"Quando sei unito a Dio mediante la preghiera, esamina chi sei in verità; parlagli se puoi, e se questo ti è impossibile, fermati, rimani davanti a lui. Non darti altra preoccupazione"
San Pio (Padre Pio)
Dal Vangelo secondo Matteo 6,1-6.16-18.
Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli.
Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno gia ricevuto la loro ricompensa.
Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra,
perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno gia ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno gia ricevuto la loro ricompensa.
Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto,
perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.
Il Commento
Chiudere la porta e cercare nostro Padre. Scendere le scale del cuore e scoprire di vivere come orfani, chiasso all'esterno, in cose e impegni e parole, e far tutto per essere notati; anche quando ci nascondiamo scappando dagli altri, in fondo è perchè la vita, la nostra, dipende da loro, dagli altri.
Una parola, questa di oggi, per gli affamati di vita e di amore. Ed è una buona notizia. C'è speranza. C'è la conversione, la Teshuvà direbbe un pio israelita, il ritorno. La conversione è il figlio prodigo, la fitta che gli percuote il petto, la percezione chiara d'aver buttato la vita e di essere ormai un relitto in secca, la solitudine, il nulla nel cuore e il freddo del vuoto, nessun viso, nessuna parola. Tutto perduto, dietro a sé stesso. E, per una Grazia misteriosa, quella che scocca al termine della discesa, rientra in sé stesso, da dove era uscito ingannato da seducenti sirene di fumo. Rientra, si trova da solo, intuisce, comprende quel che ha smarrito. Suo Padre. "Mi alzerò e tornerò da mio Padre".
Questa parola ci invita a chiudere la porta del cuore e rientrare lì da dove siamo usciti, perduti tra i tentacoli del lavoro, degli impegni, delle cose, degli affetti, di noi spalmati sul cuore, ruvido e secco, degli "altri". Rientrare nel cuore e scoprire, senza paura, la solitudine. Il digiuno, l'elelemosina, la preghiera, sono innanzi tutto SEGNI d'una realtà che il mondo e il demonio ci occultano: la solitudine profonda della dimenticanza di Dio. Sono il SEGNO di una assenza. Non c'è il Padre. E non c'è lo Sposo. Siamo soli. Soli e infelici. Soli e affamati d'amore. Soli anche se pieni di un tanto vuoto e inafferrabile. Siamo soli anche se strepitiamo e ci facciamo notare.
Questa parola ci prende lì dove siamo. Come il figlio prodigo, siamo proni tra le nostre sporche e disordinate giornate, cercando invano una ghianda, un affetto, un sorriso, una parola, un qualcosa di vero che dia verità e valore alla nostra vita. E' tempo di chiudere la porta, cercare nel segreto lo sguardo di Chi abbiamo dimenticato. Per questo siamo tante volte prede della concupiscienza. E' per aver smarrito la nostra identità di figli che buttiamo i nostri corpi in relazioni fugaci. La sensualità, i peccati legati al sesso, siano essi i rappori prematrimoniali o i rapporti coniugali non aperti alla vita, o siano essi i peccati di una sessualità disordinata, la masturbazione o i rapporti omosessuali, sono tutti originati da una perdita di senso e di identità. Sono i peccati che caratterizzano gli orfani; anche la psicologia ci rivela che i disordini sessuali hanno sempre origine nella disintegrazione dei rapporti con i propri genitori.
A maggior ragione essi sono il frutto avvelenato del demonio che ha soppiantato il Padre nel cuore dell'uomo. Quando è lui a far da padre, i suoi figli ne vorranno compiere i desideri. E sono sempre desideri di morte, realizzati attraverso relazioni egoistiche, che succhiano la vita dell'altro per restarne poi uccisi. E' l'esperienza della nostra vita. Fare tutto per attirare l'attenzione, accaparrarsi del cuore, dei pensieri, della stima e degli affetti di chi ci sta intorno.
E' concupiscienza pura, vivere fuori dalla tenda, come Esaù, cacciando amore e sostentamento laddove non ve ne sono, rischiando così, seriamente, la primogenitura. Vivere proiettati al di fuori di sé stessi in una continua esibizione dei propri sentimenti, delle proprie parole, delle proprie buone azioni, frecce con le quali crediamo di infilzare le nostre prede: l'amico, la fidanzata, il marito, la moglie, il capoufficio, chiunque sia, compromettendo il rapporto esistenziale con nostro Padre.
Per questo oggi Gesù ci richiama ad un segreto, a ritornare alla stanza più intima, tameion nell'originale greco del Vangelo, che può significare un magazzino o una dispensa, oppure la stanza più intima, quella meno adatta ad attirare l'attenzione degli ospiti, probabilmente perchè senza finestre. Chiudere dunque la porta, e non avere finestre, gli occhi e la bocca chiusi alla concupiscienza, in un'intimità di figli che tutto attendono da loro Padre. E' il pudore cui siamo chiamati, il segreto intimo di una relazione che ci mostra solo a nostro Padre. Esattamente come siamo. Il pudore, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica "è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l'intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione... Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell'abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione". E' esattamente ciò che Tobi dice a suo figlio Tobia: "E' bene tenere nascosto il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio" (Tb. 12,7).
E' l'atteggiamento di Maria che custodisce ogni parola ed ogni avvenimento come i luoghi del suo intimo rapporto con Dio, meditando nel suo cuore. E' il pudore e la castità che custodisce il proprio intimo nell'amore di Dio, ma che prorompe altresì nel Magnificat che benedice e rivela le opere del Padre. Città sul monte, candelabro che fa luce proprio perchè alla radice vi è un rapporto saldo ed esistenziale con la fonte della Vita e di ogni Bene. E' l'incontro personale con la parola e lo Sprito che si incarnano nella vita, che si fanno benedizione e preghiera comunitaria. Per questo le parole di Gesù di oggi sono una corona nella quale è incastonato il Padre Nostro. Padre mio e Padre nostro, un unico respiro.
Lo esprime con grande chiarezza Benedetto XVI: "Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda" (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Pag. 160). In ogni caso è fondamentale porre i propri occhi fissi su Cristo, principio e perfezionatore della nostra fede. Lasciarci guardare da Lui solo, desiderare solo il suo sguardo di misericordia. Noi ci mostriamo agli altri credendo che lo sguardo altrui ci dia quell'identità che abbiamo perduto; così irretiamo gli occhi di chi ci è intorno nelle nostre parole, nelle nostre opere, nella simpatia, nelle battute, nell'ipocrisia. E ne restiamo a nostra volta accalappiati.
E' l'ophtalmodoulia (Ef. 6,6), la schiavitù degli occhi. Accanto a quella delle parole, come diceva Benedetto XVI "Mi viene in mente una bellissima parola della prima lettera di san Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: 'Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis'. L'obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell'anima. La 'castità' a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non è cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità" (Benedetto XVI, Omelia alla Commissione Teologica Internazionale, 6 febbraio 2007).
E la Verità è Cristo, e in Lui risplende anche la verità di ciascuno, la debolezza e l'incapacità pronte ad accogliere l'onnipotenza divina. E' lui infatti che conosce sino in fondo chi siamo davvero, e, in questa conoscenza rompe ogni ipocrisia, togliendo ogni maschera che ci rende anonimi, senza identità se non quella vana, senza peso, che viene dalla vana-gloria. Cercare dunque il suo sguardo, la sua Gloria, il peso specifico della nostra esistenza in Lui; tutto, in pensieri, parole ed opere in Cristo e per Lui. E' questa la Parola di oggi, meravigliosa. In tutto quello che pensiamo, diciamo e facciamo (elemosina, digiuno e preghiera ne sono i simboli "religiosi") "è sempre in gioco il bisogno di riconoscimento. Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza; resterò sempre schiavo e del giudizio degli altri e dell'immagine (idolatria) del mio invece che della realtà di Dio. Se lo cerco in Dio, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, addirittura un prodigio (Ger. 31, 3; Is. 43, 4) Sal. 139,14)... Il mio essere è il suo vedermi e amarmi" (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo I, Bologna 1999, pag. 84).
Torniamo a casa dunque, torniamo a nostro Padre insieme a Gesù. E' Lui che abbiamo perduto, la Sua ricompensa che è il Suo abbraccio di misericordia, che è il Suo Figlio stesso, il Suo amore fatto carne e sangue, l'amore che non si esaurisce. Ritorniamo a casa. Papà è alla finestra e freme nell'attesa di correrci intorno. Ma il cammino è cosa nostra, senza di esso non c'è amore vero.
Il Figlio lo ha aperto per noi, risalendo dagli inferi prima di noi. Le Sue orme ci conducono dalla morte alla vita, sino alla notte delle notti, la notte dei figli nel Figlio. In Lui, nell'intimità di un pudore che si abbandona confidente, possiamo oggi tornare a casa. Ed essere davvero persone, uomini, donne, cristiani, adulti, vivi di una vita che non muore.
APPROFONDIMENTI
Benedetto XVI. Da Gesù di Nazaret
Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto. La cosa più importante -al di là di tali situazioni momentanee - è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l'orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell'amore del prossimo. Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale.
Una parola, questa di oggi, per gli affamati di vita e di amore. Ed è una buona notizia. C'è speranza. C'è la conversione, la Teshuvà direbbe un pio israelita, il ritorno. La conversione è il figlio prodigo, la fitta che gli percuote il petto, la percezione chiara d'aver buttato la vita e di essere ormai un relitto in secca, la solitudine, il nulla nel cuore e il freddo del vuoto, nessun viso, nessuna parola. Tutto perduto, dietro a sé stesso. E, per una Grazia misteriosa, quella che scocca al termine della discesa, rientra in sé stesso, da dove era uscito ingannato da seducenti sirene di fumo. Rientra, si trova da solo, intuisce, comprende quel che ha smarrito. Suo Padre. "Mi alzerò e tornerò da mio Padre".
Questa parola ci invita a chiudere la porta del cuore e rientrare lì da dove siamo usciti, perduti tra i tentacoli del lavoro, degli impegni, delle cose, degli affetti, di noi spalmati sul cuore, ruvido e secco, degli "altri". Rientrare nel cuore e scoprire, senza paura, la solitudine. Il digiuno, l'elelemosina, la preghiera, sono innanzi tutto SEGNI d'una realtà che il mondo e il demonio ci occultano: la solitudine profonda della dimenticanza di Dio. Sono il SEGNO di una assenza. Non c'è il Padre. E non c'è lo Sposo. Siamo soli. Soli e infelici. Soli e affamati d'amore. Soli anche se pieni di un tanto vuoto e inafferrabile. Siamo soli anche se strepitiamo e ci facciamo notare.
Questa parola ci prende lì dove siamo. Come il figlio prodigo, siamo proni tra le nostre sporche e disordinate giornate, cercando invano una ghianda, un affetto, un sorriso, una parola, un qualcosa di vero che dia verità e valore alla nostra vita. E' tempo di chiudere la porta, cercare nel segreto lo sguardo di Chi abbiamo dimenticato. Per questo siamo tante volte prede della concupiscienza. E' per aver smarrito la nostra identità di figli che buttiamo i nostri corpi in relazioni fugaci. La sensualità, i peccati legati al sesso, siano essi i rappori prematrimoniali o i rapporti coniugali non aperti alla vita, o siano essi i peccati di una sessualità disordinata, la masturbazione o i rapporti omosessuali, sono tutti originati da una perdita di senso e di identità. Sono i peccati che caratterizzano gli orfani; anche la psicologia ci rivela che i disordini sessuali hanno sempre origine nella disintegrazione dei rapporti con i propri genitori.
A maggior ragione essi sono il frutto avvelenato del demonio che ha soppiantato il Padre nel cuore dell'uomo. Quando è lui a far da padre, i suoi figli ne vorranno compiere i desideri. E sono sempre desideri di morte, realizzati attraverso relazioni egoistiche, che succhiano la vita dell'altro per restarne poi uccisi. E' l'esperienza della nostra vita. Fare tutto per attirare l'attenzione, accaparrarsi del cuore, dei pensieri, della stima e degli affetti di chi ci sta intorno.
E' concupiscienza pura, vivere fuori dalla tenda, come Esaù, cacciando amore e sostentamento laddove non ve ne sono, rischiando così, seriamente, la primogenitura. Vivere proiettati al di fuori di sé stessi in una continua esibizione dei propri sentimenti, delle proprie parole, delle proprie buone azioni, frecce con le quali crediamo di infilzare le nostre prede: l'amico, la fidanzata, il marito, la moglie, il capoufficio, chiunque sia, compromettendo il rapporto esistenziale con nostro Padre.
