natale e quella dell'Epifania, durante le quali conviene darsi al ritiro e alle pratiche dell'ascetismo: la preghiera e l'astinenza (Rev. Bén. 1928, p. 289). Le chiese d'Oriente che ricevettero dall'Occidente la celebrazione della Natività di Nostro Signore, adottarono ugualmente, nell'VIII secolo, il digiuno dell'Avvento.
[6] Il Concilio di Avranches (1172) prescrive il digiuno e l'astinenza a tutti coloro che lo potranno, in particolare ai chierici e ai soldati.
[7] Si può oggi stabilire in una maniera molto più dettagliata lo sviluppo della Liturgia dell'Avvento. Mentre il Sacramentario leoniano, (fine del VI secolo) non porta alcuna messa, il che sembra indicare che a quell'epoca Roma ignorava ancora l'Avvento, il Sacramentario gelasiano antico (fine del VI e inizio del VII secolo) contiene cinque messe "De adventu Domini". Il Sacramentario gelasiano d'Angoulême e gli altri Sacramentari dell'VIII secolo contengono essi pure cinque messe, o in più le tre messe delle Quattro Tempora di dicembre. Infine, nel Sacramentario gregoriano, troviamo delle messe per quattro domeniche e per le tre ferie delle Quattro Tempora. Forse anche la messa dell'ultima domenica dopo la Pentecoste era considerata come messa "de Adventu". Aggiungiamo infine che san Benedetto († dopo il 546) ha scritto, nella sua Regola, un capitolo sulla Quaresima, che parla del Tempo pasquale ma non menziona l'Avvento.
[8] Segnaliamo che il Sacramentario mozarabico: Liber mozarabicus sacramentorum (del IX secolo, ma che rappresenta la liturgia del VII), contiene cinque domeniche, e infine che i Lezionari gallicani portano sei domeniche dell'Avvento.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 21-26



Capitolo Secondo
MISTICA DELL'AVVENTO

La triplice Venuta.
Se ora, dopo aver descritto le caratteristiche che distinguono il tempo dell'Avvento da qualsiasi altro, vogliamo penetrare nelle profondità del mistero che occupa la Chiesa in questa epoca, troviamo che questo mistero della Venuta di Gesù Cristo è insieme uno e triplice. È uno, perché è lo stesso Figlio di Dio che viene; triplice, perché egli viene in tre tempi e in tre modi.
"Nella prima venuta, dice san Bernardo nel quinto sermone sull'Avvento, egli viene nella carne e nell'infermità; nella seconda viene in spirito e in potenza; nella terza,viene in gloria e in maestà; e la seconda Venuta è il mezzo attraverso il quale si passa dalla prima alla terza".
Ecco il mistero dell'Avvento. Ascoltiamo ora la spiegazione che ci dà Pietro di Blois di questa triplice visita di Cristo, nel suo terzo sermone de Adventu: "Vi sono tre Venute del Signore, la prima nella carne, la seconda nell'anima, la terza con il giudizio. La prima ebbe luogo nel cuore della notte, secondo le parole del Vangelo: Nel cuore della notte si fece sentire un grido: Ecco lo Sposo! E questa prima Venuta è già passata, poiché Cristo è stato visto sulla terra ed ha conversato con gli uomini. Noi ci troviamo ora nella seconda Venuta: purché, tuttavia, siamo tali che egli possa venire a noi; poiché egli ha detto che se lo amiamo, verrà a noi e stabilirà in noi la sua dimora. Questa seconda Venuta è dunque per noi una cosa mista d'incertezza; poiché chi altro fuorché lo Spirito di Dio conosce coloro che sono di Dio? Coloro che il desiderio delle cose celesti trasporta fuor di se stessi, sanno bene quando egli viene; tuttavia, non sanno né donde viene né dove va. Quanto alla terza Venuta, è certissimo che avrà luogo; incertissimo il quando: poiché non vi é niente di più certo che la morte, e niente di più incerto che il giorno della morte. Al momento in cui si parlerà di pace e di sicurezza, dice il Savio, allora la morte apparirà d'improvviso, come le doglie del parto nel seno della donna, e nessuno potrà fuggire. La prima Venuta fu dunque umile e nascosta, la seconda è misteriosa e piena d'amore, la terza sarà risplendente e terribile. Nella sua prima Venuta, Cristo è stato giudicato dagli uomini con ingiustizia; nella seconda, ci rende giusti mediante la sua grazia; nella terza, giudicherà tutte le cose con equità: Agnello nella prima Venuta, Leone nell'Ultima, Amico pieno di tenerezza nella seconda" (De Adventu, Sermo iii).

