Venerdì della XXII settimana del Tempo Ordinario




αποφθεγμα Apoftegma

Voglio che il mio Volto, 
il quale riflette le pene intime del mio animo, 
il dolore e l'amore del mio Cuore, 
sia più onorato. 
Chi mi contempla mi consola.

Il Signore alla Beata Pierina De Micheli


  

UN ALTRO COMMENTO







L'ANNUNCIO
Dal Vangelo secondo Luca 5,33-39

In quel tempo, i farisei e i loro scribi dissero a Gesù: «I discepoli di Giovanni digiunano spesso e fanno preghiere, così pure i discepoli dei farisei; i tuoi invece mangiano e bevono!». 
Gesù rispose loro: «Potete forse far digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora in quei giorni digiuneranno». 
Diceva loro anche una parabola: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spaccherà gli otri, si spanderà e gli otri andranno perduti. Il vino nuovo bisogna versarlo in otri nuovi. Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice: “Il vecchio è gradevole!”».



IL DIGIUNO DEGLI INNAMORATI CHE CI SAZIA DI UN ALIMENTO INCORRUTTIBILE


“In quel tempo”, nel quale Gesù aveva guardato, amato e chiamato Matteo, l’uomo più odiato della Galilea, il pubblicano, come dire il politico più corrotto che ha usato dei soldi pubblici per farsi rimborsare di tutto, comprese le escort. “In quel tempo”, nel quale Gesù era sceso nel digiuno di vita e di amore di Matteo, e questi, trasformato dalla misericordia imprevista e gratuita, sazio di vita e di amore, aveva invitato Gesù a casa sua, la più impura, la più lontana dal Regno di Dio. “In quel tempo” in cui i peccatori erano stati “invitati a nozze” e “lo Sposo era con loro”, alcuni scribi farisei si indignano perché le loro “preghiere” apparivano improvvisamente come un “vestito vecchio”, e i loro “digiuni” come “otri vecchi”. Le loro “preghiere” cioè, non erano il vestito adeguato per entrare al banchetto, e i loro “digiuni” erano otri nei quali non si poteva “versare il vino nuovo” delle nozze. Erano troppo gelosi del “vino vecchio” per “desiderare” il “nuovo. Paradossalmente, le “preghiere” e i “digiuni”, li impermeabilizzavano proprio di fronte a ciò che la preghiera implora e il digiuno attende. Il rispetto scrupoloso delle regole li rendeva giusti, e per questo avevano perso la capacità di stupirsi di fronte all’imprevedibilità di un amore che giustifica gratuitamente il peccatore. Si illudevano di non averne bisogno: “avevano zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza; poiché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio” (Rm 9,2-3). Come accade a noi, “abituati” alle nostre regole con cui cerchiamo di stabilire in famiglia, nella comunità cristiana, ovunque la nostra giustizia. Ma, come Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge” così anche noi falliamo su tutti i fronti. “E perché mai? Perché”, come Israele, non ricerchiamo” la giustizia - il compimento della vita -  “dalla fede, ma come se derivasse dalle opere”. E così anche noi “ urtiamo contro la pietra d'inciampo” che è Cristo crocifisso, l’amore che, gratuitamente, guarda, giustifica e chiama il peccatore a seguirlo in un vita nuova. In fondo non “desideriamo” andare dietro al Signore (è lo stesso verbo), perché il “vino vecchio” avvelenato dalla superbia che il demonio “versa” nell’“otre” che è il nostro uomo “vecchio”, insieme all’“abito” religioso e onesto con cui rivestiamo ipocritamente parole e gesti, ci impediscono di aprirci con stupore alla Grazia. I “discepoli” di Gesù, invece, Matteo e i suoi amici peccatori per cominciare, non avevano altro “otre” che la loro debolezza; i loro peccati, noti a tutti, li vestivano di indegnità. Non potevano immaginare che Gesù, il famoso Rabbì di Nazaret che si diceva Figlio di Dio, fissasse lo sguardo del suo cuore su di loro. Erano esclusi dalla comunità, ingiusti, empi, corrotti e traditori dell’Alleanza. 