Per questo oggi Gesù ci richiama ad un segreto, a ritornare alla stanza più intima, tameion nell'originale greco del Vangelo, che può significare un magazzino o una dispensa, oppure la stanza più intima, quella meno adatta ad attirare l'attenzione degli ospiti, probabilmente perchè senza finestre. Chiudere dunque la porta, e non avere finestre, gli occhi e la bocca chiusi alla concupiscienza, in un'intimità di figli che tutto attendono da loro Padre. E' il pudore cui siamo chiamati, il segreto intimo di una relazione che ci mostra solo a nostro Padre. Esattamente come siamo. Il pudore, secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica "è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l'intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione... Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell'abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione". E' esattamente ciò che Tobi dice a suo figlio Tobia: "E' bene tenere nascosto il segreto del re, ma è cosa gloriosa rivelare e manifestare le opere di Dio" (Tb. 12,7).
E' l'atteggiamento di Maria che custodisce ogni parola ed ogni avvenimento come i luoghi del suo intimo rapporto con Dio, meditando nel suo cuore. E' il pudore e la castità che custodisce il proprio intimo nell'amore di Dio, ma che prorompe altresì nel Magnificat che benedice e rivela le opere del Padre. Città sul monte, candelabro che fa luce proprio perchè alla radice vi è un rapporto saldo ed esistenziale con la fonte della Vita e di ogni Bene. E' l'incontro personale con la parola e lo Sprito che si incarnano nella vita, che si fanno benedizione e preghiera comunitaria. Per questo le parole di Gesù di oggi sono una corona nella quale è incastonato il Padre Nostro. Padre mio e Padre nostro, un unico respiro.
Lo esprime con grande chiarezza Benedetto XVI: "Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda" (J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Pag. 160). In ogni caso è fondamentale porre i propri occhi fissi su Cristo, principio e perfezionatore della nostra fede. Lasciarci guardare da Lui solo, desiderare solo il suo sguardo di misericordia. Noi ci mostriamo agli altri credendo che lo sguardo altrui ci dia quell'identità che abbiamo perduto; così irretiamo gli occhi di chi ci è intorno nelle nostre parole, nelle nostre opere, nella simpatia, nelle battute, nell'ipocrisia. E ne restiamo a nostra volta accalappiati.
E' l'ophtalmodoulia (Ef. 6,6), la schiavitù degli occhi. Accanto a quella delle parole, come diceva Benedetto XVI "Mi viene in mente una bellissima parola della prima lettera di san Pietro, nel primo capitolo, versetto 22. In latino suona così: 'Castificantes animas nostras in oboedentia veritatis'. L'obbedienza alla verità dovrebbe ‘castificare’ la nostra anima, e così guidare alla retta parola e alla retta azione. In altri termini, parlare per trovare applausi, parlare orientandosi a quanto gli uomini vogliono sentire, parlare in obbedienza alla dittatura delle opinioni comuni, è considerato come una specie di prostituzione della parola e dell'anima. La 'castità' a cui allude l’apostolo Pietro è non sottomettersi a questi standard, non è cercare gli applausi, ma cercare l’obbedienza alla verità" (Benedetto XVI, Omelia alla Commissione Teologica Internazionale, 6 febbraio 2007).
E la Verità è Cristo, e in Lui risplende anche la verità di ciascuno, la debolezza e l'incapacità pronte ad accogliere l'onnipotenza divina. E' lui infatti che conosce sino in fondo chi siamo davvero, e, in questa conoscenza rompe ogni ipocrisia, togliendo ogni maschera che ci rende anonimi, senza identità se non quella vana, senza peso, che viene dalla vana-gloria. Cercare dunque il suo sguardo, la sua Gloria, il peso specifico della nostra esistenza in Lui; tutto, in pensieri, parole ed opere in Cristo e per Lui. E' questa la Parola di oggi, meravigliosa. In tutto quello che pensiamo, diciamo e facciamo (elemosina, digiuno e preghiera ne sono i simboli "religiosi") "è sempre in gioco il bisogno di riconoscimento. Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza; resterò sempre schiavo e del giudizio degli altri e dell'immagine (idolatria) del mio invece che della realtà di Dio. Se lo cerco in Dio, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, addirittura un prodigio (Ger. 31, 3; Is. 43, 4) Sal. 139,14)... Il mio essere è il suo vedermi e amarmi" (S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Matteo I, Bologna 1999, pag. 84).
Torniamo a casa dunque, torniamo a nostro Padre insieme a Gesù. E' Lui che abbiamo perduto, la Sua ricompensa che è il Suo abbraccio di misericordia, che è il Suo Figlio stesso, il Suo amore fatto carne e sangue, l'amore che non si esaurisce. Ritorniamo a casa. Papà è alla finestra e freme nell'attesa di correrci intorno. Ma il cammino è cosa nostra, senza di esso non c'è amore vero.
Il Figlio lo ha aperto per noi, risalendo dagli inferi prima di noi. Le Sue orme ci conducono dalla morte alla vita, sino alla notte delle notti, la notte dei figli nel Figlio. In Lui, nell'intimità di un pudore che si abbandona confidente, possiamo oggi tornare a casa. Ed essere davvero persone, uomini, donne, cristiani, adulti, vivi di una vita che non muore.
APPROFONDIMENTI
Benedetto XVI. Da Gesù di Nazaret
Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto. La cosa più importante -al di là di tali situazioni momentanee - è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l'orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell'amore del prossimo. Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale.
Emiliano Jimenez. Elemosina, preghiera, digiuno. Sul Discorso della montagna
ELEMOSINA (Mt 6,1-4)
a) La giustizia superiore
Gesù ha proposto «la giustizia superiore» del regno dei cieli. Di fronte al formalismo e al moralismo degli scribi presenta la volontà di Dio Padre, che non si compiace di gettare pesanti fardelli sulle spalle dei suoi figli. La gratuità della salvezza di Dio suscita non un rigorismo o una moltiplicazione infinita di leggi, ma una risposta d'amore all'amore ricevuto. Ora, nel capitolo sesto, inizia una sezione nuova. Di fronte alla giustizia dei farisei, fondata sul compimento esteriore della legge, Gesù presenta la «giustizia più grande» del regno vissuta nella relazione interiore del credente con Dio. Si tratta di come vivere «la giustizia superiore» senza ostentazione, senza cercare l'applauso degli uomini, ma unicamente l'approvazione di Dio: «Guardatevi dal praticare le vostre opere buone davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 6,1). Praticare la giustizia, espressione della volontà di Dio, per essere visti dagli uomini è la condotta che caratterizza gli scribi e i farisei: «Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini; allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano i posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbi dalla gente» (Mt 23,1-7). Scontrandosi direttamente con i farisei, Gesù dice loro: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16,15). Questa vanagloria si mostra apertamente nel fariseo che si reca al tempio a pregare insieme col pubblicano (Lc 18,9-14). Cercare la propria gloria davanti agli uomini chiude l'orecchio all'ascolto della parola, e in tal modo si chiude ugualmente il cuore alla fede. Gesù, discutendo con i farisei, li rimprovera: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5,44). E, in un'altra occasione, Gesù afferma che la ricerca della propria gloria chiude anche la bocca, impedendo la confessione della fede: «Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga; amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio» (Gv 12,42-43). San Giovanni Crisostomo dice che «la vanagloria è la più dispotica delle passioni, che si insinua in quanti si incamminano sulla strada della virtù e minaccia di corrompere il frutto delle buone opere [...] Cristo ne parla come di una fiera difficile da catturare e capace di sorprendere chi non è molto sveglio. Perciò dice: State attenti, e così dice anche san Paolo ai Filippesi: guardatevi dai cani (Fil 3,2). La vanagloria, come la fiera, si presenta all'improvviso, quasi trattenendo il respiro, per sorprendere chi non è vigilante». Gesù illustra la sua dottrina sulla «giustizia superiore» mediante tre esempi: l'elemosina, la preghiera e il digiuno, strumenti attraverso i quali il credente vive la sua relazione con il prossimo, con Dio e con le cose. Si tratta di tre classiche pratiche della pietà giudaica. Gesù non le rifiuta, ma desidera che si realizzino con uno spirito nuovo. Gesù, proponendo la «giustizia più grande», non desidera che i suoi discepoli superino i farisei in digiuni, preghiere o elemosine. La superiorità non risiede nella quantità, ma nello spirito nuovo con il quale Gesù desidera che si pratichino. Matteo tratteggia i tre esempi a tinte forti in modo che producano una grande impressione nei suoi ascoltatori. Da una parte presenta il modo negativo di fare l'elemosina, pregare o digiunare dei farisei. E il modo ipocrita, ripugnante, di agire con l'unica intenzione di essere visti dagli uomini. E conti-nuando, propone la maniera positiva, autentica, di agire nel segreto, in modo che Dio sia il solo a vedere. Nei tre esempi c'è un forte contrasto, come un'antitesi simile a quelle del capitolo precedente. Presentato il modo negativo, odioso, di agire, si introduce il modo corretto con il «tu invece» seguito da un imperativo fermo, sicuro. I tre esempi si concludono con la stessa affermazione: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Il contrasto tra la falsa e la vera ricompensa, quella degli uomini e quella di Dio, è evidente.
b) Elemosina, preghiera e digiuno
La catechesi sull'elemosina, la preghiera e il digiuno ha una grande risonanza biblica. Si può partire dal Deuteronomio, con il famoso testo dello Shemà, nel quale il digiuno fa riferimento all'anima o mente, la preghiera al cuore e l'elemosina alla proprietà o forze (cfr. Dt 6,4s). si può cercare l'ispirazione nel libro di Tobia, dove si legge: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l'elemosina con la giustizia. Meglio il poco con giustizia che la ricchezza con ingiustizia» (Th 12,8). La preghiera e il digiuno appaiono uniti e raccomandati in molteplici testi (Sal 35,13; Gdt 4,9; 2Sam 12,16; Ne 1,4) e l'elemosina occupa un posto singolare soprattutto nel libro di Tobia, sebbene sia raccomandata anche nei libri dell'Ecclesiastico e dell'Ecclesiaste. Per Tobia «l'elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato. Coloro che fanno l'elemosina godranno lunga vita» (Th 12,9). Qualcosa di simile insegna Gesù Ben Sira ai suoi alunni: «L'acqua spegne un fuoco acceso, l'elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). La Chiesa, nel suo Ufficio delle Letture del terzo martedì di Quaresima, ci presenta una preziosa catechesi di san Pietro Crisologo: «Tre sono le cose, tre, o fratelli, per cui sta salda la fede, perdura la devozione, resta la virtù: la preghiera, il digiuno, la misericordia. Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia. Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola, e ricevono vita l'una dall'altra. Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica. Chi digiuna comprenda bene cosa significhi per gli altri non aver da mangiare. Ascolti chi ha fame, se vuole che Dio gradisca il suo digiuno. Abbia pietà, la eserciti. Chi vuole che gli sia concesso un dono, apra la sua mano agli altri. E un cattivo richiedente colui che nega agli altri quello che domanda per sé. O uomo, sii tu stesso per te la regola della misericordia. Il modo con cui vuoi che si usi misericordia a te, usalo tu con gli altri. La larghezza di misericordia che vuoi per te, abbila per gli altri. Offri agli altri quella stessa pronta misericordia che desideri per te. Perciò preghiera, digiuno, misericordia siano per noi un'unica forza mediatrice presso Dio, siano per noi uri unica difesa, uri unica preghiera sotto tre aspetti.