La prima Venuta.
Stando cosi le cose, la santa Chiesa, durante l'Avvento, aspetta con lacrime ed impazienza la visita di Cristo Redentore nella sua prima Venuta. Essa prende per questo le ardenti espressioni dei Profeti, alle quali aggiunge le proprie suppliche. Sulla bocca della Chiesa, i sospiri rivolti al Messia non sono una semplice commemorazione dei desideri dell'antico popolo: hanno un valore reale, un influsso efficace sul grande atto della munificenza del Padre celeste che ci ha dato il suo Figlio. Fin dall'eternità, le preghiere dell'antico popolo e quelle della Chiesa cristiana unite insieme sono state presenti all'orecchio di Dio; e appunto dopo averle tutte ascoltate ed esaudite, egli ha mandato a suo tempo sulla terra quella rugiada benedetta che ha fatto germogliare il Salvatore.

La seconda Venuta.
La Chiesa aspira anche verso la seconda Venuta, sèguito della prima, e che consiste, come abbiamo visto, nella visita che lo Sposo fa alla Sposa. Ogni anno questa Venuta ha luogo nella festa di Natale e una nuova nascita del Figlio di Dio libera la società dei Fedeli da quel giogo di servitù che il nemico vorrebbe far pesare su di essa (Colletta del giorno di Natale). La Chiesa, durante l'Avvento, chiede di essere visitata da colui che è il suo Capo e il suo Sposo, visitata nella sua gerarchia, nelle sue membra, di cui le une sono vive e le altre morte, ma possono rivivere; infine in quelli che non fanno parte della sua comunione, e negli infedeli stessi, affinché si convertano alla vera luce che splende anche per loro. Le espressioni della Liturgia che la Chiesa usa per sollecitare questa amorosa e invisibile Venuta, sono le stesse con le quali sollecita la venuta del Redentore nella carne; poiché, fatte le debite proporzioni, la situazione è la medesima. Invano il Figlio di Dio sarebbe venuto venti secoli or sono, a visitare e a salvare il genere umano, se non ritornasse, per ciascuno di noi e in ogni momento della nostra esistenza, ad apportare e fomentare quella vita soprannaturale il cui principio viene solo da lui e dal suo divino Spirito.

La terza Venuta.
Ma questa visita annuale dello Sposo non soddisfa la Chiesa; essa aspira alla terza Venuta che consumerà ogni cosa, aprendo le porte dell'eternità. Ha raccolto queste ultime parole dello Sposo: Ecco che io vengo presto (Ap 22,20) e dice con ardore: Vieni, Signore Gesù! (ibid.). Ha fretta di essere liberata dalle condizioni del tempo; sospira il compimento del numero degli eletti, per veder apparire sulle nubi del cielo il segno del suo liberatore e del suo Sposo. Fino a questo punto, dunque, si estende il significato dei voti che essa ha deposti nella Liturgia dell'Avvento; questa è la spiegazione delle parole del discepolo prediletto nella sua profezia: Ecco le nozze dell'Agnello, e la Sposa si è preparata (Ap 19,7).
Ma il giorno dell'arrivo dello Sposo sarà nello stesso tempo un giorno terribile. La santa Chiesa spesso freme al solo pensiero delle formidabili assise dinanzi alle quali compariranno tutti gli uomini. Chiama quel giorno "un giorno d'ira, del quale Davide e la Sibilla hanno detto che deve ridurre il mondo in cenere; un giorno di lacrime e di spavento". Non già che essa tema per se stessa, poiché quel giorno fisserà per sempre sul suo capo la corona della Sposa; ma il suo cuore di Madre soffre pensando che allora parecchi dei suoi figli saranno alla sinistra del Giudice, e che, privati di ogni contatto con gli eletti, saranno gettati con le mani e i piedi legati in quelle tenebre in cui non vi sarà che pianto e stridor di denti. Ecco perché nella Liturgia dell'Avvento, la Chiesa si ferma cosi spesso a mostrare la Venuta di Cristo come una Venuta terribile, e sceglie nelle Scritture i passi più adatti a ridestare un salutare spavento nella anima di quelli tra i suoi figli che dormirebbero il sonno di peccato.

