È POSSIBILE RAGGIUNGERE LA SANTITÀ ATTRAVERSO LO STUDIO?. F. Manns


(Flagellazione, Gerusalemme, 6 novembre 2003)


Abbiamo appena celebrato la festa di Tutti i Santi, che ci ricorda la “universale vocazione alla santità nella Chiesa” (cf. Vaticano II: Cost. Lumen Gentium, cap. V). La professione religiosa ci impegna tutti a tendere alla perfezione della vita evangelica, secondo lo spirito proprio di ciascuna famiglia e di ciascun fondatore (per es., Costituzioni della P. Soc. di S. Francesco di Sales, art. 1, nella formulazione originaria).

Ci chiediamo: è possibile raggiungere la santità (la perfezione cristiana) attraverso lo studio? Cercheremo di dare una risposta in tre momenti:


1. La vocazione di didaskalos e il carisma della didaskalia

Per prima cosa ci mettiamo in ascolto della Parola di Dio, che ci rivela il senso della nostra particolare vocazione nella Chiesa.

_ In un testo degli Atti troviamo che fin dalle origini nella comunità cristiana ci sono dei “maestri”, persone cioè che sono dedite all’insegnamento (contemporaneamente, e prima ancora, allo studio): «C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori (didaskaloi)» (At 13,1), che la comunità manda in missione; cf. 14,4.14: apostoloi). Tra essi Barnaba e Saulo, senza dubbio due santi!

_ Una serie di testi paolini (1 Cor 12; Rm 12; Ef 4) è dedicata ai “carismi”, i doni dello Spirito che arricchiscono i membri della Chiesa.

«A ciascuno è data una particolare manifestazione dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, a un altro… il linguaggio della scienza… Alcuni Dio li ha posti nella Chiesa …come apostoli, …come profeti, …come maestri… » (1 Cor 12,7s.28). Paolo insiste sull’unica origine (vv. 4s: Dio, il Signore, lo Spirito), sulla finalità («l’utilità comune»), sulla complementarietà dei carismi (vv. 12ss: immagine del corpo e delle membra; vv. 28ss: «…tutti apostoli? …tutti profeti?… tutti maestri?…»).

«Abbiamo… doni diversi, secondo la grazia data a ciascuno di noi… Chi ha l’insegnamento, attenda all’insegnamento (o didaskon en tei didaskalia)…» (Rm 12,6s).. Ognuno attenda al compito che corrisponde al dono ricevuto, alla vocazione specifica.

«È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri (didaskaloi), per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. E questo affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina,… Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità (veritatem facientes in caritate), cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui che è il capo, Cristo…» (Ef 4,11ss). All’origine della nostra “professione” c’è un progetto / chiamata / incarico – prossimamente del Superiore (obbedienza), ultimamente del Signore. Lo scopo è anzitutto “pastorale” («pastori e maestri»): «edificare il corpo di Cristo». L’insegnamento non serve solo ad arricchire la cultura, nemmeno soltanto a irrobustire e approfondire la fede, ma a fare crescere l’intera personalità del credente («…allo stato di uomo perfetto…»). Ciò si realizza in condizioni non favorevoli (immagine delle onde e del vento: la traversata del mondo come mare in tempesta), superando le varie forme di immaturità delle persone.

_ Troviamo un’altra serie di testi rilevanti per il nostro tema nelle Lettere pastorali, nelle quali Paolo affida ai suoi giovani collaboratori, Tito e Timoteo, il compito di continuare la sua missione di pastore e maestro delle giovani chiese.

«Ti ricordo – scrive a Timoteo – di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani…» (1 Tm 1,6). La prima cosa è prendere coscienza, riconoscere, assumere consapevolmente il dono di Dio e la vocazione che ne discende. Per questo motivo Paolo insiste sui titoli che qualificano chi nella Chiesa è pastore e maestro: «uomo di Dio» (2 Tm 3,12), «buon ministro di Cristo Gesù» (1 Tm 4,6), «servo del Signore» (2 Tm 2,24), «amministratore di Dio» (Tt 1,7), «dispensatore della parola di verità» (2 Tm 2,15), «buon soldato di Gesù Cristo» (1 Tm 2,3)…

Paolo moltiplica le raccomandazioni, perché i suoi eredi – Timoteo e Tito, ma anche gli episkopoi e i presbyteroi loro collaboratori - siano in grado di continuare degnamente la sua missione. Ne riprendo solo alcune:

«Rimani saldo in quello che hai imparato e di cui sei convinto, sapendo da chi l’hai appreso e che fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2 Tm 3,14).

«Fino al mio arrivo dedicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento… Vigila su di te e sul tuo insegnamento…» (1 Tm 4,13.16). - «Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito santo che abita in noi» (2 Tm 1,14). - «Sforzati di presentarti davanti a Dio come… un lavoratore che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso dispensatore della parola di verità» (2 Tm 2,15).

L’Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II “Pastores gregis”, sul Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, al c. 3°: Maestro e araldo della Parola, n. 31) cita un bel passo di S. Ilario di Poitiers: «Volendo definire il tipo di vescovo ideale e formare con i suoi insegnamenti un uomo di Chiesa completamente nuovo, il beato apostolo Paolo spiegò qual era, secondo lui, il massimo della perfezione. Affermò che doveva professare una dottrina sicura, consona all’insegnamento, onde essere in grado di esortare alla sano dottrina e confutare quelli che la contraddicono. […] Da una parte, un ministro dalla vita irreprensibile, se non è colto, riuscirà solo a giovare a se stesso; dall’altra, un ministro colto perderà l’autorità che proviene dalla cultura, se la sua vita non risulta irreprensibile» (De Trinitate, VIII,1).