c) L'elemosina apre l'orecchio di Dio
L'elemosina apre l'orecchio di Dio alla preghiera dei suoi fedeli. Chi chiude il suo cuore alla supplica del povero si espone al rischio che Dio non oda la sua preghiera: «Non respingere la supplica di un povero, non distogliere lo sguardo dall'indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, non offrire a nessuno l'occasione di maledirti, perché se uno ti maledice con amarezza, il suo creatore esaudirà la sua preghiera» (Sir 4,4-6). La misericordia rispetto ai poveri, espressa nell'elemosina, riempie le pagine della Scrittura. Il Dio della misericordia desidera che gli uomini si mostrino misericordiosi tra loro. Nel Deuteronomio si legge una lunga raccomandazione di Dio al suo popolo: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: E vicino il settimo anno, l'anno della remissione; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla; egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te. Dagli generosamente e, quando gli darai, il tuo cuore non si rattristi; perché proprio per questo il Signore Dio tuo ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese» (Dt 15,7-11). Nell'originale greco la parola elemosina significa sentire pietà o misericordia. E la traduzione della hesed di Dio, che si commuove alla vista del bisognoso. Ma, nel linguaggio comune di Israele, la parola passò a significare l'aiuto economico dato a un indigente, che con la sua povertà ha suscitato il sentimento di pietà in chi pratica l'elemosina. Benefica se stesso l'uomo misericordioso» (Pr 11,17), dice un proverbio, poiché «chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore che gli ripagherà la buona azione» (Pr 19,17). Questo proverbio illumina la parola di Cristo che invita a «prestare a coloro da cui non ci si attende una restituzione». Sarà Dio a restituire il prestito abbondantemente. Anche Tobi raccomanda a suo figlio Tobia di essere generoso nel fare l'elemosina, poiché l'elemosina ottiene il favore divino, il perdono dei peccati, preserva dalla morte e dà sicurezza alla vita: «Dei tuoi beni fa elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio. La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, dà molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l'elemosina libera dalla morte e salva dall'andare tra le tenebre. Per tutti quelli che la compiono, l'elemosina è un dono prezioso davanti all'Altissimo» (Th 4,7-11). Per l'Ecclesiastico «chi pratica l'elemosina fa sacrifici di lode» (Sir 35,2). Come sacrificio gradito a Dio, l'elemosina ha un valore salvifico: «L'elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato. Coloro che fanno l'elemosina godranno lunga vita» (Th 12,9). Per Gesù, nel vangelo, l'elemosina è il modo migliore di accumulare un tesoro in cielo: «Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,2-4). La comunità cristiana ha vissuto l'amore di Cristo per i poveri (Lc 4,18-21), condividendo con essi i beni: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (A t 2,44-45). «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e uri anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (At 4,32; cfr. 4,37). Elemosina ha il significato immediato di dare denaro al bisognoso. Ma significa anche aiutare, in senso più ampio, il prossimo. Cristo, citando il profeta Osea (Os 6,6), ci dice che Dio preferisce la misericordia ai sacrifici: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio» (Mt 9,13). «Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa» (Mt 12,7). La misericordia si manifesta in concreto in tante opere di misericordia che Matteo enumera presentandoci il giudizio delle nazioni (Mt 25,31ss).
Una forma concreta di misericordia è l'elemosina al bisognoso. Per Gesù è un atto di culto, che non deve essere profanato con intenzioni egoistiche, realizzandolo con ostentazione, cercando il proprio prestigio davanti agli uomini. Chi cerca la lode degli uomini non rende culto a Dio e perde la sua ricompensa. Nelle assemblee comunitarie della sinagoga si raccoglievano i donativi per il sostegno del culto e per l'aiuto dei poveri della comunità. Quando qualcuno contribuiva con una quantità considerevole, lo si invitava a sedersi a un posto d'onore accanto ai rabbini. In questo modo ci si procurava, con l'elemosina, una lode umana. Gesù ridicolizza questo modo di esercitare l'elemosina con l'immagine della tromba. Suonare la tromba davanti a sé perché tutti vedano la quantità data, nella sinagoga o sulla pubblica piazza, vuol dire rendersi ridicoli come il pavone. Il primo a ridicolizzare coloro che cercano con le loro elemosine l'applauso della gente è il profeta Amos, che con ironia dice ai figli di Israele: «Proclamate ad alta voce le offerte spontanee perché così vi piace di fare, o israeliti» (Am 4,5). La stima agli occhi degli altri è tutto per gli ipocriti, i quali fingono una fede che non hanno: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5,44). L'ipocrisia è, dunque, qualcosa di peggiore della semplice simulazione, ha tratti di empietà. E l'opposto della giustizia di cui parla Gesù nel dis-orso della montagna. Matteo ha dedicato tutto il capitolo ventitrè del suo vangelo a descriverci l'agire degli ipocriti. Contrariamente ad essi, il discepolo di Cristo agisce solo al cospetto di Dio, che vede nel segreto del cuore. Tutte le nostre azioni stanno davanti a Dio: «Tutte le loro opere sono davanti a Lui come il sole, i suoi occhi osservano sempre la loro condotta. A Lui non sono nascoste le loro ingiustizie, tutti i loro peccati sono davanti al Signore. La beneficenza dell'uomo è per lui come un sigillo, egli serberà la generosità come la propria pupilla. Alla fine si leverà e renderà loro la ricompensa, riverserà su di loro il contraccambio» (Sir 17,19-23). L'elemosina fatta al prossimo Dio la considera fatta a Lui, se non è profanata con la vanagloria cercata al suono della tromba. Gesù non si rassegna ad una vita cristiana ridotta a buone intenzioni, a desideri e sentimenti sublimi. La fede si mostra in opere concrete, nell'elemosina e nell'aiuto al prossimo. Ma tutte le opere che l'uomo realizza, senza la retta intenzione, davanti a Dio non valgono niente. E il nostro Dio non guarda le apparenze, ma vede nel segreto del cuore. Niente gli resta nascosto, come canta il salmista:
Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie, la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: Almeno l'oscurità mi copra e intorno a me sia la notte; nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce (Sal 139).
a) La giustizia superiore
Gesù ha proposto «la giustizia superiore» del regno dei cieli. Di fronte al formalismo e al moralismo degli scribi presenta la volontà di Dio Padre, che non si compiace di gettare pesanti fardelli sulle spalle dei suoi figli. La gratuità della salvezza di Dio suscita non un rigorismo o una moltiplicazione infinita di leggi, ma una risposta d'amore all'amore ricevuto. Ora, nel capitolo sesto, inizia una sezione nuova. Di fronte alla giustizia dei farisei, fondata sul compimento esteriore della legge, Gesù presenta la «giustizia più grande» del regno vissuta nella relazione interiore del credente con Dio. Si tratta di come vivere «la giustizia superiore» senza ostentazione, senza cercare l'applauso degli uomini, ma unicamente l'approvazione di Dio: «Guardatevi dal praticare le vostre opere buone davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 6,1). Praticare la giustizia, espressione della volontà di Dio, per essere visti dagli uomini è la condotta che caratterizza gli scribi e i farisei: «Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini; allargano i loro filatteri e allungano le frange; amano i posti d'onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbi dalla gente» (Mt 23,1-7). Scontrandosi direttamente con i farisei, Gesù dice loro: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16,15). Questa vanagloria si mostra apertamente nel fariseo che si reca al tempio a pregare insieme col pubblicano (Lc 18,9-14). Cercare la propria gloria davanti agli uomini chiude l'orecchio all'ascolto della parola, e in tal modo si chiude ugualmente il cuore alla fede. Gesù, discutendo con i farisei, li rimprovera: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5,44). E, in un'altra occasione, Gesù afferma che la ricerca della propria gloria chiude anche la bocca, impedendo la confessione della fede: «Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga; amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio» (Gv 12,42-43). San Giovanni Crisostomo dice che «la vanagloria è la più dispotica delle passioni, che si insinua in quanti si incamminano sulla strada della virtù e minaccia di corrompere il frutto delle buone opere [...] Cristo ne parla come di una fiera difficile da catturare e capace di sorprendere chi non è molto sveglio. Perciò dice: State attenti, e così dice anche san Paolo ai Filippesi: guardatevi dai cani (Fil 3,2). La vanagloria, come la fiera, si presenta all'improvviso, quasi trattenendo il respiro, per sorprendere chi non è vigilante». Gesù illustra la sua dottrina sulla «giustizia superiore» mediante tre esempi: l'elemosina, la preghiera e il digiuno, strumenti attraverso i quali il credente vive la sua relazione con il prossimo, con Dio e con le cose. Si tratta di tre classiche pratiche della pietà giudaica. Gesù non le rifiuta, ma desidera che si realizzino con uno spirito nuovo. Gesù, proponendo la «giustizia più grande», non desidera che i suoi discepoli superino i farisei in digiuni, preghiere o elemosine. La superiorità non risiede nella quantità, ma nello spirito nuovo con il quale Gesù desidera che si pratichino. Matteo tratteggia i tre esempi a tinte forti in modo che producano una grande impressione nei suoi ascoltatori. Da una parte presenta il modo negativo di fare l'elemosina, pregare o digiunare dei farisei. E il modo ipocrita, ripugnante, di agire con l'unica intenzione di essere visti dagli uomini. E conti-nuando, propone la maniera positiva, autentica, di agire nel segreto, in modo che Dio sia il solo a vedere. Nei tre esempi c'è un forte contrasto, come un'antitesi simile a quelle del capitolo precedente. Presentato il modo negativo, odioso, di agire, si introduce il modo corretto con il «tu invece» seguito da un imperativo fermo, sicuro. I tre esempi si concludono con la stessa affermazione: «E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». Il contrasto tra la falsa e la vera ricompensa, quella degli uomini e quella di Dio, è evidente.
b) Elemosina, preghiera e digiuno
La catechesi sull'elemosina, la preghiera e il digiuno ha una grande risonanza biblica. Si può partire dal Deuteronomio, con il famoso testo dello Shemà, nel quale il digiuno fa riferimento all'anima o mente, la preghiera al cuore e l'elemosina alla proprietà o forze (cfr. Dt 6,4s). si può cercare l'ispirazione nel libro di Tobia, dove si legge: «Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l'elemosina con la giustizia. Meglio il poco con giustizia che la ricchezza con ingiustizia» (Th 12,8). La preghiera e il digiuno appaiono uniti e raccomandati in molteplici testi (Sal 35,13; Gdt 4,9; 2Sam 12,16; Ne 1,4) e l'elemosina occupa un posto singolare soprattutto nel libro di Tobia, sebbene sia raccomandata anche nei libri dell'Ecclesiastico e dell'Ecclesiaste. Per Tobia «l'elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato. Coloro che fanno l'elemosina godranno lunga vita» (Th 12,9). Qualcosa di simile insegna Gesù Ben Sira ai suoi alunni: «L'acqua spegne un fuoco acceso, l'elemosina espia i peccati» (Sir 3,30). La Chiesa, nel suo Ufficio delle Letture del terzo martedì di Quaresima, ci presenta una preziosa catechesi di san Pietro Crisologo: «Tre sono le cose, tre, o fratelli, per cui sta salda la fede, perdura la devozione, resta la virtù: la preghiera, il digiuno, la misericordia. Ciò per cui la preghiera bussa, lo ottiene il digiuno, lo riceve la misericordia. Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola, e ricevono vita l'una dall'altra. Il digiuno è l'anima della preghiera e la misericordia la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega, digiuni. Chi digiuna abbia misericordia. Chi nel domandare desidera di essere esaudito, esaudisca chi gli rivolge domanda. Chi vuol trovare aperto verso di sé il cuore di Dio non chiuda il suo a chi lo supplica. Chi digiuna comprenda bene cosa significhi per gli altri non aver da mangiare. Ascolti chi ha fame, se vuole che Dio gradisca il suo digiuno. Abbia pietà, la eserciti. Chi vuole che gli sia concesso un dono, apra la sua mano agli altri. E un cattivo richiedente colui che nega agli altri quello che domanda per sé. O uomo, sii tu stesso per te la regola della misericordia. Il modo con cui vuoi che si usi misericordia a te, usalo tu con gli altri. La larghezza di misericordia che vuoi per te, abbila per gli altri. Offri agli altri quella stessa pronta misericordia che desideri per te. Perciò preghiera, digiuno, misericordia siano per noi un'unica forza mediatrice presso Dio, siano per noi uri unica difesa, uri unica preghiera sotto tre aspetti.