Le forme liturgiche.
Questo è dunque il triplice mistero dell'Avvento. Ora, le forme liturgiche di cui è rivestito, sono di due specie: le une consistono nelle preghiere, letture, e altre formule, dove le parole stesse sono usate per rendere i sentimenti che abbiamo esposti; le altre sono riti esteriori adatti a questo tempo sacro e destinati a completare ciò che esprimono i canti e le parole.

Gli occhi del popolo si accorgono della tristezza che preoccupa il cuore della santa Chiesa dal colore di penitenza di cui si copre. Fuorché nelle feste dei Santi, non veste più che di viola; il Diacono depone la Dalmatica, e il Suddiacono la Tunicella. Un tempo anzi, si usava in parecchi luoghi il colore nero, come ad esempio a Tours, a Le Mans, ecc. Questo lutto della Chiesa mette in rilievo con quanta verità essa si unisca ai veri Israeliti che aspettavano il Messia sotto la cenere e il cilicio, e piangevano la gloria di Sion scomparsa, e "lo scettro tolto a Giuda, fino a quando non venga colui che deve essere mandato, e che forma l'attesa delle genti" (Gen 49,10). Esso significa ancora le opere di penitenza con le quali si prepara alla seconda Venuta piena di dolcezza e di mistero che ha luogo nei cuori nella misura in cui si mostrano sensibili alla tenerezza che testimonia loro quell'Ospite divino che ha detto: Io trovo la mia delizia nello stare con i figli degli uomini (Prov 8,31). Essa geme sulla montagna, come la tortora, fino a quando non si faccia sentire la voce che dirà: "Vieni dal Libano, o mia Sposa, vieni: sarai incoronata perché tu hai ferito il mio cuore" (Ct 5,8).
Durante l'Avvento, la Chiesa sospende anche, salvo nelle Feste dei Santi, l'uso dell'Inno Angelico: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonœ voluntatis.Questo canto meraviglioso si fece sentire solo a Betlemme sulla mangiatoia del celeste Bambino; la lingua degli Angeli non è dunque ancora sciolta; la Vergine non ha deposto il suo divino fardello; non è tempo di cantare, non è ancora esatto dire: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà!

Cosi pure, al termine del Sacrificio, la voce del Diacono non fa più sentire le parole solenni che congedano l'assemblea dei fedeli: Ite, Missa est. Le sostituisce con la semplice esclamazione: Benedicamus Domino! quasi che la Chiesa temesse di interrompere le preghiere del popolo, che non sono mai troppo prolungate in questi giorni d'attesa.
Nell'Ufficio della Notte, la santa Chiesa toglie anche in questi giorni l'inno di giubilo Te Deum laudamus. Essa aspetta nell'umiltà il supremo beneficio, e nell'attesa non può far altro che chiedere, supplicare, sperare. Ma nell'ora solenne, quando in mezzo alle ombre più dense, il Sole di giustizia si leverà d'improvviso, essa ritroverà la voce del ringraziamento; e il silenzio della notte lascerà il posto, su tutta la terra, al grido d'entusiasmo: "Noi ti lodiamo, o Dio! Signore, noi ti celebriamo! O Cristo! Re di gloria, Figlio eterno del Padre! per la liberazione dell'uomo non hai avuto orrore del seno d'una umile Vergine".

Nei giorni di Feria, prima di concludere ciascun'ora dell'Ufficio, le Rubriche dell'Avvento prescrivono particolari preghiere che si devono fare in ginocchio; anche il Coro deve stare in quella posizione in tali giorni, per una parte considerevole della Messa. Sotto questo aspetto, le usanze dell'Avvento sono del tutto identiche a quelle della Quaresima.