E invece lo Sposo aveva invitato proprio loro, come continua anche oggi ad invitare i peccatori, quelli che anche tu disprezzi, disperando della loro salvezza. Non disprezzi tua moglie, tuo marito, i tuoi figli perché non rispettano le tue regole? O perché non si comportano neanche come “i discepoli di Giovanni”, mica erano ipocriti quelli, e “mangiano e bevono” invece di “digiunare” come fanno quelli della famiglia che da tempo invidi? Fermati un attimo, perché il Vangelo di oggi viene come una bomba d’amore sulle certezze che ti stanno pietrificando. Sei un peccatore come Matteo, e Dio ti ama così come sei, proprio come ha amato Matteo. Non ne sei degno, non hai nessuna credenziale da esibire… Quello che nascondi nel cuore è lì a dirtelo… Ma Gesù, che ti conosce, ti invita anche oggi al suo banchetto di nozze. Hai già "digiunato", anche se non te ne sei accorto; sei stato a "digiuno" d'amore nei lunghi anni in cui hai giudicato tuo fratello. Hai già "pregato" tante volte, come gli ebrei schiavi in Egitto, quando hai gridato dal fondo del tuo cuore ferito incatenato al peccato. Coraggio allora, perché Gesù non ti ha disprezzato, anzi, ha ascoltato il tuo grido e l'ha accolto come una preghiera; è sceso nella tua tomba riconoscendo in essa il tuo digiuno di vita. E' venuto, e viene a te perché ti ha scelto per essere un suo discepolo. Allora, vuoi continuare a bere il vino vecchio o “desideri” che Gesù ti rivesta con il “vestito nuovo” della misericordia, con la candida veste battesimale che ti ridona l’immagine e la somiglianza con il Padre che ti ha creato? Coraggio, “sottomettiti alla Giustizia di Dio” e “mangia e bevi” al banchetto preparato per te nella Chiesa, perché la Grazia trasformi il tuo “uomo vecchio” in un “otre nuovo” capace di accogliere il “vino nuovo” dell’amore di Dio. Allora comprenderai che il “digiuno” al quale sei chiamato è quello che esprime il “desiderio” autentico dello Sposo quando sperimenterai che ti “è stato tolto”. Quando, infatti, ti sarai addormentato, forse sazio di "mangiare e bere", non temere, perché il tuo cuore sanato veglierà, e saprà riconoscere l'Amato nel silenzio della notte. Ti alzerai per aprirgli, troverai le tracce del suo passaggio, ma Lui non ci sarà. Allora ti alzerai per cercarlo nella notte dell’aridità, e incontrerai le guardie che fanno la ronda, cioè il demonio che ti tenterà per rubarti l'esperienza di Cristo e del suo amore. Coraggio, sarà quello il tempo in cui ravvivare la memoria dello Sposo e il “desiderio” di seguirlo sino a trovarlo; sarà proprio "il tempo in cui digiunare", “rinunciando a se stessi” e “prendendo la propria croce”. Quando siamo inchiodati sulla Croce è "naturale" avere sete come Gesù: è il digiuno autentico e necessario che esprime la nostra condizione esistenziale. Non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualcosa è dunque un'esigenza, fa scendere le lacrime innamorate che sperano e "desiderano" di ritrovare e stringere l'Amato! Proprio per questo con il digiuno affermiamo di voler entrare nella storia così come si presenta, accettando il dolore e la precarietà, perché solo in essa possiamo seguire le orme che vi ha deposto lo Sposo. "Digiunare" dunque è il modo con cui esprimere, qui sulla terra, il nostro consenso alle nozze che ci attendono in Cielo perché, durante il cammino, ne pregustiamo le delizie.



QUI IL COMMENTO COMPLETO E MOLTI APPROFONDIMENTI





Amore e libertà: i discepoli di Gesù digiunano per amore, in libertà. Il digiuno cristiano è memoria, non è solo una pratica religiosa per purificarsi. E' inginocchiarsi dinanzi al Crocifisso e implorare il suo ritorno. E' una condizione essenziale dell'esistenza, vivendo autenticamente la vita terrena, che è già e non ancora. Lo Sposo è con noi, ma, contemporaneamente, non lo è in pienezza, perché questa è riservata al Cielo. La terra è ancora un cammino, passi che si susseguono verso il compimento, mentre la mancanza e il desiderio si acuiscono all'avvicinarsi della meta. Le nostre nozze con il Signore sono certo indissolubili, eppure “vi sono giorni nei quali lo sposo ci è tolto”. E’ quando la vita si addentra nel mistero di una compiutezza pregustata ma non ancora completamente assaporata. E' il mistero della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, che esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma che digiuna nell'attesa della parusia. Essa vive del Memoriale del suo Signore, l'eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Per Lui getta ogni avere, gli spiccioli che ha per vivere, per Lui digiuna, perché Lui è la sua vita.

Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, che afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! E' la parola che chiude la Scrittura: "Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù" (Ap. 22,20). Il digiuno è il nostro Maràn athà, le lacrime appassionate della Maddalena presso la tomba del suo Signore; il digiuno è l'attesa fatta preghiera, perché lo Sposo torni presto per portarci con Lui. Presentando il calice nell’ultima cena, Gesù ha detto: «In verità vi dico, non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel Regno di Dio» (Mc 14,25). Dopo quel banchetto lo Sposo sarà tolto e i discepoli dovranno digiunare nell’attesa del suo ritorno, nella speranza dell’eterno «banchetto delle nozze dell’Agnello» (Ap 19,9). Il nostro digiuno partecipa così a quello di Gesù deposto nel sepolcro. Un digiuno che custodisce la promessa di bere con Lui il vino nuovo del Regno di Dio. Digiunare è spogliarci in attesa d'essere una sola carne redenta con il nostro Sposo, nell'ansia del santo e castissimo amplesso, quell'amore eterno per il quale siamo stati creati. 

Il digiuno esprime la novità di un rapporto autentico con Dio, non più basato sul timore ma sull'amore, come un’abitudine nuova, l’abito nuovo con il quale entrare nella storia quotidiana; come alle nozze di Cana, il digiuno prepara e spera, l’avvento del “vino nuovo”, il segno di una festa e un'allegria sconosciute che scaturiscono dall'amore più forte della morte. La Chiesa, come Maria, sa che Gesù è con Lei, nella vita dei suoi figli, anche se non è giunta ancora l’ora della sua definitiva manifestazione riservata alla parusia. Per questo prega e digiuna perché. anche se le nozze si compiranno solo nel mondo futuro, il demonio non abbia potere sul loro preludio che è la vita in questo mondo. Pur digiunando, la Chiesa non smette il “vestito nuovo” della festa per indossare abiti rattoppati che certamente si squarceranno. 


I cristiani non cercano soluzioni superficiali ai problemi, come i digiuni fatti per dimagrire nel corpo e ingrassare così l’uomo vecchio schiavo dell’orgoglio e della vanità. In poco tempo, e senza accorgersene, la fame del superbo si fa più forte ed esigente, e finisce per divenire più grasso e tronfio di prima, l’esito inevitabile di chi cerca sempre il compromesso tra il passato di peccato e la vita nuova della Grazia, tra il mondo e Dio, come "toppe cucite sugli strappi", "otri" incapaci di contenere e custodire l’assoluta novità dell’amore di Cristo. I cristiani, paradossalmente, digiunano pregustando già il “vino nuovo” che non spacca gli otri della propria vita; proprio nella precarietà e nella debolezza di una vedova, la memoria dello Sposo che è il digiuno, costituisce la loro forza, con la quale entrano nei giorni senza dissipare e strappare nulla, donandosi con amore a tutti.

Per questo Santa Teresa d'Avila diceva "Muoio perché non muoio", e San Paolo affermava che “il morire è meglio del vivere”. Non era disprezzo della vita, anzi: più si vive intensamente la vita terrena più si desidera di addormentarsi per risvegliarsi in Cielo. Più la vita è perduta per amore, più forte è l'ansia d'un amore perfetto e definitivo: siamo chiamati a divenire “uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo” (N. Kabasilas). Feriti dal dardo d'amore del loro Sposo i figli delle nozze vivono un'attesa di pienezza che nulla sulla terra può colmare. 