Quanto col disprezzo abbiamo perduto, conquistiamolo con il digiuno. Immoliamo le nostre anime col digiuno perché non c'è nulla di più gradito che possiamo offrire a Dio, come dimostra il profeta quando dice: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi» (Sal 50,19). O uomo, offri a Dio la tua anima ed offri l'oblazione del digiuno, perché sia pura l'ostia, santo il sacrificio, vivente la vittima, che a te rimanga e a Dio sia data. Chi non dà questo a Dio non sarà scusato, perché non può non avere se stesso da offrire. Ma perché tutto ciò sia accetto, sia accompagnato dalla misericordia. Il digiuno non germoglia se non è innaffiato dalla misericordia. Il digiuno inaridisce, se inaridisce la misericordia. Ciò che è la pioggia per la terra, è la misericordia per il digiuno. Quantunque ingentilisca il cuore, purifichi la carne, sradichi i vizi, semini le virtù, il digiunatore non coglie frutti se non farà scorrere fiumi di misericordia. O tu che digiuni, sappi che il tuo campo resterà digiuno se resterà digiuna la misericordia. Quello invece che avrai donato nella misericordia, ritornerà abbondantemente nel tuo granaio. Pertanto, o uomo, perché tu non abbia a perdere col voler tenere per te, elargisci agli altri e allora raccoglierai. Dà a te stesso, dando al povero, perché ciò che avrai lasciato in eredità ad un altro, tu non lo avrai».
c) L'elemosina apre l'orecchio di Dio
L'elemosina apre l'orecchio di Dio alla preghiera dei suoi fedeli. Chi chiude il suo cuore alla supplica del povero si espone al rischio che Dio non oda la sua preghiera: «Non respingere la supplica di un povero, non distogliere lo sguardo dall'indigente. Da chi ti chiede non distogliere lo sguardo, non offrire a nessuno l'occasione di maledirti, perché se uno ti maledice con amarezza, il suo creatore esaudirà la sua preghiera» (Sir 4,4-6). La misericordia rispetto ai poveri, espressa nell'elemosina, riempie le pagine della Scrittura. Il Dio della misericordia desidera che gli uomini si mostrino misericordiosi tra loro. Nel Deuteronomio si legge una lunga raccomandazione di Dio al suo popolo: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città del paese che il Signore tuo Dio ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: E vicino il settimo anno, l'anno della remissione; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla; egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te. Dagli generosamente e, quando gli darai, il tuo cuore non si rattristi; perché proprio per questo il Signore Dio tuo ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese» (Dt 15,7-11). Nell'originale greco la parola elemosina significa sentire pietà o misericordia. E la traduzione della hesed di Dio, che si commuove alla vista del bisognoso. Ma, nel linguaggio comune di Israele, la parola passò a significare l'aiuto economico dato a un indigente, che con la sua povertà ha suscitato il sentimento di pietà in chi pratica l'elemosina. Benefica se stesso l'uomo misericordioso» (Pr 11,17), dice un proverbio, poiché «chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore che gli ripagherà la buona azione» (Pr 19,17). Questo proverbio illumina la parola di Cristo che invita a «prestare a coloro da cui non ci si attende una restituzione». Sarà Dio a restituire il prestito abbondantemente. Anche Tobi raccomanda a suo figlio Tobia di essere generoso nel fare l'elemosina, poiché l'elemosina ottiene il favore divino, il perdono dei peccati, preserva dalla morte e dà sicurezza alla vita: «Dei tuoi beni fa elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio. La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, dà molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l'elemosina libera dalla morte e salva dall'andare tra le tenebre. Per tutti quelli che la compiono, l'elemosina è un dono prezioso davanti all'Altissimo» (Th 4,7-11). Per l'Ecclesiastico «chi pratica l'elemosina fa sacrifici di lode» (Sir 35,2). Come sacrificio gradito a Dio, l'elemosina ha un valore salvifico: «L'elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato. Coloro che fanno l'elemosina godranno lunga vita» (Th 12,9). Per Gesù, nel vangelo, l'elemosina è il modo migliore di accumulare un tesoro in cielo: «Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,2-4). La comunità cristiana ha vissuto l'amore di Cristo per i poveri (Lc 4,18-21), condividendo con essi i beni: «Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (A t 2,44-45). «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e uri anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune» (At 4,32; cfr. 4,37). Elemosina ha il significato immediato di dare denaro al bisognoso. Ma significa anche aiutare, in senso più ampio, il prossimo. Cristo, citando il profeta Osea (Os 6,6), ci dice che Dio preferisce la misericordia ai sacrifici: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio» (Mt 9,13). «Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa» (Mt 12,7). La misericordia si manifesta in concreto in tante opere di misericordia che Matteo enumera presentandoci il giudizio delle nazioni (Mt 25,31ss).
Una forma concreta di misericordia è l'elemosina al bisognoso. Per Gesù è un atto di culto, che non deve essere profanato con intenzioni egoistiche, realizzandolo con ostentazione, cercando il proprio prestigio davanti agli uomini. Chi cerca la lode degli uomini non rende culto a Dio e perde la sua ricompensa. Nelle assemblee comunitarie della sinagoga si raccoglievano i donativi per il sostegno del culto e per l'aiuto dei poveri della comunità. Quando qualcuno contribuiva con una quantità considerevole, lo si invitava a sedersi a un posto d'onore accanto ai rabbini. In questo modo ci si procurava, con l'elemosina, una lode umana. Gesù ridicolizza questo modo di esercitare l'elemosina con l'immagine della tromba. Suonare la tromba davanti a sé perché tutti vedano la quantità data, nella sinagoga o sulla pubblica piazza, vuol dire rendersi ridicoli come il pavone. Il primo a ridicolizzare coloro che cercano con le loro elemosine l'applauso della gente è il profeta Amos, che con ironia dice ai figli di Israele: «Proclamate ad alta voce le offerte spontanee perché così vi piace di fare, o israeliti» (Am 4,5). La stima agli occhi degli altri è tutto per gli ipocriti, i quali fingono una fede che non hanno: «Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» (Gv 5,44). L'ipocrisia è, dunque, qualcosa di peggiore della semplice simulazione, ha tratti di empietà. E l'opposto della giustizia di cui parla Gesù nel dis-orso della montagna. Matteo ha dedicato tutto il capitolo ventitrè del suo vangelo a descriverci l'agire degli ipocriti. Contrariamente ad essi, il discepolo di Cristo agisce solo al cospetto di Dio, che vede nel segreto del cuore. Tutte le nostre azioni stanno davanti a Dio: «Tutte le loro opere sono davanti a Lui come il sole, i suoi occhi osservano sempre la loro condotta. A Lui non sono nascoste le loro ingiustizie, tutti i loro peccati sono davanti al Signore. La beneficenza dell'uomo è per lui come un sigillo, egli serberà la generosità come la propria pupilla. Alla fine si leverà e renderà loro la ricompensa, riverserà su di loro il contraccambio» (Sir 17,19-23). L'elemosina fatta al prossimo Dio la considera fatta a Lui, se non è profanata con la vanagloria cercata al suono della tromba. Gesù non si rassegna ad una vita cristiana ridotta a buone intenzioni, a desideri e sentimenti sublimi. La fede si mostra in opere concrete, nell'elemosina e nell'aiuto al prossimo. Ma tutte le opere che l'uomo realizza, senza la retta intenzione, davanti a Dio non valgono niente. E il nostro Dio non guarda le apparenze, ma vede nel segreto del cuore. Niente gli resta nascosto, come canta il salmista:
Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie, la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell'aurora per abitare all'estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: Almeno l'oscurità mi copra e intorno a me sia la notte; nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce (Sal 139).
PREGHIERA (Mt 6,5-15)
a) Pregare nella cella interiore
La catechesi sulla preghiera segue la stessa linea di quella precedente sull'elemosina. Al modo sbagliato di pregare degli ipocriti e dei pagani, Gesù oppone una forma di preghiera che giunge alle orecchie di Dio: «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando, poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,5-8). La caricatura dell'orante ipocrita è simile a quella di colui che in mezzo alla strada ostenta l'elemosina che fa al povero. Se uno strombazza la sua azione, l'altro si mette in mezzo alla piazza per pregare in modo che tutti lo vedano e lodino la sua pietà. L'esempio opposto consiste nel pregare in una stanza con le porte chiuse. Così pregò il profeta Eliseo nella casa della vedova che lo accoglieva: «Eliseo entrò in casa. Il ragazzo era morto, steso sul letto. Egli entrò, chiuse la porta dietro a loro due e pregò il Signore» (2Re 4,32-33). Così pregava Daniele, contravvenendo l'ordine del re Dario, che aveva decretato di non elevare preghiere a nessuno all'infuori di lui: «Daniele, quando venne a sapere del decreto del re, si ritirò in casa. Le finestre della sua stanza si aprivano verso Gerusalemme e tre volte al giorno si metteva in ginocchio a pregare e lodava il suo Dio, come era solito fare anche prima. Allora quegli uomini accorsero e trovarono Daniele che stava pregando e supplicando il suo Dio» (Dn 6,10-12). La preghiera sale a Dio dall'intimo dell'essere. Dio ascolta la preghiera del cuore, espressione della fede in Lui. Se manca la fede, le labbra si riempiono di parole inutili, i gesti sono pomposi, ma senza che Dio si commuova. «Anna», dice Giovanni Crisostomo, «senza che si udisse la sua voce, ottenne quello che desiderava perché gridava il suo cuore». La preghiera silenziosa di Anna, madre di Samuele, è un esempio classico della preghiera che arriva alle orecchie di Dio: «Anna pregava in cuor suo e si muovevano soltanto le labbra, ma la voce non si udiva» (1Sam 1,13). È nella cella interiore del cuore che possiamo incontrare Dio. Cristo ci invita a entrare e a chiudere la porta a chiave. Poi, quando siamo in profondo raccoglimento, arriva Lui e bussa alla porta, perché lo abbracciamo e possiamo cenare con Lui e Lui con noi (Ap 3,20). Il chiavistello della porta è all'interno, dalla nostra parte. Cristo resta fuori se non gli apriamo. Tuttavia, per non sbagliarsi riguardo alla raccomandazione del Signore, Ilario di Poitiers ci dice: «Ci è stato comandato di pregare nella nostra stanza, dopo aver chiuso la porta, ma ci è stato comandato anche di elevare la nostra preghiera in ogni luogo. I santi hanno pregato tra le bestie, nelle carceri, tra le fiamme, nelle profondità del mare e persino nel ventre del mostro marino. Questo significa che siamo invitati a entrare non nelle parti nascoste di una casa, ma dentro il nostro cuore e a pregare Dio nel segreto impenetrabile del nostro spirito, non con molte parole, bensì con la sincerità della nostra vita».
Quello che conta non è il luogo in cui si prega o il modo esterno di pregare, ma la relazione intima con Dio Padre. Altre pretese deformano e corrompono la preghiera. La preghiera nascosta, nel segreto, non esclude né si oppone alla preghiera comunitaria, che l'assemblea unita eleva a Dio: «In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,19-20). Sant'Ambrogio, nel trattato Caino e Abele, scrive: «Il Signore Gesù ha raccomandato di pregare intensamente e frequentemente non perché la nostra preghiera si prolunghi fino al tedio, ma anzi quello che desidera è che si preghi durante momenti brevi e regolari. Di fatto, la preghiera prolungata diventa frequentemente meccanica e, al contrario, l'eccessiva distanza tra una preghiera e l'altra porta alla negligenza [...] L'Apostolo ci insegna che bisogna pregare in ogni luogo (1 Tm 2,8), mentre il Salvatore dice: Entra nella tua camera (Mt 6,6). Si tratta di una stanza non delimitata da pareti tra le quali la persona si rinchiude, ma della cella che c'è dentro di te dove sono rinchiusi i tuoi pensieri e dove risiedono i tuoi sentimenti. Questa camera di preghiera ti accompagna ovunque, è occulta dovunque vai e in essa il solo giudice è Dio». La preghiera è il respiro della vita. Perciò è necessario pregare sempre (1Ts 5,17; Lc 18,1ss), in ogni tempo (Ef 6,18) e in ogni luogo (1Tm 2,8). Fatta con insistenza (Mt 7,7-11), con fede (Mt 21,22), nel nome di Gesù (Mt 18,19s; Gv 14,13) ci introduce nell'intimità del Padre. Perciò Gesù ci dà il suo Spirito, che prega in e con noi (Rm 8,26; Gal 4,6), poiché noi non sappiamo nemmeno cosa chiedere (Rm 8,2). Così la preghiera nella quale invochiamo Dio come Padre ci fa sentire figli, trasformandoci interiormente, divinizzandoci. Non le parole inutili raggiungono il cuore di Dio, ma i gemiti ineffabili dello Spirito che viene in aiuto del nostro Spirito. La preghiera dei sacerdoti di Baal è un chiaro esempio di chiacchiera vuota e insensata (IRe 18,28ss). Non si tratta nemmeno di alzare il tono della voce, ma la fede del cuore. «La preghiera dell'umile penetra le nubi, e non indugia finché non sia arrivata al suo scopo» (Sir 35,17), l'orecchio di Dio. Contro il cumulo di parole per istruire Dio invece di lasciali illuminare da Lui, l'Ecclesiaste ci ammonisce: «Non essere precipitoso con la bocca e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; perciò le tue parole siano parche» (Qo 5,1). Come espressione di sapienza, Gesù Ben Sira dice ugualmente: «Non parlar troppo nell'assemblea degli anziani e non ripetere le parole nella tua preghiera» (Sir 7,14).