Tuttavia, vi è una caratteristica speciale, che distingue questi due tempi: il canto dell'allegrezza, il gioioso Alleluia, non è sospeso durante l'Avvento, tranne nei giorni di Feria. Nella Messa delle quattro domeniche, si continua a cantarlo; e forma un certo contrasto con il colore austero degli ornamenti. C'è anche una domenica, la terza, in cui persino l'organo ritrova la sua grande e melodiosa voce, e il triste apparato viola può per un poco lasciare il posto al rosa. Questo ricordo delle gioie passate, che si trova così in fondo alle sante tristezze della Chiesa, esprime abbastanza chiaramente che, pur unendosi all'antico popolo per implorare la venuta del Messia e pagare così il grande debito dell'umanità verso la giustizia e la clemenza di Dio, essa non dimentica tuttavia che l'Emmanuele è già venuto per lei, che è in lei, e che prima che apra la bocca per implorare la salvezza, già è riscattata e segnata per l'unione eterna. Ecco perché ai suoi sospiri unisce l'Alleluia, perché sono impresse in lei tutte le gioie e tutte le tristezze, nell'attesa che la gioia sovrabbondi sul dolore, nella notte santa che sarà più radiosa del giorno più fulgido.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 27-31




Capitolo Terzo
PRATICA DELL'AVVENTO

Vigilanza.
Se la santa Chiesa, madre nostra, passa il tempo dell'Avvento in questa solenne preparazione alla triplice Venuta di Gesù Cristo; se, sull'esempio delle vergini savie, tiene la lampada accesa per l'arrivo dello Sposo, noi che siamo le sue membra e i suoi figli, dobbiamo partecipare ai sentimenti che la animano, e prendere per noi quell'avvertimento del Salvatore: "Siano i vostri lombi precinti come quelli dei viandanti; nelle vostre mani brillino fiaccole accese; e siate simili a servi che aspettano il loro padrone" (Lc 12,35). Infatti, i destini della Chiesa sono anche i nostri; ciascuna delle anime è, da parte di Dio, l'oggetto d'una misericordia e d'un'attenzione simili a quelle che egli usa nei riguardi della Chiesa stessa. Essa è il tempio di Dio perché composta di pietre vive; è la Sposa perché è formata da tutte le anime che sono chiamate all'eterna unione. Se è scritto che il Salvatore ha acquistato la Chiesa con il suo sangue (At 20,28), ognuno di noi può dire parlando di se stesso, come san Paolo: Cristo mi ha amato e si è sacrificato per me (Gal 2,20). Essendo dunque uguali i destini, dobbiamo sforzarci, durante l'Avvento, di entrare nei sentimenti di preparazione di cui abbiamo visto ripiena la Chiesa.

Preghiera.
E innanzitutto, è per noi un dovere di unirci ai Santi dell'Antica Legge per implorare il Messia, e soddisfare così quel debito di tutto il genere umano verso la divina misericordia. Onde animarci a compiere questo dovere, trasportiamoci con il pensiero nel corso di quelle migliaia di anni rappresentate dalle quattro settimane dell'Avvento, e pensiamo a quelle tenebre, a quei delitti di ogni genere in mezzo ai quali si agitava il vecchio mondo. Che il nostro cuore senta viva la riconoscenza che deve a Colui che ha salvato la sua creatura dalla morte, e che è disceso per vedere più da vicino e condividere tutte le nostre miserie, fuorché il peccato! Che esso gridi, con l'accento dell'angoscia e della fiducia, verso Colui che volle salvare l'opera delle sue mani, ma che vuole pure che l'uomo chieda ed implori la propria salvezza! Che i nostri desideri e la nostra speranza si effondano dunque in quelle ardenti suppliche degli antichi Profeti che la Chiesa ci mette sulle labbra in questi giorni di attesa. Disponiamo i nostri cuori, nella più larga misura possibile, ai sentimenti che essi esprimono.