Quando sperimentiamo la lontananza da una persona cara che vorremmo vicino; quando dobbiamo vedere le persone amate dileguarsi e scomparire dall'orizzonte della nostra vita; quando forte è l'esperienza della frustrazione, e sforzi, progetti, speranze sembrano andare in fumo; quando le sofferenze, la precarietà, le malattie, la solitudine, i fallimenti, ghermiscono l'esistenza e non le lasciano proprio nulla cui appoggiarsi, nulla a dare consistenza alle giornate, al lavoro, agli affetti; quando le debolezze ci rivelano incapaci di donare la vita e amore; quando la Croce ci accoglie, spogli di ogni certezza, nell'esperienza dura di trovarci lontani dal paradiso, nudi e indifesi come Adamo ed Eva prostrati dalla fatica e dal dolore; quando, come a Cana, “non abbiamo più vino”, e questo definisce senza sconti la nostra vita; quando la guerra e la violenza incombono, e i demoni affilano le armi per ucciderci, il digiuno emerge quale condizione esistenziale autentica e ineludibile. Papa Francesco lo sa bene e per questo ha invitato tutti a digiunare perché il Signore ci doni la sua pace. Essa non può essere il frutto di compromessi terreni, precari e stabiliti per essere infranti; la pace può essere solo un dono celeste, che superi le barriere degli egoismi. Qualcosa di nuovo e imprevisto, un otre nuovo per contenere il vino nuovo della vita divina. 


Per questo in alcuni momenti, quando più intensa è l'esperienza della mancanza di pienezza e più viva è la consapevolezza che la presenza assoluta dello Sposo è questione di vita o di morte - quando siamo incastrati sul legno della Croce - è "naturale" il digiuno, il segno con il quale affermare di voler accogliere la storia così come Dio ce la dona, perché proprio in essa è presente il nostro Sposo. Cristo crocifisso, infatti, appare come la feccia degli uomini, uno davanti al quale coprirsi il volto per non guardare, non di certo come lo Sposo più bello; eppure, celato in quel "digiuno d'uomo" c'è Dio. Sul Golgota nessuno era capace di vederlo; al contrario, era lì come il peggiore dei bestemmiatori. Esattamente come appare la nostra esistenza, ferita, nuda, affamata; ma in essa è nascosto Cristo, carne della nostra carne, la sua Vita divina vi è deposta come un seme nella nostra vita mortale, la pienezza incastonata nella precarietà e nella caducità.  


Non mangiare, non fumare, non parlare, digiunare da qualcosa, non è allora solo una pratica ascetica per "saziare" e ingrassare l'uomo vecchio che, spesso, fa anche della religione qualcosa di carnale, idolatrando perfino la santità. Digiunare è un'esigenza, un grido dalla Croce, l'eco stesso delle parole del Signore Crocifisso: "Dio mio, Dio mio, Sposo mio perché mi hai abbandonato?" (Sal. 21). Il digiuno sono le lacrime che sperano il suo amore. E' questa l'ascesi, l'ascesa orante al trono della misericordia che sappiamo non deludere mai. Digiunare è lasciare che la verità prenda il posto delle menzogne, delle fughe e delle alienazioni, nella speranza fiduciosa di fare la stessa esperienza del salmista e di Gesù descritta al termine del salmo: “E io vivrò per lui… «Ecco l'opera del Signore!»” (Sal. 21). La fame che il digiuno suscita rivela la nostra realtà, quella dei nostri figli, dei giovani ai quali, troppo spesso, indichiamo percorsi diametralmente opposti e che non potranno mai realizzare le loro vite, consegnandoli così alla menzogna della vanità. 

E' dovere ineludibile di ogni educatore e apostolo illuminare profeticamente la vita e indicare nel digiuno, nel sacrificio, nel combattimento quotidiano, l'unico cammino che svela la verità celata nelle apparenze, la sola via autentica per vivere e non sopravvivere. Digiunare è come dipingere un'icona, un'immagine del destino promesso celato tra le pieghe delle vicende umane: "... quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un “digiuno della vista”. La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la gloria di Dio sul volto di Cristo" (J. Ratzinger, Messaggio inviato al Meeting di Rimini, 2002). 

La nostra vita è come un'icona che svela al mondo la Verità trasfigurata nella carne delle nostre storie quotidiane. E’ dunque parte essenziale della missione che ci è affidata, camminare interiormente con Cristo per aprire il Cielo della speranza a questa generazione. Questi luoghi e quest'ora non sono il destino definitivo: ogni uomo è nato per il Paradiso. Il nostro digiuno ne è un segno, per tutti.

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