DIGIUNO (Mt 6,16-18)
a) Quando digiunate, non assumete aria malinconica Gesù completa la sua catechesi sull'elemosina e la preghiera con l'istruzione sul digiuno. Anche in questo caso, come nei precedenti, Gesù mette in rilievo il digiuno falso e quello vero, quello praticato per ottenere l'applauso degli uomini e quello fatto per amore di Dio, nel segreto, dove solo Lui lo vede: «E quando digiunate, non assumete aria malinconica, come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,16-18). Gesù, buon catechista, ci dipinge la caricatura degli ipocriti che digiunano perché gli uomini elogino una pietà che non hanno né sentono. Nell'originale c'è un gioco di parole per descrivere il loro atteggiamento: «sfigurano la faccia per figurare davanti agli uomini». Il loro agire ipocrita può ingannare gli uomini, ma non Dio che non bada alle apparenze del volto, ma all'interiorità del cuore, come dice lo stesso Dio a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né all'imponenza della sua statura. Io l'ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l'uomo. L'uomo guarda l'apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7).
Il digiuno, trasformato in rituale formalistico, si prestava a una semplice esibizione esteriore, senza compunzione interiore, né conversione a Dio. Già Isaia alzò la sua voce contro certe forme di digiuno: «Mi ricercano ogni giorno, bramano di conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono,rgiudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio: »Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?». Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso. E forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l'uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l'aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà» (Is 58,2-8).
L'autore della Lettera attribuita a Barnaba, invitando i cristiani a fuggire da ogni vanità, così commenta questo testo: «Dio ci mostra chiaramente la sua volontà mostrandoci il digiuno a Lui gradito. Poiché non gradisce che eleviamo il nostro schiamazzo, ma si compiace nel vederci sciogliere le catene, i lacci dei contratti ottenuti con la violenza; gli è gradito che restituiamo la libertà agli oppressi, perdonando loro tutti i loro debiti, annullando ogni obbligo ingiusto. Gli è gradito contemplare che condividiamo il pane con gli affamati, vestiamo quanti sono privi di vesti e accogliamo nella nostra casa quanti mancano di un tetto sotto il quale ripararsi».
Anche San Leone Magno, nei suoi Discorsi, dice che «la giustizia cristiana può superare quella degli scribi e dei farisei non svuotando la legge, ma rifiutando ogni interpretazione materiale della legge». E lo spiega commentando il testo di Matteo sul digiuno. Gli ipocriti che, digiunando, si sfigurano il viso perché gli uomini vedano che digiunano, hanno già ricevuto la loro ricompensa: «Quale ricompensa», si chiede San Leone Magno. «Quella della lode degli uomini. Per l'ambizione di questa lode, spesso si ostenta un'apparenza di santità, senza preoccuparsi della propria coscienza, ma cercando unicamente una falsa fama. In questo modo, l'iniquità si accontenta di una stima ipocrita. Tuttavia, a chi ama Dio è sufficiente sapere che gradisce colui che ama; non desidera altra ricompensa all'infuori dell'amore stesso. L'anima pura e santa si sente tanto felice di essere piena di Lui che non desidera compiacersi in niente all'infuori di Lui». La legge di Israele prescriveva il digiuno solo nel giorno dell'Espiazione, lo Yom Kippur: «Il Signore disse ancora a Mosè: "Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell'espiazione; terrete una santa convocazione, vi mortificherete e offrirete sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. In quel giorno non farete alcun lavoro; poiché è il giorno dell'espiazione, per espiare per voi davanti al Signore, vostro Dio. Ogni persona che non si mortificherà in quel giorno, sarà eliminata dal suo popolo. Ogni persona che farà in quel giorno un qualunque lavoro, io la eliminerò dal suo popolo. Non farete alcun lavoro. E una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete. Sarà per voi un sabato di assoluto riposo e dovrete mortificarvi: il nono giorno del mese, dalla sera alla sera dopo, celebrerete il vostro sabato"» (Lv 23,26-32; 16,29ss). A questo giorno del grande digiuno si aggiungevano altri giorni di digiuno in ricordo di calamità nazionali o in periodo di carestia, come quando ritardava la pioggia d'autunno. A causa di una calamità, precisamente «nel quinto anno di Ioiakim, figlio di Giosia, re di Giuda, nel nono mese, fu indetto un digiuno davanti al Signore per tutto il popolo di Gerusalemme e per tutto il popolo che era venuto dalle città di Giuda a Gerusalemme» (Ger 36,9). Il digiuno, unito alla preghiera, era sempre orientato al perdono dei peccati, per ottenere la clemenza di Dio. A questi digiuni pubblici e rituali si unirono i digiuni particolari, praticati soprattutto dai farisei, i quali solevano digiunare il secondo e quinto giorno della settimana, lunedì e giovedì (Lc 18,12). In questi giorni, oltre a privarsi di cibi, si vestivano di sacco (Sal 35,13), si cosparge-vano cenere sul capo, non si lavavano né ungevano il corpo, camminavano scalzi. Un esempio di questo comportamento lo abbiamo nel digiuno di Davide, mentre il figlio che Bersabea gli diede era malato. Davide interruppe il digiuno non appena seppe che era morto: «Allora Davide si alzò da terra, si lavò, si unse e cambiò le vesti; poi andò nella casa del Signore e vi si prostrò. Rientrato a casa, chiese che gli portassero il cibo e ne mangiò» (2Sam 12,20). I salmi invitano frequentemente al digiuno personale in occasione di difficoltà particolari (cfr. Sal 35,69,109). Per i cristiani il fondamento biblico del digiuno risiede nello stesso Gesù Cristo, che preparò il suo ministero pubblico ritirandosi nel deserto per pregare e digiunare per quaranta giorni (Mt 4,1ss; Lc 4,1ss). Partendo, dunque, dalla vita di Cristo possiamo capire che la sua critica al digiuno dei farisei si fonda sulla mancanza di sincerità con cui digiunano e non sul digiuno in sé. Il digiuno autentico va sempre unito alla conversione, alla sincerità della vita di fede. Questo è quello che propone già il profeta Gioele: «Or dunque - parola del Signore - ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché Egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura» (GI 2,12-13).
b) Il digiuno davanti allo sguardo di Dio
Gesù ha iniziato la sua vita pubblica con un digiuno di quaranta giorni nel deserto (Mt 4,1ss). Dopo non digiuneranno più né lui né i suoi discepoli. Era il tempo della gioia, il tempo in cui i peccatori si sentivano accolti e perdonati. Per loro si organizzava una festa, alla quale partecipavano gli angeli e i santi (Lc 15). Fino a quando lo sposo sta con gli invitati, non c'è spazio per il digiuno. Alla festa di nozze, gli amici dello sposo si rallegrano: «Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù disse loro: Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno» (Mt 9,14-15). Tuttavia Gesù non condanna il digiuno. Desidera solo che sia orientato a Dio e, come la preghiera fatta in casa con la porta chiusa, così il digiuno venga praticato solo davanti allo sguardo di Dio. Il digiuno, quale atto di culto, è un umiliarsi davanti a Dio, riconoscendo la nostra fragilità e dipendenza da Lui o chiedendogli dalla nostra prostrazione il perdono dei peccati. È un modo di aprirsi alla sua bontà, al dono della sua grazia. Il digiuno, culto a Dio, è sempre unito alla preghiera. «Buona cosa è la preghiera con il digiuno» (Tb 12,8), dice Tobi a suo figlio. La chiamata a conversione si rivolge sempre e principalmente ai nostri cuori: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (GI 2,12-18), proclama ogni anno la Chiesa all'inizio della Quaresima. In questo la Chiesa è fedele a quanto hanno proclamato i profeti: «Come già nei profeti, l'appello di Gesù alla conversione e alla penitenza non riguarda anzitutto opere esteriori, il 'sacco e la cenere', i digiuni e le mortificazioni, ma la conversione del cuore, la penitenza interiore. Senza di essa, le opere di penitenza rimangono sterili e menzognere, la conversione interiore spinge invece all'espressione di questo atteggiamento in segni visibili, gesti e opere di penitenza» (CCC 1430). I profeti hanno criticato il digiuno esteriore slegato dall'autentica conversione a Dio. E classico l'oracolo del profeta Gioele: «Or dunque - parola del Signore - ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura. Chi sa che non cambi e si plachi e lasci dietro a sé una benedizione? Offerta e libazione per il Signore vostro Dio. Suonate la tromba in Sion, proclamate un digiuno, convocate un'adunanza solenne. Radunate il popolo, indite un'assemblea, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo. Tra il vestibolo e l'altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al vituperio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: Dov'è il tuo Dio?» (Gl 2,12-17). Il Signore non si commuove davanti al digiuno ipocrita come annuncia Geremia: «Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica» (Ger 14,12). Ma davanti a un digiuno sincero, il Signore si muove a compassione e cambia il lutto in festa: «Così dice il Signore degli eserciti: Il digiuno del quarto, quinto, settimo e decimo mese si cambierà per la casa di Giuda in gioia, in giubilo e in giorni di festa, purché amiate la verità e la pace» (Zc 8,19). Il digiuno aiuta l'uomo a scoprire la presenza di Dio nella sua vita. Luca ci dice che Anna «non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere» (Lc 2,37). Il Catechismo della Chiesa raccomanda il digiuno, con la preghiera e l'elemosina, come forme di penitenza per unirci a Dio, vivere l'amore per il prossimo e per se stesso:«La penitenza interiore del cristiano può avere espressioni molto varie. La Scrittura e i Padri insistono soprattutto su tre forme: il digiuno, la preghiera e l'elemosina (cfr. Tb 12,8; Mt 6,1-18), che esprimono la conversione in rapporto a Dio e in rapporto agli altri» (CCC 1434). La Scrittura ci presenta numerosi esempi di digiuno in situazioni diverse. Il salmista, implorando l'ausilio di Dio, parla del digiuno prolungato fino a sentire che le ginocchia gli si indeboliscono (Sal 109,24). La città di Ninive, davanti alla predicazione di Giona, proclama un digiuno generale, ottenendo con esso che Dio non esegua il castigo con cui la minacciava (Gv 3,4-7). Lo aveva fatto prima lo stesso Mosè davanti alla minaccia di distruzione del popolo di Israele: «Io ero rimasto sul monte, come la prima volta, quaranta giorni e quaranta notti, in digiuno. Il Signore mi esaudì anche questa volta: il Signore non ha voluto distruggerti» (Dt 10,10). Il re Achab digiunò ascoltando la profezia di distruzione pronunciata contro di lui da Elia (1Re 21,27). Giosafat digiunò quando le nazioni gli fecero guerra (2Cr 20,3-4). Davide digiuna e fa penitenza in diverse occasioni (Sal 3,13), come quando venne a sapere della morte di Saul e Gionata (2Sam 1,12) o della morte di Abner (2Sam 3,35). Davanti alla minaccia di Nabucodonosor, Giuditta e gli Israeliti pregano e digiunano e il Signore ascolta le loro voci e vede la loro angoscia, salvandoli (Gdt 4,9-15). Quando Aman minaccia di distruggere tutto il popolo di Dio, Ester dice a Mardocheo: «Va, raduna tutti i Giudei che si trovano a Susa: digiunate per me, state senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch'io con le ancelle digiunerò nello stesso modo; dopo entrerò dal re, sebbene ciò sia contro la legge e, se dovrò morire, perirò!» (Est 4,16).
Anche nel Nuovo Testamento troviamo testimonianze di digiuni in momenti importanti della vita della comunità: «Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiu nando, lo Spirito Santo disse: Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono» (At 13,2-3). Paolo e Barnaba, prima di accomiatarsi dalle comunità da essi fondate, «costituirono per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto» (At 14,23).
c) Non di solo pane vivrà l'uomo
Nella nostra società dei consumi, che riduce l'uomo all'istinto, elevando il piacere a principio assoluto della morale, il digiuno acquista uri importanza particolare. Il digiuno insegna all'uomo che la sua vita non risiede unicamente nel mangiare e nel bere o nel soddisfare tutte le passioni: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4), risponde Gesù al tentatore dopo quaranta giorni di digiuno. In realtà, oggi è necessario porre un freno ai cinque sensi. Oltre alla sobrietà nel mangiare e nel bere, il digiuno è conveniente quanto all'olfatto, al gusto, al tatto, all'udito e alla vista. Chi non rinnega se stesso cade nel precipizio. Gli istinti senza freno prendono la mano e distruggono la persona umana, riducendola a una vita animale. L'edonismo riduce l'uomo a un consumo di sensazioni transitorie, portandolo alla nausea della vita. Perciò san Giovanni Crisostomo esorta i suoi ascoltatori a non limitare il digiuno alla privazione del cibo: «Il valore del digiuno consiste non solo nell'evitare certi cibi, ma nel rinunciare a tutti gli atteggiamenti, pensieri e desideri peccaminosi. Chi limita il digiuno semplicemente al cibo, minimizza il grande valore che il digiuno possiede. Se digiuni, lo provino le tue opere! Se vedi un fratello bisognoso, abbi compassione di lui. Se vedi un fratello che viene trattato con deferenza, non esserne invidioso.