2. I pericoli legati alla nostra vocazione di studiosi e docenti

Ci è ora di guida il c. 23 del Vangelo di Matteo, che inizia con le parole: «Sulla cattedra di Mosè si sono insediati gli scribi e i farisei…». Nel contesto l’invettiva di Gesù contro i maestri della Torà documenta l’acme della tensione con le autorità religiose di Israele. Allo stesso tempo Mt 23 riflette il rapporto conflittuale della comunità cristiana con la singagoga. Ma le parole di Gesù suonano ammonimento anche per le guide spirituali della Chiesa: pastori e maestri.

Quali sono i pericoli e difetti nei quali possiamo cadere come studiosi e come maestri?

Il pericolo dell’incoerenza: «Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo; ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno» (v. 3).

Il pericolo della vanità: «Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini… amano i primi posti nelle sinagoghe e i saluti nelle piazza, come anche sentirsi chiamare “rabbi” dalla gente…» (vv. 5s).

Il pericolo del formalismo: «…pagate la decima dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà… Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!» (v. 23). La formazione filosofica e filologica sviluppa la capacità critica e dialettica, che è una grande risorsa nello studio della teologia – in modo particolare nelle scienze bibliche – ma può rivelarsi un rischio nei rapporti interpersonali: il rischio di scrutare con il lanternino i difetti del prossimo, di diventare ipersensibili e intolleranti su questioni secondarie, trascurando l’essenziale.



3. Lo studio della teologia come via alla santità

Secondo S. Tommaso d’Aquino la virtù dello studioso è appunto la virtù della studiositas, che egli considera parte della temperanza; ad essa si oppone il vizio della curiositasDeinde considerandum est de studiositate, et curiositate sibi opposita»: Summa Theologica, IIa, IIae, q. CLXVI). Così commenta p. Sertillanges: «L’ambizione può alterare la studiosità e i suoi effetti utili… D’altra parte, lo studio anche disinteressato, non è sempre opportuno; quando non lo è, l’intellettuale dimentica il suo mestiere di uomo… Altri doveri, oltre lo studio, sono doveri umani… Lo studio deve lasciare il loro posto al culto [oggi diremmo la Liturgia], alla preghiera, alla meditazione diretta delle cose di Dio. Anch’esso è un ufficio divino, ma di riflesso, perché cerca e onora le “tracce” creatrici o le “immagini” a seconda del suo oggetto… Studiare in modo da non avere più tempo di pregare, di leggere la Sacra Scrittura, la parola dei Santi e quella delle grandi anime, studiare fino a dimenticarsi di sé e, concentrandosi completamente sull’oggetto dello studio, giungere a trascurare l’Ospite interiore, è un abuso e una stoltezza, Supporre che si progredirà o che si produrrà così maggirmente è come dire che il ruscello scorrerà meglio se si inaridisce la sorgente» (A. D. SERTILLANGES, La vita intellettuale, Ed. Studium, Roma 1969, pp. 39-42; orig. franc. 1920. 31964).

_ A Tommaso d’Aquino sono attribuiti Sedici precetti per acquistare il dono della scienza:

«Giovanni a me carissimo in Cristo, tu mi hai domandato come applicarti allo studio così da acquistare il tesoro della scienza. Ecco il mio consiglio:

1. Non buttarti subito in mare aperto, ma entraci attraverso piccoli ruscelli (Volo ut per rivulos, non statim, in mare eligas introire) Attraverso le cose più facili infatti si può arrivare alle più difficili…
2. Sii lento a parlare e non affrettarti per raggiungere coloro che, riuniti in gruppo, stanno conversando.
3. Custodisci pura la tua coscienza.
4. Non trascurare di attendere alla orazione.
5. Ama la cella e ritornavi con frequenza, se vuoi essere accolto nella “cella vinaria”.
6. Sii amabile con tutti.
7. Non indagare curiosamente nelle cose altrui.
8. Non stringere troppa familiarità con nessuno. La familiarità eccessiva produce disistima ed è motivo di distrazione nello studio.
9. Non ti immischiare in nessuna maniera nelle parole e nelle azioni dei secolari.
10. Non volerti interessare di tutto.
11. Non tralasciare di imitare la condotta dei santi e degli onesti uomini.
12. Non mettere in conto chi ti parla, ma mettiti in mente quanto di buono ti è detto.
13. Sforzati di comprendere ciò che leggi o ascolti.
14. Non rimanere nel dubbio, ma cerca una soluzione.
15. Datti da fare per racchiudere tutto quello che puoi nella biblioteca della tua mente…
16. Non investigare ciò che è al di sopra della capacità della tua intelligenza (Altiora te ne quaesieris).

Se così imposterai la tua condotta, porterai e produrrai durante tutta la tua vita foglie e frutti utili nella vigna del Signore degli eserciti. Se seguirai questi consigli, raggiungerai quanto desideri. Stammi bene».

(da TOMMASO d’Aquino, Fede e opere. Testi ascetici e mistici, a c. di E. M. Sonzini, Città Nuova, Roma 1981, pp. 271s)

_ Concludo con la bella citazione di S. Bonaventura, riportata nella Esortazione apostolica post-sinodale “Pastores dabo vobis” di Giovanni Paolo II “circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali” (n. 53. Lo studio della teologia):

«Nessuno creda che gli basti la lettura senza l’unzione, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza lo stupore, l’osservazione senza l’esultanza, l’attività senza la pietà, la scienza senza la carità, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la grazia divina, l’indagine senza la sapienza dell’ispirazione divina» (Itinerarium mentis in Deum, Prologo, n. 4).


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