Chi incontra il Signore resta “stupito” della sua “compassione”. Ma oggi dire "ti compatisco" suona male, perché ci è penetrato dentro l'orgoglio di questa generazione prometeica, che ha fatto dell'uomo l'unico orizzonte e delle sue possibilità l'unica misura con cui valutare e giudicare. A scuola, al cinema, negli stadi, ovunque si ode l'encomio di chi si è fatto da solo, mentre si impone la nuova fede che incita a credere in se stessi, lottando per affermarsi a qualunque costo, come se ciò fosse l’unica terapia capace di curare i complessi. E se qualcuno osa "compatirmi", beh, mi sento offeso e diverso. Non si possono compatire i portatori di handicap, men che meno si può avere compassione di chi segue gli impulsi della propria sessualità ferita dal peccato e da storie complicate, scendendo i gradini della perversione nel tripudio della “società civile”.
Nietzsche diceva che "la misericordia è debolezza" e considerava miserabile un Dio di misericordia, perché la pietà è riservata agli uomini inferiori. E’ intollerante la compassione di Cristo che si piega sulla “folla” di “malati” per "abbracciare visceralmente” - secondo il significato originale di “splanchnizomai” - ogni loro sofferenza sino a farla sua; abbiamo, infatti, stravolto il significato del termine arrivando all’aberrazione di usarlo per giustificare l’omicidio perpetrato dall’eutanasia e dell’aborto. Tutto sotto l’astuta regia del menzognero fin dal principio, il demonio, che sta cambiando l'acqua della nostra vita assuefacendoci subdolamente alla dittatura del relativismo che non conosce compassione.
Ma, in ogni generazione, c'è una folla di poveri che ha "recato con sé" le proprie infermità “deponendo ai piedi di Gesù” i suoi “zoppi, storpi, ciechi e sordi”, ed è ancora capace di "stupore" sperimentando in Lui l'unico che si fa carico sino in fondo di ogni sofferenza; è la Chiesa, l'assemblea che riunisce gli ultimi, i peccatori, i più deboli che "non devono aspettare nessun altro" per essere salvati, perché hanno riconosciuto in quel Rabbì di Nazaret il Messia del quale erano stati profetizzati proprio i segni che ha compiuto nella loro vita. L'amore che li ha raggiunti gratuitamente li fa "glorificare il Dio di Israele" divenendo così un segno di speranza per il mondo. Per questo lo seguono “rimanendo presso di Lui” durante “tre giorni”, immagine di quelli nei quali il Signore è stato “deposto” accanto a loro nella tomba com-patendo il dolore, per risvegliarli dalla morte e salvarli dal peccato.
Ma, anche se guariti, “non hanno da mangiare”, perché chi è stato resuscitato e perdonato ha bisogno di “un alimento e sostegno indispensabile per poter percorrere la via della vita, finché non giungiamo, dopo aver lasciato questo mondo, alla nostra vera meta, che è il Signore. Perciò egli disse: Se non mangerete la mia carne e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi". (San Gaudenzio da Brescia, Trattati, 2). Gesù ci conosce bene e sa che nessuno è confermato in Grazia; nonostante tante esperienze del suo amore, possiamo “svenire” di fronte alle tentazioni. A Gesù non basta “guarirci”, vuole “saziarci”. E per farlo, prende del poco che trova in noi, insufficiente come lo erano per gli apostoli e Gesù, “i cinque pani e i due pesci”.
Ma Lui ha un modo originale per sfamarci: come fece Elia con la vedova di Zarepta, il Signore ci chiede tutto quanto abbiamo per vivere, perché l’abbondanza scaturisce dalla totale spoliazione. Avrebbe potuto operare diversamente creando dal nulla, ma ha voluto prendere tra le sue mani la fragile opera che aveva iniziato a ricreare: per “saziarci” ci conduce nell’umiltà che supera il dubbio sollevato dei discepoli: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?”.
La domanda che sorge di fronte alla sproporzione tra il desiderio di infinito dell’uomo e la sua realtà di peccato e precarietà - alla quale il mondo risponde con la compassione assassina che “rimanda digiuni” coloro che non ha saputo guarire - trova in Gesù una risposta inaspettata, l’unica esatta. Lui guarda con compassione la nostra povertà: ai suoi occhi la debolezza, la malattia, le nevrosi, i complessi, il carattere, l’aspetto fisico, la nostra persona così com’è custodisce il germe di vita eterna che Egli stesso vi ha seminato e che attende solo di portare a maturazione e compimento. Noi siamo il “dove” poter trovare, in mezzo ai “deserti” dell’umanità, l’alimento necessario per “sfamare la folla” in mezzo alla quale viviamo.
Basta l’umiltà che sa guardare con compassione alla propria storia e alla propria realtà, accettando i limiti e le malattie, senza difendere nulla con la scusa di essere inadatti o inesperti, per “deporre” con audacia, istante dopo istante, tutto noi stessi nelle mani del Signore. Nella sua compassione saprà trasformare la nostra vita come nell’”eucaristia” trasforma il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue. Questo Avvento ci chiama a “sederci” nella liturgia e nella preghiera, per consegnare a Cristo le nostre ore, i nostri progetti, i nostri schemi perché siano “spezzati” dalle sue mani trapassate dai chiodi che lo crocifiggono alla nostra debolezza, e per questo moltiplicati in una fecondità che il mondo non conosce. Solo da una vita “spezzata” per amore, infatti, scaturisce una vita saziata, abbondante sino ad “avanzare sette sporte", la pienezza capace di “sfamare” chi ancora non conosce l’amore di Dio.
Il miracolo non si produce da niente,
ma da una prima modesta condivisione
di ciò che un semplice ragazzo aveva con sé.
Gesù non ci chiede quello che non abbiamo,
ma ci fa vedere che se ciascuno offre quel poco che ha,
può compiersi sempre di nuovo il miracolo:
Dio è capace di moltiplicare il nostro piccolo gesto di amore
e renderci partecipi del suo dono.
Benedetto XVI, Angelus del 29 luglio 2012
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