Affinché il digiuno sia vero, non può esserlo solo con la bocca, ma si deve digiunare con gli occhi, le orecchie, i piedi, le mani, e con tutto il corpo, interiormente ed esteriormente. Digiuni con le tue mani mantenendole pure nel servizio disinteressato agli altri. Digiuni con i tuoi piedi non essendo tanto lento nell'amore e nel servizio. Digiuni con i tuoi occhi non vedendo cose impure, o non puntando l'attenzione sugli altri per criticarli. Astieniti da tutto ciò che mette in pericolo la tua anima e la tua santità. Sarebbe inutile non dare cibo al mio corpo, ma alimentare il mio cuore con immondizia, impurità, egoismo, contese, agi. Ti astieni dal cibo, ma ti permetti di ascoltare cose vane e mondane. Devi digiunare anche con le tue orecchie. Devi evitare di ascoltare cose che si dicono sul conto dei tuoi fratelli, menzogne che si dicono sugli altri, specialmente pettegolezzi, dicerie o parole fredde e dannose contro gli altri. Oltre a digiunare con la tua bocca, devi astenerti dal dire qualcosa che faccia male all'altro. Poiché a che ti serve non mangiare carne, se divori tuo fratello?». La pubblicità, con la sua immensa capacità di suggestione, schiavizza le persone incaute con la lusinga dell'apparente piacere, presentando come buono, bello e appetibile ciò che in realtà non lo è (Gen 3,6). Il digiuno libera dalla schiavitù del piacere apparente, che promette di saziare l'appetito dell'uomo con cose effimere o false, che non soddisfano mai l'autentico desiderio di felicità posto da Dio nell'intimo del cuore umano. Il digiuno aiuta il cristiano nell'autocontrollo e nella moderazione dei suoi appetiti. Già san Marco raccomanda il digiuno nella lotta contro alcuni demòni: «Questa specie di demòni può essere scacciata solo con la preghiera e il digiuno» (Mc 9,29).
Meditiamo il Vangelo di oggi con il Papa. Brani tratti da "Gesù di Nazareth"
LA Preghiera del Signore. Attitudine della preghiera
CATECHISMO CHIESA CATTOLICA: Il pudore e la modestia, segni del "segreto" che vede solo il Padre
(400) Sant'Agostino, Confessiones, 6, 11, 20: CCL 27, 87 (PL 32, 729-730).
Giovanni Paolo II Dall' UDIENZA GENERALE Mercoledì, 28 maggio 1980
5. Il cuore umano serba in sé contemporanearnente il desiderio e il pudore. La nascita del pudore ci orienta verso quel momento, in cui l’uomo interiore, "il cuore", chiudendosi a ciò che "viene dal Padre", si apre a ciò che "viene dal mondo". La nascita del pudore nel cuore umano va di pari passo con l’inizio della concupiscenza: della triplice concupiscenza secondo la teologia giovannea (cf. 1Gv 2,16), e in particolare della concupiscenza del corpo. L’uomo ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Anzi, ha pudore non tanto del corpo, quanto proprio della concupiscenza: ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Ha pudore del corpo a motivo di quello stato del suo spirito, a cui la teologia e la psicologia danno la stessa denominazione sinonimica: desiderio ovvero concupiscenza, sebbene con significato non del tutto uguale. Il significato biblico e teologico del desiderio e della concupiscenza differisce da quello usato nella psicologia. Per quest’ultima, il desiderio proviene dalla mancanza o dalla necessità, che il valore desiderato deve appagare. La concupiscenza biblica, come deduciamo da 1Gv 2,16, indica lo stato dello spirito umano allontanato dalla semplicità originaria e dalla pienezza dei valori, che l’uomo e il mondo posseggono "nelle dimensioni di Dio". Appunto tale semplicità e pienezza del valore del corpo umano nella prima esperienza della sua mascolinità-femminilità, di cui parla Genesi 2,23-25, ha subito successivamente, "nelle dimensioni del mondo", una trasformazione radicale. E allora, insieme con la concupiscenza del corpo, nacque il pudore.
L'autore della Lettera attribuita a Barnaba, invitando i cristiani a fuggire da ogni vanità, così commenta questo testo: «Dio ci mostra chiaramente la sua volontà mostrandoci il digiuno a Lui gradito. Poiché non gradisce che eleviamo il nostro schiamazzo, ma si compiace nel vederci sciogliere le catene, i lacci dei contratti ottenuti con la violenza; gli è gradito che restituiamo la libertà agli oppressi, perdonando loro tutti i loro debiti, annullando ogni obbligo ingiusto. Gli è gradito contemplare che condividiamo il pane con gli affamati, vestiamo quanti sono privi di vesti e accogliamo nella nostra casa quanti mancano di un tetto sotto il quale ripararsi».
Anche San Leone Magno, nei suoi Discorsi, dice che «la giustizia cristiana può superare quella degli scribi e dei farisei non svuotando la legge, ma rifiutando ogni interpretazione materiale della legge». E lo spiega commentando il testo di Matteo sul digiuno. Gli ipocriti che, digiunando, si sfigurano il viso perché gli uomini vedano che digiunano, hanno già ricevuto la loro ricompensa: «Quale ricompensa», si chiede San Leone Magno. «Quella della lode degli uomini. Per l'ambizione di questa lode, spesso si ostenta un'apparenza di santità, senza preoccuparsi della propria coscienza, ma cercando unicamente una falsa fama. In questo modo, l'iniquità si accontenta di una stima ipocrita. Tuttavia, a chi ama Dio è sufficiente sapere che gradisce colui che ama; non desidera altra ricompensa all'infuori dell'amore stesso. L'anima pura e santa si sente tanto felice di essere piena di Lui che non desidera compiacersi in niente all'infuori di Lui». La legge di Israele prescriveva il digiuno solo nel giorno dell'Espiazione, lo Yom Kippur: «Il Signore disse ancora a Mosè: "Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell'espiazione; terrete una santa convocazione, vi mortificherete e offrirete sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. In quel giorno non farete alcun lavoro; poiché è il giorno dell'espiazione, per espiare per voi davanti al Signore, vostro Dio. Ogni persona che non si mortificherà in quel giorno, sarà eliminata dal suo popolo. Ogni persona che farà in quel giorno un qualunque lavoro, io la eliminerò dal suo popolo. Non farete alcun lavoro. E una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete. Sarà per voi un sabato di assoluto riposo e dovrete mortificarvi: il nono giorno del mese, dalla sera alla sera dopo, celebrerete il vostro sabato"» (Lv 23,26-32; 16,29ss). A questo giorno del grande digiuno si aggiungevano altri giorni di digiuno in ricordo di calamità nazionali o in periodo di carestia, come quando ritardava la pioggia d'autunno. A causa di una calamità, precisamente «nel quinto anno di Ioiakim, figlio di Giosia, re di Giuda, nel nono mese, fu indetto un digiuno davanti al Signore per tutto il popolo di Gerusalemme e per tutto il popolo che era venuto dalle città di Giuda a Gerusalemme» (Ger 36,9). Il digiuno, unito alla preghiera, era sempre orientato al perdono dei peccati, per ottenere la clemenza di Dio. A questi digiuni pubblici e rituali si unirono i digiuni particolari, praticati soprattutto dai farisei, i quali solevano digiunare il secondo e quinto giorno della settimana, lunedì e giovedì (Lc 18,12). In questi giorni, oltre a privarsi di cibi, si vestivano di sacco (Sal 35,13), si cosparge-vano cenere sul capo, non si lavavano né ungevano il corpo, camminavano scalzi. Un esempio di questo comportamento lo abbiamo nel digiuno di Davide, mentre il figlio che Bersabea gli diede era malato. Davide interruppe il digiuno non appena seppe che era morto: «Allora Davide si alzò da terra, si lavò, si unse e cambiò le vesti; poi andò nella casa del Signore e vi si prostrò. Rientrato a casa, chiese che gli portassero il cibo e ne mangiò» (2Sam 12,20). I salmi invitano frequentemente al digiuno personale in occasione di difficoltà particolari (cfr. Sal 35,69,109). Per i cristiani il fondamento biblico del digiuno risiede nello stesso Gesù Cristo, che preparò il suo ministero pubblico ritirandosi nel deserto per pregare e digiunare per quaranta giorni (Mt 4,1ss; Lc 4,1ss). Partendo, dunque, dalla vita di Cristo possiamo capire che la sua critica al digiuno dei farisei si fonda sulla mancanza di sincerità con cui digiunano e non sul digiuno in sé. Il digiuno autentico va sempre unito alla conversione, alla sincerità della vita di fede. Questo è quello che propone già il profeta Gioele: «Or dunque - parola del Signore - ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché Egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura» (GI 2,12-13).
b) Il digiuno davanti allo sguardo di Dio
Gesù ha iniziato la sua vita pubblica con un digiuno di quaranta giorni nel deserto (Mt 4,1ss). Dopo non digiuneranno più né lui né i suoi discepoli. Era il tempo della gioia, il tempo in cui i peccatori si sentivano accolti e perdonati. Per loro si organizzava una festa, alla quale partecipavano gli angeli e i santi (Lc 15). Fino a quando lo sposo sta con gli invitati, non c'è spazio per il digiuno. Alla festa di nozze, gli amici dello sposo si rallegrano: «Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano? E Gesù disse loro: Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno» (Mt 9,14-15). Tuttavia Gesù non condanna il digiuno. Desidera solo che sia orientato a Dio e, come la preghiera fatta in casa con la porta chiusa, così il digiuno venga praticato solo davanti allo sguardo di Dio. Il digiuno, quale atto di culto, è un umiliarsi davanti a Dio, riconoscendo la nostra fragilità e dipendenza da Lui o chiedendogli dalla nostra prostrazione il perdono dei peccati. È un modo di aprirsi alla sua bontà, al dono della sua grazia. Il digiuno, culto a Dio, è sempre unito alla preghiera. «Buona cosa è la preghiera con il digiuno» (Tb 12,8), dice Tobi a suo figlio. La chiamata a conversione si rivolge sempre e principalmente ai nostri cuori: «Laceratevi il cuore e non le vesti» (GI 2,12-18), proclama ogni anno la Chiesa all'inizio della Quaresima. In questo la Chiesa è fedele a quanto hanno proclamato i profeti: «Come già nei profeti, l'appello di Gesù alla conversione e alla penitenza non riguarda anzitutto opere esteriori, il 'sacco e la cenere', i digiuni e le mortificazioni, ma la conversione del cuore, la penitenza interiore. Senza di essa, le opere di penitenza rimangono sterili e menzognere, la conversione interiore spinge invece all'espressione di questo atteggiamento in segni visibili, gesti e opere di penitenza» (CCC 1430). I profeti hanno criticato il digiuno esteriore slegato dall'autentica conversione a Dio. E classico l'oracolo del profeta Gioele: «Or dunque - parola del Signore - ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura. Chi sa che non cambi e si plachi e lasci dietro a sé una benedizione? Offerta e libazione per il Signore vostro Dio. Suonate la tromba in Sion, proclamate un digiuno, convocate un'adunanza solenne. Radunate il popolo, indite un'assemblea, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo. Tra il vestibolo e l'altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al vituperio e alla derisione delle genti. Perché si dovrebbe dire fra i popoli: Dov'è il tuo Dio?» (Gl 2,12-17). Il Signore non si commuove davanti al digiuno ipocrita come annuncia Geremia: «Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica» (Ger 14,12). Ma davanti a un digiuno sincero, il Signore si muove a compassione e cambia il lutto in festa: «Così dice il Signore degli eserciti: Il digiuno del quarto, quinto, settimo e decimo mese si cambierà per la casa di Giuda in gioia, in giubilo e in giorni di festa, purché amiate la verità e la pace» (Zc 8,19). Il digiuno aiuta l'uomo a scoprire la presenza di Dio nella sua vita. Luca ci dice che Anna «non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere» (Lc 2,37). Il Catechismo della Chiesa raccomanda il digiuno, con la preghiera e l'elemosina, come forme di penitenza per unirci a Dio, vivere l'amore per il prossimo e per se stesso:«La penitenza interiore del cristiano può avere espressioni molto varie. La Scrittura e i Padri insistono soprattutto su tre forme: il digiuno, la preghiera e l'elemosina (cfr. Tb 12,8; Mt 6,1-18), che esprimono la conversione in rapporto a Dio e in rapporto agli altri» (CCC 1434). La Scrittura ci presenta numerosi esempi di digiuno in situazioni diverse. Il salmista, implorando l'ausilio di Dio, parla del digiuno prolungato fino a sentire che le ginocchia gli si indeboliscono (Sal 109,24). La città di Ninive, davanti alla predicazione di Giona, proclama un digiuno generale, ottenendo con esso che Dio non esegua il castigo con cui la minacciava (Gv 3,4-7). Lo aveva fatto prima lo stesso Mosè davanti alla minaccia di distruzione del popolo di Israele: «Io ero rimasto sul monte, come la prima volta, quaranta giorni e quaranta notti, in digiuno. Il Signore mi esaudì anche questa volta: il Signore non ha voluto distruggerti» (Dt 10,10). Il re Achab digiunò ascoltando la profezia di distruzione pronunciata contro di lui da Elia (1Re 21,27). Giosafat digiunò quando le nazioni gli fecero guerra (2Cr 20,3-4). Davide digiuna e fa penitenza in diverse occasioni (Sal 3,13), come quando venne a sapere della morte di Saul e Gionata (2Sam 1,12) o della morte di Abner (2Sam 3,35). Davanti alla minaccia di Nabucodonosor, Giuditta e gli Israeliti pregano e digiunano e il Signore ascolta le loro voci e vede la loro angoscia, salvandoli (Gdt 4,9-15). Quando Aman minaccia di distruggere tutto il popolo di Dio, Ester dice a Mardocheo: «Va, raduna tutti i Giudei che si trovano a Susa: digiunate per me, state senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch'io con le ancelle digiunerò nello stesso modo; dopo entrerò dal re, sebbene ciò sia contro la legge e, se dovrò morire, perirò!» (Est 4,16).
Anche nel Nuovo Testamento troviamo testimonianze di digiuni in momenti importanti della vita della comunità: «Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiu nando, lo Spirito Santo disse: Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati. Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li accomiatarono» (At 13,2-3). Paolo e Barnaba, prima di accomiatarsi dalle comunità da essi fondate, «costituirono per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto» (At 14,23).
c) Non di solo pane vivrà l'uomo
Nella nostra società dei consumi, che riduce l'uomo all'istinto, elevando il piacere a principio assoluto della morale, il digiuno acquista uri importanza particolare. Il digiuno insegna all'uomo che la sua vita non risiede unicamente nel mangiare e nel bere o nel soddisfare tutte le passioni: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4), risponde Gesù al tentatore dopo quaranta giorni di digiuno. In realtà, oggi è necessario porre un freno ai cinque sensi. Oltre alla sobrietà nel mangiare e nel bere, il digiuno è conveniente quanto all'olfatto, al gusto, al tatto, all'udito e alla vista. Chi non rinnega se stesso cade nel precipizio. Gli istinti senza freno prendono la mano e distruggono la persona umana, riducendola a una vita animale. L'edonismo riduce l'uomo a un consumo di sensazioni transitorie, portandolo alla nausea della vita. Perciò san Giovanni Crisostomo esorta i suoi ascoltatori a non limitare il digiuno alla privazione del cibo: «Il valore del digiuno consiste non solo nell'evitare certi cibi, ma nel rinunciare a tutti gli atteggiamenti, pensieri e desideri peccaminosi. Chi limita il digiuno semplicemente al cibo, minimizza il grande valore che il digiuno possiede. Se digiuni, lo provino le tue opere! Se vedi un fratello bisognoso, abbi compassione di lui. Se vedi un fratello che viene trattato con deferenza, non esserne invidioso.
Affinché il digiuno sia vero, non può esserlo solo con la bocca, ma si deve digiunare con gli occhi, le orecchie, i piedi, le mani, e con tutto il corpo, interiormente ed esteriormente. Digiuni con le tue mani mantenendole pure nel servizio disinteressato agli altri. Digiuni con i tuoi piedi non essendo tanto lento nell'amore e nel servizio. Digiuni con i tuoi occhi non vedendo cose impure, o non puntando l'attenzione sugli altri per criticarli. Astieniti da tutto ciò che mette in pericolo la tua anima e la tua santità. Sarebbe inutile non dare cibo al mio corpo, ma alimentare il mio cuore con immondizia, impurità, egoismo, contese, agi. Ti astieni dal cibo, ma ti permetti di ascoltare cose vane e mondane. Devi digiunare anche con le tue orecchie. Devi evitare di ascoltare cose che si dicono sul conto dei tuoi fratelli, menzogne che si dicono sugli altri, specialmente pettegolezzi, dicerie o parole fredde e dannose contro gli altri. Oltre a digiunare con la tua bocca, devi astenerti dal dire qualcosa che faccia male all'altro. Poiché a che ti serve non mangiare carne, se divori tuo fratello?». La pubblicità, con la sua immensa capacità di suggestione, schiavizza le persone incaute con la lusinga dell'apparente piacere, presentando come buono, bello e appetibile ciò che in realtà non lo è (Gen 3,6). Il digiuno libera dalla schiavitù del piacere apparente, che promette di saziare l'appetito dell'uomo con cose effimere o false, che non soddisfano mai l'autentico desiderio di felicità posto da Dio nell'intimo del cuore umano. Il digiuno aiuta il cristiano nell'autocontrollo e nella moderazione dei suoi appetiti. Già san Marco raccomanda il digiuno nella lotta contro alcuni demòni: «Questa specie di demòni può essere scacciata solo con la preghiera e il digiuno» (Mc 9,29).
Meditiamo il Vangelo di oggi con il Papa. Brani tratti da "Gesù di Nazareth"
LA Preghiera del Signore. Attitudine della preghiera
Il Discorso della montagna delinea - come abbiamo visto - un quadro completo della giusta umanità. Vuole indicarci come si fa a essere uomini. Le sue concezioni fondamentali si potrebbero riassumere nell'affermazione: solo a partire da Dio si può comprendere l'uomo e solo se egli vive in relazione con Dio, la sua vita diventa giusta. Dio però non è un lontano sconosciuto. Egli ci mostra il suo volto in Gesù; nel suo agire e nella sua volontà riconosciamo i pensieri e la volontà di Dio stesso. Se essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro allora che ne fa parte il parlare con Dio e l'ascoltare Dio. Per questo il Discorso della montagna comprende anche un insegnamento sulla preghiera; il Signore ci dice come dobbiamo pregare.
In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un'esibizione davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap 2,17). L'amore di Dio per ogni individuo è totalmente personale e ha in sé questo mistero dell'unicità che non può essere divulgata davanti agli uomini. Questa essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della mia persona; nell'atto del pregare, l'aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda.
L'altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca. Tutti conosciamo il peri-colo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzionequando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto. La cosa più importante -al di là di tali situazioni momentanee - è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l'orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell'amore del prossimo. Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale. Ma noi abbiamo sempre bisogno anche dell'appoggio di quelle preghiere in cui ha preso forma l'incontro con Dio dell'intera Chiesa, come in essa delle singole persone. Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita. Nella sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra concordet voci nostrae» - il nostro spirito concordi con la nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci pre-cede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce. Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26) - troppo lontani siamo da Dio, troppo misterioso e grande è Lui per noi. E così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli che ci ha dato, di avvicinarci a Lui. In Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi, il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell'Antica e nella Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo «nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo, preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge: quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De dom. or. 2). Così qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci pre-cede, incontro con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.
Mentre in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca lo troviamo in un altro contesto - sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare..."» (11,1). Il contesto è dunque l'incontro con il pregare di Gesù, che desta nei discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L'insieme dell'operare di Gesù:scaturisce dalla sua preghiera, è da essa sostenuto. Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto all'incontro con il Gesù in preghiera (cfr. Lc 9,19ss); la trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr. Lc 9,28s). E quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore dell'Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore, rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza, vogliono conformarci a imma-gine del Figlio. Il significato del Padre nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù (cfr. Fi12,5).
Per l'interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato. Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come me-glio possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con queste parole. Ma dobbiamo anche te-ner presente che il Padre nostro proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre. Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell'esistere umano di ogni tempo e perciò non può essere scandagliato con un'interpretazione meramente storica, per quanto importante essa sia.
I grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con la sua mens - con il proprio spirito - andare incontro alla vox - alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà conoscere a cia-scuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.
Il Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all'origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell'una come nell'altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato. Prima di addentrarci nell'interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo. Consiste di un'invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del De-calogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale - l'amore verso Dio e l'amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell'amore. Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell'amore, che è allo stesso tempo una via di conversione. Perché l'uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: «prima Dio, il regno di Dio» (cfr. Mt 6,33). Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell'essere uomini. Alla fine scendiamo sino all'ultima minaccia per l'uomo, dietro cui si apposta il Maligno - può affiorare in noi l'immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente l'inizio: «Padre nostro» - sappiamo che Egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva. Padre Hans-Peter Kolvenbach, nel suo libro di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui premeva «di far intonare il Padre nostro semprecon l'ultima parola, per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali: "nostro Padre"». In questo modo, spiegava lo staretz, si percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell'esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il re-gno di Dio, dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: "nostro Padre"» (p. 65s). Possano entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c'è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni. Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.
J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Pagg. 157-165
In Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un'esibizione davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap 2,17). L'amore di Dio per ogni individuo è totalmente personale e ha in sé questo mistero dell'unicità che non può essere divulgata davanti agli uomini. Questa essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della mia persona; nell'atto del pregare, l'aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio si compenetrano a vicenda.
L'altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca. Tutti conosciamo il peri-colo di recitare formule abituali, mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzionequando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto. La cosa più importante -al di là di tali situazioni momentanee - è però che la relazione con Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente l'orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua». Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di «amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la forza trainante dell'amore del prossimo. Questa autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze, gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto personale. Ma noi abbiamo sempre bisogno anche dell'appoggio di quelle preghiere in cui ha preso forma l'incontro con Dio dell'intera Chiesa, come in essa delle singole persone. Senza questi sussidi, infatti, la nostra preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita. Nella sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra concordet voci nostrae» - il nostro spirito concordi con la nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la voce ci pre-cede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce. Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26) - troppo lontani siamo da Dio, troppo misterioso e grande è Lui per noi. E così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli che ci ha dato, di avvicinarci a Lui. In Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi, il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell'Antica e nella Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo «nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo, preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge: quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De dom. or. 2). Così qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci pre-cede, incontro con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.
Mentre in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi sulla preghiera in generale, in Luca lo troviamo in un altro contesto - sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare..."» (11,1). Il contesto è dunque l'incontro con il pregare di Gesù, che desta nei discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L'insieme dell'operare di Gesù:scaturisce dalla sua preghiera, è da essa sostenuto. Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto all'incontro con il Gesù in preghiera (cfr. Lc 9,19ss); la trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr. Lc 9,28s). E quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore dell'Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore, rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza, vogliono conformarci a imma-gine del Figlio. Il significato del Padre nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù (cfr. Fi12,5).
Per l'interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato. Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come me-glio possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con queste parole. Ma dobbiamo anche te-ner presente che il Padre nostro proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il Padre. Ciò vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle parole. Comprende tutta la vastità dell'esistere umano di ogni tempo e perciò non può essere scandagliato con un'interpretazione meramente storica, per quanto importante essa sia.
I grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con la sua mens - con il proprio spirito - andare incontro alla vox - alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà conoscere a cia-scuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.
Il Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve, da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all'origine non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell'una come nell'altra redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato ciò che in Luca sembra in parte solo accennato. Prima di addentrarci nell'interpretazione delle singole parti, vediamo ora brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata tramandata da Matteo. Consiste di un'invocazione iniziale e sette domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre nostro con quella tra le due tavole del De-calogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale - l'amore verso Dio e l'amore verso il prossimo -, parole guida nella via dell'amore. Così anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio, dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell'amore, che è allo stesso tempo una via di conversione. Perché l'uomo possa chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è: «prima Dio, il regno di Dio» (cfr. Mt 6,33). Dobbiamo innanzitutto uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie dell'essere uomini. Alla fine scendiamo sino all'ultima minaccia per l'uomo, dietro cui si apposta il Maligno - può affiorare in noi l'immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente l'inizio: «Padre nostro» - sappiamo che Egli è con noi, ci tiene nella sua mano, ci salva. Padre Hans-Peter Kolvenbach, nel suo libro di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui premeva «di far intonare il Padre nostro semprecon l'ultima parola, per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali: "nostro Padre"». In questo modo, spiegava lo staretz, si percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell'esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il re-gno di Dio, dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: "nostro Padre"» (p. 65s). Possano entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente, ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo sfondo delle domande c'è sempre Gesù, come vedremo nelle singole spiegazioni. Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito Santo preghiamo il Padre.