Conversione.
Compiuto questo primo dovere, penseremo alla Venuta che il Salvatore vuol fare nel nostro cuore: Venuta, come abbiamo visto piena di dolcezza e di mistero, e che è la conseguenza della prima, poiché il buon Pastore non viene soltanto a visitare il suo gregge in generale, ma estende la sua sollecitudine a ciascuna delle pecore anche alla centesima che si era smarrita. Ora, per ben comprendere tutto questo ineffabile mistero, bisogna ricordare che, siccome non possiamo essere accetti al nostro Padre celeste se non in quanto egli vede in noi Gesù Cristo, suo Figlio, questo Salvatore pieno di bontà si degna di venire in ciascuno di noi, e, se noi lo vogliamo, di trasformarci in lui, di modo che non viviamo più della vita nostra ma della sua. Il fine di tutto il Cristianesimo è appunto di divinizzare l'uomo attraverso Gesù Cristo: questo è il compito sublime imposto alla Chiesa. Essa dice ai Fedeli con san Paolo: "Voi siete i miei figlioletti; poiché io vi do una seconda nascita, affinché si formi in voi Gesù Cristo" (Gal 4,19).

Ma, come nella sua apparizione in questo mondo il divino Salvatore si è dapprincipio mostrato sotto le sembianze d'un bambino prima di giungere alla pienezza dell'età perfetta che era necessaria porche nulla mancasse al suo sacrificio, egli intende prendere in noi gli stessi sviluppi. Ora è nella festa di Natale che si compiace di nascere nelle anime, e diffonde per tutta la sua Chiesa una grazia di Nascita alla quale, purtroppo, non tutti sono fedeli.

Ecco infatti la situazione delle anime all'avvicinarsi di quella ineffabile solennità. Alcune, ed è il numero minore, vivono pienamente della vita del Signore Gesù che è in esse, ed aspirano in ogni istante all'aumento di tale vita. Altre, in numero maggiore, sono vive, sì, per la presenza del Cristo, ma sono malate e languenti, non desiderando il progresso della vita divina, perché la loro carità si è raffreddata (Ap 2, 4). Il resto degli uomini non gode di questa vita, e si trova nella morte; poiché Cristo ha detto: Io sono la Vita (Gv 14,6).

Nei giorni dell'Avvento, il Salvatore va a bussare alla porta di tutte le anime, in una maniera ora sensibile, ora nascosta. Viene a chiedere se hanno posto per lui, affinché possa nascere in loro. Ma, benhé la casa che egli chiede sia sua, poiché lui l'ha costruita e la conserva, si è lamentato che i suoi non l'hanno voluto ricevere (Gv 1,11), almeno il numero maggiore tra essi. "Quanto a quelli che l'hanno ricevuto, ha concesso loro di diventare figli di Dio, e non più figli della carne e del sangue " (Gv 1, 12-13).

Preparatevi dunque a vederlo nascere in voi più bello, più radioso, più forte di come l'avete conosciuto, o anime fedeli che lo custodite in voi stesse come un prezioso deposito, e che da lungo tempo, non avete altra vita che la sua, altro cuore che il suo, altre opere che le sue. Sappiate cogliere, nelle parole della sacra Liturgia, quelle che fanno per il vostro amore, e che commuoveranno il cuore dello Sposo.

Aprite le porte per riceverlo nella sua nuova venuta, voi che già l'avevate in voi, ma senza conoscerlo; che lo possedevate, ma senza gustarlo. Egli torna con una nuova tenerezza; ha dimenticato il vostro rifiuto; vuole rinnovare tutte le cose (Ap 21,5). Fate posto al celeste Bambino, che vuol crescere in voi. Il momento è vicino: che il vostro cuore dunque si desti; perché non vi abbia sorpreso il sonno quando egli passerà, vegliate e pregate. Le parole della Liturgia sono anche per voi, perché esse parlano di tenebre che Dio solo può dissipare, di piaghe che solo la sua bontà può risanare, di languori che cesseranno solo per sua virtù.

E voi, cristiani, per cui la buona novella è come se non ci fosse perché i vostri cuori sono morti per il peccato, sia che questa morte vi tenga stretti nei suoi lacci da lunghi anni, sia che la ferita che l'ha causata sia stata inferta più di recente alla vostra anima, ecco venire colui che è la vita. "Perché dunque vorreste morire? Egli non vuole la morte del peccatore, ma vuole che si converta e viva" (Ez 18,31). La grande Festa della sua Nascita sarà un giorno di misericordia universale per tutti quelli che vorranno lasciarlo entrare. Questi ricominceranno a vivere con lui; ogni altra vita precedente sarà abolita, e sovrabbonderà la grazia là dove prima aveva abbondato l'iniquità (Rm 5,29).

