Problema e programma di Giuseppe
II problema che si pone a Giuseppe, erede davidico, privato della discendenza, è esposto immediatamente, e Maria trova qui il suo posto, il primo, nel racconto:
Maria, sua Madre, essendo concessa in matrimonio a Giuseppe (mnésteu-theisés), prima ch'essi fossero stati insieme, fu trovata avere nel ventre (en gastri) da (ek) lo Spirito Santo (1, 18: rispettiamo letteralmente le formule complicate del testo greco).
Questo versetto enuncia il problema che si pone a Giuseppe: non il fatto bruto che Maria sia incinta, ma la Causa trascendente di questo fatto fuori dell'ordinario: lo Spirito Santo.
Il versetto successivo descrive così la reazione dell'erede davidico:
Giuseppe, il suo uomo, essendo giusto, non volle denunciarla, ma decise di ripudiarla in segreto (1, 19).
Questo racconto di Matteo è del tutto estraneo al sospetto di Giuseppe. La sua decisione è spiegata col fatto ch'egli era « giusto ». S'egli avesse giudicato la sua sposa colpevole, la giustizia avrebbe richiesto ch'egli applicasse la legge, e questa non conosceva procedure segrete, ma soltanto un libello ufficiale di ripudio (Dt 24, 1).
Come potrebbe Giuseppe esser qualificato come giusto, se nasconde il crimine della sua sposa? osservava già san Girolamo (In Mattbeum 1, PL 26, 24).
Se, sospettando l'adulterio, egli avesse voluto risparmiare Maria, il suo atteggiamento avrebbe dovuto essere caratterizzato con la mansuetudine. Se la sua decisione è messa sul conto della giustizia, lo è in coerenza con l'enunciato del versetto precedente. Ciò che Giuseppe sapeva, secondo Mt 1, 18, è che questo bambino proveniva da Dio soltanto. È a motivo della giustizia ch'egli non vuole appropriarsi d'una posterità sacra che non è sua, né di questa sposa che appartiene a Dio. Egli si ritira con discrezione, evitando di attirare su Maria delle conseguenze incresciose, e lascia il seguito a Dio, autore dell'evento, che farà il resto. Il racconto non precisa ulteriori dettagli, che sono senza importanza per il senso.
LE RAGIONI DI GIUSEPPE IL GIUSTO
La situazione sembra definita dalla legge del Dt 22, 23-25: « Se una giovane vergine è fidanzata a un uomo, e un altro uomo la trova in città e giace con lei, li condurrete fuori tutti e due alla porta di quella città e li lapiderete: moriranno, la giovane perché non ha invocato aiuto nella città, e l'uomo perché ha usato la donna del suo prossimo ». Ma il versetto 25 scusa la giovane, se il fatto è avvenuto in campagna, ove ella non poteva né gridare, né chiamare aiuto (2, 25-27).
Su questa base sono state date tre spiegazioni:
1. Giuseppe è detto « giusto » perché obbedisce alla legge (come Zaccaria e Elisabetta in Le 1, 6). È la tesi fatta prevalere dal Protovangelo di Giacomo 14, 1, ove Giuseppe dice: « Se nascondo il suo peccato mi trovo in contrasto con la legge del Signore; e se la denuncio..., temo che quel che è in lei sia forse da un angelo e che io sia trovato colpevole di consegnare un sangue innocente a una condanna a morte » (Strycker, pp. 126-129). Dal che la sua soluzione d'uri ripudio in segreto. Quest'interpretazione domina l'esegesi a partire da Giustino, Ambrogio, Agostino, Crisostomo ecc. Essa si è evoluta nel senso del « sospetto di Giuseppe ».
2. Per R. PESCH, Ausfuhrungsformel, in Bibl. Zeit. 11 (1967) 91 e per C. SPICQ, in Rev. Bibl. 71 (1964) 206-209, la giustizia di Giuseppe è la sua volontà misericordiosa e la sua moderazione, conformi al Sai 112, 4, che invita ad unire la bontà alla giustizia (cf Sai 37, 21 e Sp 12, 19, Filone ecc.). Ma in tal caso Giuseppe dovrebbe essere qualificato per la sua mansuetudine e non per la sua giustizia; né si comprende più la formula dell'angelo, che tende a vincere uno scrupolo: « Non temere di prendere Maria, tua' sposa » (1, 20).
3. Con Xavier Léon-Dufour (numerosi articoli riportati nella nostra bibliografia) e A. Pelletier (ivi), che aggiunge degli argomenti strettamente grammaticali, bisogna concludere: Giuseppe è giusto, perché non ha voluto appropriarsi d'una discendenza che veniva da Dio e non era dunque sua. Egli è giusto per il rispetto del piano di Dio, che protegge col segreto. Questa soluzione sembra richiesta da Mt 1, 18, che pone con chiarezza in partenza i termini del problema di Giuseppe: Maria incinta a motivo d'un'azione trascendente e misteriosa dello Spirito Santo. Tale è la posizione di Eusebio, Efrem, Teofilatto, Giuseppe agisce per timore di Dio, per non usurpare una posterità che deriva soltanto da Lui e per non prendere una donna che Dio ha preso nella sua orbita sacra (in un senso per nulla sessuale, come indica la redazione di Matteo).
Questa soluzione incontrovertibile è avvalorata nella sua logica dal fatto che, in quell'epoca, la relazione adultera d'una donna interdiceva al marito le relazioni sessuali con lei. Questa concezione rimase in vigore per molto tempo. Nella legislazione del medioevo l'adulterio d'una donna era una specie di impedimento per il marito. E questa norma fu fatta valere per molti nelle autorizzazioni concesse allo sposo (o alla sposa) non colpevole di contrarre un nuovo matrimonio in caso di adulterio della legittima sposa. Tale concezione entrava in gioco nei confronti di Dio, che assumeva la consacrazione delle vergini o il parto verginale di Maria.
Questa terza interpretazione, che guadagna terreno, è ostacolata dalla traduzione liturgica francese, che misconosce le sfumature grammaticali messe in luce da Pelletier.
R. GUNDRY, Matthew, p. 22, riporta diversi testi rabbinici, che mostrano la complessità del sostrato: se l'accordo di matrimonio secondo la legislazione ebraica era molto più d'un fidanzamento e faceva dell'uomo un vedovo in caso di morte della donna (p. 21), dall'altro lato la giurisprudenza tendeva a scartare la lapidazione (Strack-Billerbeck 1, 50-53), qualora non si fosse identificato un maschio colpevole. Secondo Gundry (p. 22), Giuseppe temeva di « violare la giustizia prendendo Maria in moglie, dal momento che ella era incinta per causa divina ». Mt 1, 18 non è una « semplice informazione anticipata per il lettore », ma manifesta i termini del problema di Giuseppe: i dati su cui la sua giustizia ha ragionato. Di qui la formula con cui l'angelo elimina il suo scrupolo: « Non temere... » (1, 20). Mt 1, 16-20 presenta contemporaneamente Maria come fidanzata (1, 18) e come sposa (1, 20-24). E Giuseppe è chiamato suo sposo in 1, 16: due formule (sposa = donna con possessivo, sposo) evitate dalla delicatezza di Lc 2, 7.
ll mandato di Giuseppe
È in risposta a questo progetto che l'angelo del Signore gli appare in sogno. Secondo il gioco delle particelle greche (gar... de), messo bene in luce da A. Pelletier (Pelletier presenta due serie di esempi: 1° Quelli in cui si trova la formula completa: men gar... de, per introdurre successivamente una obiezione e poi l'affermazione contraria. - Rom 2, 25: « Benché (men gar) la circoncisione sia utile, qualora tu pratichi la legge, se al contrario (de) trasgredisci la legge, la tua circoncisione diventa incirconcisione. — Rom 5, 16: « Benché (men gar) il peccato di uno solo conduca al giudizio, il dono invece (de) conduce alla giustizia per un gran numero di peccati ». - 1 Cor 5, 3: « Io, sebbene (men gar) assente col corpo, essendo tuttavia ben (de) presente con lo spirito, ho giudicato come fossi presente ». Si veda inoltre 1 Cor 11, 7; 2 Cor 9, 1-3. in cui manca il de; Ebr 7, 18-19; At 13, 36-37; At 4, 16-17 dove il de è sostituito con alla. 2° Le citazioni dal Vangelo: in esse il men iniziale è omesso, il che da alla formula un tono più didattico, più insinuante. - Mt 22, 14: «Benché (gar) vi siano molti chiamati, poco numerosi (de) sono gli eletti ». - Gv 20, 17: « Benché (gar) io non sia ancora risalito verso il Padre, va' tuttavia (de) a dire ai miei fratelli che io salgo verso il Padre mio »; cf Mt 18, 7 (con plén invece del de) e Mt 24, 6 con atta. L'elemento comune di questa dialettica (quella di Mt 1, 20-21) è che l'articolazione del ragionamento si fonda sul gar seguito dal de, per eliminare una obiezione desunta da un fatto incontestabile. Pelletier traduce prudentemente: CERTO, MA, oppure: «PER QUANTO ciò possa essere, non è meno vero che». A noi sembra più chiaro e conforme al senso di queste espressioni tradurre con benché l'obiezione che viene eliminata, e sottolineare enfaticamente l'affermazione mantenuta con vigore. bisogna tradurre: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere in casa Maria, tua sposa, perché, quantunque ciò che è stato generato in lei venga dallo Spirito Santo, sarai tu a chiamare il Figlio ch'ella genererà col nome di Gesù, perché egli salverà il popolo dai suoi peccati (1, 20-21).
Fin dalle prime parole Giuseppe è qualificato come figlio di Davide, appellativo essenziale secondo il programma narrativo stabilito all'inizio. Il programma davidico, spezzato dalla rottura genealogica di Mt 1, 16, è ristabilito dalla missione affidata a Giuseppe: benché egli non sia generante (1, 16) e la generazione sia d'origine divina (dallo Spirito Santo: 1, 18.20), sarà lui a svolgere il ruolo di padre. Egli « PRENDERÀ in casa » Maria, sua sposa (1, 20.24) e prenderà il bambino come figlio adottivo (2, 13.14.20.21). Farà atto di padre imponendogli il nome di Gesù, un nome ricco di senso, poiché significa Salvatore ( 1, 21 ). Il nome aveva allora un'importanza essenziale, cumulante l'essere, il significato e la potenza. Dio affida dunque qui a Giuseppe un ruolo decisivo.
Matteo risolve così un problema sconosciuto alla tradizione ebraica, che non s'aspettava una concezione verginale, e ne trova la giustificazione nella profezia d'Is 7, 14:
Tutto ciò avvenne' affinchè si adempisse quanto era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco che la Vergine avrà nel suo ventre e partorirà un figlio, e sarà chiamato col nome di Emmanuele, che significa: Dio con noi (1, 23).
Fino ad allora questa profezia non era stata compresa in questo senso. Secondo il testo ebraico si trattava di una ragazza, non necessariamente d'una vergine, ed era lei a imporre il nome al bambino. Matteo, traducendo vergine (parthenos), segue forse la traduzione dei LXX. Ma nei LXX è Acaz l'invitato a imporre il nome: Tu lo chiamerai. Ciò non serviva allo scopo di Matteo, così come non serviva il testo ebraico seguito da Lc 1, 31. Acaz ha poca importanza, è a Giuseppe che, nella prospettiva di Matteo spetta di dare il nome. Egli traduce dunque in modo vago « sarà chiamato » (senza precisare chi chiama) e attualizza la profezia in funzione dell'evento inatteso ch'è la concezione verginale.