J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Pagg. 157-165
CATECHISMO CHIESA CATTOLICA: Il pudore e la modestia, segni del "segreto" che vede solo il Padre
2514 San Giovanni distingue tre tipi di smodato desiderio o concupiscenza: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. 388 Secondo la tradizione catechistica cattolica, il nono comandamento proibisce la concupiscenza carnale; il decimo la concupiscenza dei beni altrui.
2515 La « concupiscenza », nel senso etimologico, può designare ogni forma veemente di desiderio umano. La teologia cristiana ha dato a questa parola il significato specifico di moto dell'appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana. L'Apostolo san Paolo la identifica con l'opposizione della « carne » allo « spirito ». 389 È conseguenza della disobbedienza del primo peccato. 390 Ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa una colpa, inclina l'uomo a commettere il peccato. 391
2516 Già nell'uomo, essendo un essere composto, spirito e corpo, esiste una certa tensione, si svolge una certa lotta di tendenze tra lo « spirito » e la « carne ». Ma essa di fatto appartiene all'eredità del peccato, ne è una conseguenza e, al tempo stesso, una conferma. Fa parte dell'esperienza quotidiana del combattimento spirituale:
« Per l'Apostolo non si tratta di discriminare e di condannare il corpo, che con l'anima spirituale costituisce la natura dell'uomo e la sua soggettività personale; egli si occupa invece delle opere, o meglio delle stabili disposizioni – virtù e vizi – moralmente buone o cattive, che sono frutto di sottomissione (nel primo caso) oppure di resistenza (nel secondo) all'azione salvifica dello Spirito Santo. Perciò l'Apostolo scrive: "Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,25) ». 392
2517 Il cuore è la sede della personalità morale: « Dal cuore provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni » (Mt 15,19). La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza:
« Conservati nella semplicità, nell'innocenza, e sarai come i bambini, i quali non conoscono il male che devasta la vita degli uomini ». 393
2518 La sesta beatitudine proclama: « Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » (Mt 5,8). I « puri di cuore » sono coloro che hanno accordato la propria intelligenza e la propria volontà alle esigenze della santità di Dio, in tre ambiti soprattutto: la carità, 394 la castità o rettitudine sessuale, 395 l'amore della verità e l'ortodossia della fede. 396 C'è un legame tra la purezza del cuore, del corpo e della fede:
I fedeli devono credere gli articoli del Simbolo, « affinché credendo, obbediscano a Dio; obbedendo, vivano onestamente; vivendo onestamente, purifichino il loro cuore, e purificando il loro cuore, comprendano quanto credono ». 397
2519 Ai « puri di cuore » è promesso che vedranno Dio faccia a faccia e che saranno simili a lui. 398 La purezza del cuore è la condizione preliminare per la visione. Fin d'ora essa ci permette di vedere secondo Dio, di accogliere l'altro come un « prossimo »; ci consente di percepire il corpo umano, il nostro e quello del prossimo, come un tempio dello Spirito Santo, una manifestazione della bellezza divina.
2520 Il Battesimo conferisce a colui che lo riceve la grazia della purificazione da tutti i peccati. Ma il battezzato deve continuare a lottare contro la concupiscenza della carne e i desideri disordinati. Con la grazia di Dio giunge alla purezza del cuore:
— mediante la virtù e il dono della castità, perché la castità permette di amare con un cuore retto e indiviso;
— mediante la purezza d'intenzione che consiste nel tenere sempre presente il vero fine dell'uomo: con un occhio semplice, il battez zato cerca di trovare e di compiere in tutto la volontà di Dio; 399
— mediante la purezza dello sguardo, esteriore ed interiore; mediante la disciplina dei sentimenti e dell'immaginazione; mediante il rifiuto di ogni compiacenza nei pensieri impuri, che inducono ad allontanarsi dalla via dei divini comandamenti: « La vista pro voca negli stolti il desiderio » (Sap 15,5);
— mediante la preghiera:
« Pensavo che la continenza si ottenesse con le proprie forze e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto da ignorare che [...] nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l'avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore e lanciato in te la mia pena con fede salda ». 400
2521 La purezza esige il pudore. Esso è una parte integrante della temperanza. Il pudore preserva l'intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. È ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.
2522 Il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell'impegno definitivo dell'uomo e della donna tra loro. Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell'abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione.
2523 Esiste non soltanto un pudore dei sentimenti, ma anche del corpo. Insorge, per esempio, contro l'esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti.
2524 Le forme che il pudore assume variano da una cultura all'altra. Dovunque, tuttavia, esso appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell'uomo. Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto. Insegnare il pudore ai fanciulli e agli adolescenti è risvegliare in essi il rispetto della persona umana.
(388) Cf 1 Gv 2,16.
(389) Cf Gal 5,16.17.24; Ef 2,3.
(390) Cf Gn 3,11.
(391) Cf Concilio di Trento, Sess. 5a, Decretum de peccato originali, canone 5: DS 1515.
(392) Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et vivificantem, 55: AAS 78 (1986) 877-878.
(393) Erma, Pastor 27, 1 (mandatum 2, 1): SC 53, 146 (Funk 1, 70).
(394) Cf 1 Ts 4,3-9; 2 Tm 2,22.
(395) Cf 1 Ts 4,7; Col 3,5; Ef 4,19.
(396) Cf Tt 1,15; 1 Tm 1,3-4; 2 Tm 2,23-26.
(397) Sant'Agostino, De fide et Symbolo, 10, 25: CSEL 25, 32 (PL 40, 196).
(398) Cf 1 Cor 13,12; 1 Gv 3,2.
(399) Cf Rm 12,2; Col 1,10.
(400) Sant'Agostino, Confessiones, 6, 11, 20: CCL 27, 87 (PL 32, 729-730).
Giovanni Paolo II Dall' UDIENZA GENERALE Mercoledì, 28 maggio 1980
5. Il cuore umano serba in sé contemporanearnente il desiderio e il pudore. La nascita del pudore ci orienta verso quel momento, in cui l’uomo interiore, "il cuore", chiudendosi a ciò che "viene dal Padre", si apre a ciò che "viene dal mondo". La nascita del pudore nel cuore umano va di pari passo con l’inizio della concupiscenza: della triplice concupiscenza secondo la teologia giovannea (cf. 1Gv 2,16), e in particolare della concupiscenza del corpo. L’uomo ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Anzi, ha pudore non tanto del corpo, quanto proprio della concupiscenza: ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Ha pudore del corpo a motivo di quello stato del suo spirito, a cui la teologia e la psicologia danno la stessa denominazione sinonimica: desiderio ovvero concupiscenza, sebbene con significato non del tutto uguale. Il significato biblico e teologico del desiderio e della concupiscenza differisce da quello usato nella psicologia. Per quest’ultima, il desiderio proviene dalla mancanza o dalla necessità, che il valore desiderato deve appagare. La concupiscenza biblica, come deduciamo da 1Gv 2,16, indica lo stato dello spirito umano allontanato dalla semplicità originaria e dalla pienezza dei valori, che l’uomo e il mondo posseggono "nelle dimensioni di Dio". Appunto tale semplicità e pienezza del valore del corpo umano nella prima esperienza della sua mascolinità-femminilità, di cui parla Genesi 2,23-25, ha subito successivamente, "nelle dimensioni del mondo", una trasformazione radicale. E allora, insieme con la concupiscenza del corpo, nacque il pudore.
6. Il pudore ha un duplice significato: indica la minaccia del valore e al tempo stesso preserva interiormente tale valore (cf. Karol Wojtyla, Amore e responsabilità, Torino 19782, pp. 161-178). Il fatto che il cuore umano, dal momento in cui vi nacque la concupiscenza del corpo, serbi in sé anche la vergogna, indica che si può e si deve far appello ad esso, quando si tratta di garantire quei valori, ai quali la concupiscenza toglie la loro originaria e piena dimensione. Se teniamo ciò in mente, siamo in grado di comprendere meglio perché Cristo, parlando della concupiscenza, fa appello al "cuore" umano.
San [Padre] Pio di Pietrelcina (1887-1968), cappuccino
GF, 173 ; Ep 3, 982-983
GF, 173 ; Ep 3, 982-983
« Chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto »
Sii assiduo alla preghiera e alla meditazione. Mi hai detto che avevi già cominciato. Questa è una grandissima consolazione per un padre che ti ama come sé stesso! Continua dunque a progredire in questo esercizio dell’amore per Dio. Fa’ ogni giorno un passo avanti: di notte, al lume di lampada, fra le debolezze e nell’aridità dello spirito; o di giorno, nella gioia e l’illuminazione che abbaglia l’anima...
Se puoi, parla al Signore nell’orazione, lodalo. Se non vi riesci perché non sei ancora molto avanzato nella vita spirituale, non preoccuparti: rinchiuditi nella tua camera, e mettiti in presenza di Dio. E lui lo vedrà e apprezzerà la tua presenza e il tuo silenzio. Poi, ti prenderà per mano, ti parlerà, camminerà sù e giù nei viali del giardino dell’orazione e vi troverai la tua consolazione. Rimanere alla presenza di Dio semplicemente per manifestare la nostra volontà di riconoscerci suoi servi, questo è un eccellente esercizio spirituale che ci farà andare avanti sul cammino della perfezione.
Quando sei unito a Dio mediante la preghiera, esamina chi sei in verità; parlagli se puoi, e se questo ti è impossibile, fermati, rimani davanti a lui. Non darti altra preoccupazione.
Santa Edith Stein (1891-1942), carmelitana, martire, compatrona d’Europa
La Preghiera della Chiesa
« Il Padre tuo vede nel segreto»
Non si tratta di concepire la preghiera interiore, libera da ogni forma tradizionale, come una pietà semplicemente soggettiva, da opporre alla liturgia che sarebbe la preghiera oggettiva della Chiesa. Ogni preghiera vera è preghiera della Chiesa; attraverso ogni preghiera vera, succede qualcosa nella Chiesa, ed è la Chiesa stessa che prega, quando, in ogni anima singola, lo Spîrito che vive in essa “intercede per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26). Questa è appunto la preghiera vera, perché “nessuno può dire ‘Gesù è Signore’ se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3). Quale sarebbe la preghiera della Chiesa se non l’offerta di coloro che, infiammati da un grandissimo amore, si offrono a Dio che è amore?
Il dono di sè a Dio, per amore e senza limiti, e il dono divino in risposta, cioè l’unione piena e costante, è la più alta elevazione del cuore che ci sia accessibile, il più alto grado della preghiera. Le anime che sono giunte a questo punto sono, in verità, il cuore della Chiesa; in esse vive l’amore di Gesù sommo sacerdote. Nascoste in Dio con Cristo (Col 3,3), non possono far altro che irradiare in altri cuori l’amore divino di cui sono ricolme e contribuire così all’adempimento dell’unità perfetta di tutti in Dio, questa unità che era e rimane il grande desiderio di Gesù.
Santa Teresa Benedetta della Croce [Edith Stein] (1891-1942), carmelitana, martire, compatrona d'Europa
La preghiera della Chiesa
Tutto è una medesima cosa, per coloro che hanno raggiunto l'unità profonda della vita divina: il riposo e l'azione, contemplare e agire, tacere e parlare, ascoltare e aprirsi, ricevere in sé il dono di Dio e rendere l'amore a fiumi nell'azione di grazie e la lode... Occorre per lunghe ore ascoltare in silenzio, lasciare la parola divina sbocciare in noi, finché ci inciti a lodare Dio nella preghiera e nel lavoro.
Anche le forme tradizionali ci sono necessarie e dobbiamo partecipare al culto pubblico ordinato dalla Chiesa, perché la nostra vita interiore si svegli, rimanga nella via retta e trovi l'espressione che le si addice. Occorre che la lode solenne di Dio abbia i suoi santuari sulla terra per essere celebrata con tutta la perfezione di cui sono capaci gli uomini. Da essi, nel nome della Santa Chiesa, essa può salire verso il cielo, agire su tutte le sue membra, svegliare la loro vita interiore e stimolare il loro sforzo fraterno. Tuttavia, perché questo canto di lode sia vivificato dall'interno, bisogna che ci siano, in queste luoghi di preghiera dei tempi riservati all'approfondimento spirituale nel silenzio; altrimenti, questa lode degenererà in un balbettio delle labbra spogliato di vita. Grazie a questi focolari di vita interiore questo pericolo è respinto; le anime possono meditarvi davanti a Dio nel silenzio e nella solitudine, per essere nel cuore della Chiesa i cantori dell'amore che tutto vivifica.
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