E se la tenerezza e la dolcezza di questa misteriosa Venuta non vi attraggono, perché il vostro cuore non potrebbe ancora comprendere la fiducia o perché avendo per lungo tempo ingoiato l'iniquità come l'acqua, non sapete che cosa significhi aspirare mediante l'amore alle carezze d'un padre di cui avevate disprezzato gli inviti, pensate alla Venuta piena di terrore che seguirà quella che si compie silenziosamente nelle anime. Sentite lo scricchiolio dell'universo all'avvicinarsi del terribile Giudice; osservate i cieli che fuggono davanti a lui, e si aprono come un libro alla sua vista (Ap 6,41); sostenete, se ne siete capaci, il suo aspetto, i suoi sguardi fiammeggianti; guardate senza fremere la spada a doppio taglio che esce dalla sua bocca (Ap 1,16); ascoltate infine quelle grida di lamento: o monti cadete su di noi; rocce, copriteci, toglieteci alla sua vista terrificante (Lc 23,30)! Sono le grida che faranno risuonare invano le anime sventurate che non hanno saputo conoscere il tempo della visita (Lc 19,44). Per aver chiuso il loro cuore a quell'Uomo-Dio che pianse su di esse – tanto le amava! – scenderanno vive nel fuoco eterno la cui fiamma è cosi bruciante che divora il germe della terra e le fondamenta più nascoste dei monti (Dt 32,22). Ivi si sente il verme eterno d'un rimorso che non muore mai (Mc 9,43).

Coloro dunque, i quali non si sentono commossi dalla dolce notizia dell'avvicinarsi del celeste Medico, del generoso Pastore che dà la vita per le sue pecorelle, meditino durante l'Avvento sul terribile eppure incontestabile mistero della Redenzione, resa inutile dal rifiuto che l'uomo oppone troppo spesso di associarsi alla propria salvezza. Misurino le loro forze, e se disprezzano il bambino che sta per nascere (Is 9,6), pensino se saranno in grado di lottare con il Dio forte, il giorno in cui verrà non più a salvare, ma a giudicare. Per conoscerlo più da vicino, questo Giudice davanti al quale tutto deve tremare, interroghino la sacra Liturgia: qui impareranno a temerlo.

Del resto, questo timore non è soltanto proprio dei peccatori; è un sentimento che ogni cristiano deve provare. Il timore, se è da solo, rende schiavi; se compensa l'amore, conviene al figlio colpevole, che cerca il perdono del padre adirato; anche quando l'amore lo spinge fuori (1Gv 4,18), esso ritorna talora come un subitaneo lampo, e il cuore fedele ne è felicemente scosso fin nelle fondamenta. Sente allora ridestarsi il ricordo della sua miseria e della misericordia gratuita dello Sposo. Nessuno deve dunque disperarsi, in questo sacro tempo dell'Avvento, dall'associarsi ai pii timori della Chiesa che, per quanto amata, dice spesso nei suoi Uffici: Trafiggi la mia carne, o Signore, con il pungolo del tuo timore! Ma questa parte della Liturgia sarà utile soprattutto a coloro che cominciano a consacrarsi al servizio di Dio.
Da tutto ciò, si deve concludere che l'Avvento è un tempo consacrato soprattutto agli esercizi della Vita Purgativa; come indicano quelle parole di san Giovanni Battista, che la Chiesa ci ripete così spesso in questo sacro periodo: Preparate le vie del Signore! Ciascuno dunque operi seriamente a spianare il sentiero attraverso il quale Gesù entrerà nella sua anima. I giusti, secondo la dottrina dell'apostolo dimentichino ciò che hanno fatto nel passato (Fil 3,13), e attendano a nuovi impegni. I peccatori cerchino di rompere subito i legami che li tengono stretti, di lasciare le abitudini che li fanno prigionieri castighino la carne, e diano inizio al duro lavoro di sottometterla allo spirito; preghino soprattutto con la Chiesa; e quando il Signore verrà, potranno sperare che non rimarrà sulla soglia della porta, ma entrerà, perché egli ha detto: "Ecco che io sono alla porta e busso; se qualcuno sente la mia voce e mi apre, entrerò da lui" (Ap 3,20).

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, p. 31-35





Nessun commento: