Il deserto, l’anacoresi ed il senso di Dio

“Il deserto è un distacco interiore da ogni creatura, nel quale l’anima né si ferma né si riposa in nulla”
San Giovanni della Croce: “Ascesa al Monte Carmelo

La ricerca della percezione sensibile di Dio, divino motore delle nostre esistenze, e l’emergere allo stato cosciente della Nous ovvero dell’anima che, come afflato divino, rende consapevole la nostra esistenza, è sempre stato sostenuto da un allontanamento dal ‘quotidiano’ e da uno sporgersi oltre il limite sensibile del normale vivere quali membri di una società antropica.
Varcare la soglia ed entrare in un luogo di culto, una chiesa, significa accedere ad uno spazio intimo e protetto, lo spazio terminale del mondo oggettuale e quotidiano, dal quale percepire ed immergersi in una proiezione intima dell’ immagine divina.
Più che uno spazio architettonico quindi uno spazio d’ascolto del misterioso eco della propria esistenza che come scrive Jaspers ‘sostiene e penetra tutte le cose’: l’Essere.
Essere quindi e non semplicemente esistere, ritrarsi oltre i limiti cognitivi della nostra vita ob-gettuale, nel quale la natura, l’universo, ci si pone solo come strumento per la dimostrazione empirica delle nostre conoscenze scientifiche, significa prendere coscienza dell’esistenza di un mondo non pensato e di un mistero che esula dalle capacità razionalizzanti del nostro pensiero scientifico-logico.
La percezione dell’Essere, è la percezione della nostra vera esistenza, ec-sistenza che sporge sopra il quotidiano vincolo di modelli e limiti del vivere in una società di tipo Occidentale, dove la percezione di noi stessi non avviene tramite l’ascolto diretto del nostro Essere, ma avviene solo attraverso la comprensione e la razionalizzazione degli effetti derivanti dalla nostra interazione sensoriale con il mondo oggettuale.
In altre parole, per i limiti dovuti alla struttura cognitiva dei nostri cervelli, abbiamo coscienza di noi stessi solo attraverso la ‘comprensione’ degli stimoli sensoriali legati all’interazione della nostra persona con il mondo sensoriale che ci circonda, popolato di esseri animati, inanimati e di persone.
Entrando in una chiesa ci si disallinea quindi dalla direttrice soggetto-oggetto Cartesiano sorretta dai nostri sensi, per accedere al luogo della conoscenza de-sensibile, mediante una limitazione forzata delle percezioni.
Conoscenza de-sensibile che, non potendo sfruttare gli strumenti canonici della conoscenza scientifico-logica che dominano il mondo della realtà ontica, oggettuale, diventa percezione, sensazione non oggettivabile, Verità perché inconfutabile (dato che il processo di confutazione, che è logico, può essere applicato solo ad un pensiero logico): il senso dell’Essere, il senso di Dio.
Per tutti questi motivi i luoghi di culto sono sempre stati concepiti, dal punto di vista architettonico, come spazi protetti, al riparo da una iperstimolazione delle percezioni sensoriali uditive e visive derivanti dalle continue interazioni con il mondo antropico circostante con cui ci si confronta e ci si rapporta: l’enorme quantità di persone che attraversa il nostro tempo e la nostra vita.

Raccoglimento è il concetto che meglio descrive il processo di intimo accesso allo spazio privilegiato che il luogo di culto custodisce: una pausa nel trascorrere affannoso del tempo vissuto in società, una pausa non cristallizzata ed oziosa, ma processo in divenire che apre le porte della comunicazione con l’intimo partendo da una negazione percettiva.
La negazione intesa quindi come passo indietro, come un sollevarsi rispetto al piano ontico, oggettuale della conoscenza scientifico-logica, quindi un processo attivo e non un semplice ozio.
Entrare in un luogo di culto significa infatti, sollevare il nostro cervello dal costante carico di lavoro derivante dalla quotidiana appartenenza ad un sistema antropico basato sui rapporti interpersonali, per poter accedere alla percezione dell’intimo, di quelle sensazioni ed emozioni altrimenti relegate costantemente alle aree inconsce del nostro vivere.
Da un punto di vista neurologico la possibilità di percepire alcuni stimoli endogeni ed esogeni “deboli” ovvero normalmente percepiti come sensazioni e non facenti parte della realtà scientifico-logica, è determinata dalla riduzione degli stimoli forti (principalmente visivi) che coinvolgono dal punto di vista operativo in modo importante la nostra corteccia prefrontale, per far spazio a stimoli che normalmente risiedono nelle aree emotivo-inconsce: le aree del sistema limbico.
Il nostro cervello infatti è molto più attratto dagli stimoli provenienti dell’esterno, che da quelli più ‘intimi’ provenienti dalle aree più antiche del nostro sistema nervoso. La nostra corteccia cerebrale che regola e domina i nostri desideri di conoscenza, ha ‘stabilito’ infatti che gli stimoli prodotti dalle percezioni provenienti dall’esterno sono molto più ‘interessanti’ (perché altamente neurotrofici) rispetto a quelli provenienti dal nostro intimo e di conseguenza tutto l’interesse dell’essere umano si è sempre più rivolto alla scoperta e allo sfruttamento del mondo esterno piuttosto che all’interpretazione dei mormorii dello spirito.
Tra tutti, la vista, è sempre stato il senso che dal punto di vista delle attività cerebrali ha prevalso sugli altri; la funzionalità visiva infatti è anche strettamente legata alla nostra capacità di evitare pericoli, di socializzare, di nutrirci, di riprodurci, tutti fattori essenziali alla sopravvivenza e alla diffusione della razza umana.
Tra tutti i soggetti animati ed inanimati che possono entrare nel nostro campo visivo, l’immagine antropomorfa rappresenta uno degli stimoli più forti dal punto di vista delle energie cerebrali utilizzate, per la sua ricezione, elaborazione, valutazione e per la gestione delle azioni seguenti: in altre parole le basi del nostro vivere sociale.
Mediante la visione nasce l’interazione tra individui e dall’interazione nascono tutti gli aspetti che regolano il vivere in società: paura o desiderio, aggressività o mimesi, riconoscimento o esclusione.
Rabbia, desiderio, indifferenza, amichevolezza, ma anche il riconoscimento di caratteri morfologici simili o dissimili da noi, sono espressioni corporee, gestuali e morfologiche, la cui percezione sensoriale e comprensione permette all’individuo di vivere un’interazione proficua con gli individui che occupano lo stesso territorio.
La presenza di persone attorno a noi è quindi fonte di un enorme lavoro cerebrale che coinvolge diverse strutture tra cui amigdala, ippocampo e corteccia pre-frontale (Nomura, 2004 – Le Grand, 2001 – Gross, 2000).
La gestione cerebrale della percezione e dell’elaborazione degli atteggiamenti di un singolo individuo e la decisione del nostro comportamento conseguente, richiede dal punto di vista cerebrale un notevole dispendio energetico.
Quando l’interazione avviene simultaneamente con una moltitudine di individui, passeggiando ad esempio per le vie di una città, il nostro cervello non è in grado di gestire dal punto di vista delle capacità elaborative, tutte le possibili interazioni interindividuali utilizzando le stesse modalità che utilizza nella gestione dell’interazione interpersonale con un singolo individuo.
Questo limite delle capacità elaborative cerebrali, viene superato mediante una compressione cognitiva che genera la percezione massificata e mediata della moltitudine, la quale diventa, dal punto di vista cognitivo, l’equivalente di un´unica entità dotata di atteggiamenti propri definiti entro determinati limiti precostituiti dall’esperienza: in altre parole il cervello, non potendo elaborare tutte le percezioni che contraddistinguono ogni singolo individuo, genera il concetto di ‘massa’ all’interno del quale fa rientrare tutti gli individui che hanno caratteristiche e atteggiamenti che rientrano nella media degli atteggiamenti da lui rilevati nella sua esperienza.
È la stessa cosa che succede quando osserviamo uno sciame d’api, di cui riusciamo a farci un’idea del suo insieme, ma che non riusciamo a suddividere e gestire dal punto di vista cerebrale, in ogni singolo elemento costitutivo.
Solo un atteggiamento particolarmente aggressivo o amichevole di un individuo determina il suo distacco percettivo dalla moltitudine indifferenziata che scorre davanti ai nostri occhi.
L’atteggiamento o l’aspetto che significativamente discosta un individuo dalla media dei comportamenti e degli aspetti rilevati durante la nostra esperienza di vita, determina l’attivazione della corteccia pre-frontale e di tutta una serie di meccanismi previsionali e di altre strutture tipo l’ippocampo, in grado di determinare se l’elemento in questione possa rappresentare una minaccia, un’opportunità o possa rientrare, dopo questa analisi, all’interno della media indifferenziata.
Un esempio è una persona che cammina su un marciapiede in ‘rotta di collisione’ verso di noi. La rilevazione della sua traiettoria confrontata mediante un sistema previsionale con la nostra, determina il primo allarme: il soggetto si stacca dal punto di vista percettivo dalla massa. Da qui inizia l’analisi corticale del soggetto.
Consideriamo il suo aspetto, se ha un atteggiamento ‘strano’ ovvero al di fuori di quelli che noi consideriamo i canoni medi, se sta guardando verso di noi o è inconsapevole della sua traiettoria, se ha un aspetto minaccioso o meno e decidiamo sul da farsi: ci spostiamo, ci fermiamo, lo affrontiamo o cerchiamo di attrarre la sua attenzione in modo che cambi rotta.
Il nostro cervello quindi, valuta continuamente la “massa” utilizzando una parte del cervello, l’amigdala, che ha il compito di scandagliare la moltitudine degli individui che passano nel nostro campo visivo, alla ricerca di atteggiamenti che possano rappresentare per noi una potenziale opportunità o rischio. Solo in casi particolari vengono utilizzate le aree cognitive analitiche a maggior dispendio energetico.
Tanto per fare un esempio, se ci mettessimo un giorno consapevolmente e quindi utilizzando la parte razionale del cervello a maggior dispendio energetico, a valutare tutti i tipi di atteggiamenti ed espressioni delle persone che incontriamo lungo un marciapiede, ci renderemmo conto dell’enormità del lavoro che dovrebbe essere svolto ad ogni istante dal nostro cervello e non saremmo in grado di continuare per più di pochi minuti.
Vivere in un’area densamente popolata, potrebbe quindi significare un lavoro immane per il cervello se non fosse stato predisposto questo tipo di risparmio energetico.
Anche se a minore dispendio energetico, l’attività dell’amigdala è comunque per noi come un rumore di fondo continuo che non ci permette di percepire altro che questo continuo “analizza e confronta”.
Maggiore è l’attività dell’amigdala quando siamo in mezzo alla moltitudine e maggiore sarà la percezione di un differente stato emotivo quando ci si troverà da soli, senza nessuna presenza umana nel campo visivo.

Entrare in un luogo di culto significa dal punto di vista cerebrale ridurre al minimo l’attività dell’amigdala.
D’un tratto il rumore di fondo scompare, ma non per far posto ad una attività razionale a maggiore dispendio energetico.
L’occhio non rileva più movimenti, atteggiamenti, espressioni: una deprivazione sensoriale visiva grazie alla quale il nostro cervello, non dovendo assolvere i compiti più alti nella scala delle sue priorità, ha sufficienti energie per rivolgere la sua attenzione verso gli echi di deboli segnali provenienti dalle aree più antiche del nostro sistema nervoso, quello ancestrale, fatto di sensazioni e di percezioni, quello che ci avvicina di più alla madre Terra e che è pervaso dal senso di Dio.
Deboli segnali neuronali che, andando ad interagire anche con aree corticali a matrice attiva deputate alla percezione di immagini e suoni possono, a volte, trasformarsi in allucinazioni, in apparizioni, mediate dalle nostre esperienze pregresse e dalla nostra cultura (Weingarten, 1988 – Horowitz, 1968).

Il luogo di culto quindi deve essere per questo motivo un luogo lontano dall’umano e dalla sua immagine.
La ricerca della situazione ideale per poter accedere a questa percezione dell’Essere, porta anche alla scelta di situazioni estreme quali l’anacoresi (da ‘anachórein’ che in greco significa appartarsi, allontanarsi). Si tratta della creazione di un luogo virtuale di culto personale, estremo, dedito all’ascolto delle nostre percezioni ancestrali intrise del senso di Dio.
Una sorta di deserto concepito come il luogo naturale di isolamento totale, di distacco da ogni tipo di stimolo legato alla convivenza con altri individui.
Luogo mistico per eccellenza, il deserto è dove Gesù approda ad un livello di consapevolezza superiore della sua missione, è dove molti santi e martiri hanno potuto godere di un rapporto privilegiato con il proprio Dio, è dove il popolo di Israele ricevette la Torah.
Più che apparizioni quindi, rivelazioni. Midbar – deserto, in ebraico ha la stessa radice di parola – Medaber, quindi deserto non come desolazione, silenzio, ma come luogo della rivelazione, luogo privilegiato per ascoltare la parola di Dio (ma non per vederne l’immagine).
Dal punto di vista neuronale, il poter spaziare visivamente su un luogo dagli orizzonti lontani e caratterizzato dall’assenza dell’uomo e di ogni altro essere vivente, genera una ipostimolazione dell’ippocampo ed una maggiore stimolazione delle regioni paraippocampali deputate normalmente alla gestione delle immagini dei paesaggi (Yago, 2005 – Bohbot, 2004): questo determina la minore stimolazione delle nostre attività corticali e quindi una maggiore riserva energetica cerebrale necessaria per prestare attenzione alle sensazioni intime del nostro sistema limbico.
Intime, come il deserto, come un non-luogo al di fuori di ogni coordinata spazio-tempo, dove risiede il significante umano, fatto ad immagine e somiglianza divina, dal quale poter accedere mediante la sua contemplazione ed il suo ascolto, alla percezione di Dio.

La solitudine, dove l’occhio può spaziare sino ai confini del suo orizzonte percettivo, oltre il quale, incomprensibile, Dio pervade e significa tutto.

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