Pelletier presenta due serie di esempi: 1° Quelli in cui si trova la formula completa: men gar... de, per introdurre successivamente una obiezione e poi l'affermazione contraria. - Rom 2, 25: « Benché (men gar) la circoncisione sia utile, qualora tu pratichi la legge, se al contrario (de) trasgredisci la legge, la tua circoncisione diventa incirconcisione. — Rom 5, 16: « Benché (men gar) il peccato di uno solo conduca al giudizio, il dono invece (de) conduce alla giustizia per un gran numero di peccati ». - 1 Cor 5, 3: « Io, sebbene (men gar) assente col corpo, essendo tuttavia ben (de) presente con lo spirito, ho giudicato come fossi presente ». Si veda inoltre 1 Cor 11, 7; 2 Cor 9, 1-3. in cui manca il de; Ebr 7, 18-19; At 13, 36-37; At 4, 16-17 dove il de è sostituito con alla. 2° Le citazioni dal Vangelo: in esse il men iniziale è omesso, il che da alla formula un tono più didattico, più insinuante. - Mt 22, 14: «Benché (gar) vi siano molti chiamati, poco numerosi (de) sono gli eletti ». - Gv 20, 17: « Benché (gar) io non sia ancora risalito verso il Padre, va' tuttavia (de) a dire ai miei fratelli che io salgo verso il Padre mio »; cf Mt 18, 7 (con plén invece del de) e Mt 24, 6 con atta. L'elemento comune di questa dialettica (quella di Mt 1, 20-21) è che l'articolazione del ragionamento si fonda sul gar seguito dal de, per eliminare una obiezione desunta da un fatto incontestabile. Pelletier traduce prudentemente: CERTO, MA, oppure: «PER QUANTO ciò possa essere, non è meno vero che». A noi sembra più chiaro e conforme al senso di queste espressioni tradurre con benché l'obiezione che viene eliminata, e sottolineare enfaticamente l'affermazione mantenuta con vigore. A. PELLETIER, L'annonce a Joseph, in Recherches de Sciences religieuses, 54(1966)67-68.
L'esecuzione (Mt. 1,24-25)
Il versetto 24 racconta l'esecuzione dell'ordine divino, che qualifica Gesù come Messia e figlio di Davide:
Svegliatosi dal sonno, Giuseppe fece come l'angelo del Signore gli aveva ordinato: prese la sua sposa e non la conobbe fino a che ella partorì un figlio, e gli diede il nome di Gesù.
Il termine egertheis (da egeiró: svegliarsi), che indica anche la risurrezione (Mt 27, 52.63.64 ecc.), ricorre quattro volte al termine di ciascuno dei sogni. Esso tende a sottolineare la lucidità attiva di Giuseppe, che « prende » la sposa, che aveva progettato di « ripudiare in segreto » (1, 19). Questa coabitazione è importante per dare al Messia, oltre a un nome, una casa e una famìglia normalmente stabilite. Però, precisa Matteo, Giuseppe « non la conobbe fino a che ella partorì ». « Fino a che » non pregiudica affatto quel che succederà dopo. Secondo l'uso semitico questa formula segna il termine e il limite d'interesse. Là dove 2 Sam 6,23 dice che Mikal non ebbe figli « fino alla sua morte », è evidente ch'ella non ne ebbe neppure dopo. L'importante, secondo il programma narrativo, sono le ultime parole della pericope, la sua conclusione: è lui, Giuseppe, a imporre il nome di Gesù (1, 25). Questa è la prova qualificante, che lo abilita a esercitare la sua autorità protettrice lungo tutto il capitolo 2.
Tutto il programma narrativo mira dunque a mostrare come Gesù è figlio di Davide, anche se Giuseppe non l'ha generato. Il destinatore ripara questa disgiunzione collegando il Messia a Davide mediante una missione di paternità adottiva. Così viene superata una difficoltà notevole per l'uomo di quei tempi: Gesù giustifica bene il titolo di « figlio di Davide », ritenuto allora essenziale per la sua autenticità messianica
Formalizzazione
Formalizzando in termini semiotici, possiamo dire: il Messia (soggetto virtuale) doveva esser congiunto al re Davide (1, 1.6) per mezzo di «Giuseppe, figlio di Davide» (1, 16.20). La disgiunzione genealogica (Giuseppe non genera Gesù) è riparata da Dio destinatore, che conferisce a Giuseppe una paternità adottiva. Questa disgiunzione paradossale è l'inverso d'una congiunzione trascendente del Messia con Dio, che sarà presto precisata come figliazione divina (2, 15). Questa pericope precisa soltanto che l'origine di Gesù sta unicamente in Dio, nello Spirito Santo (2, 18.20), la qual cosa fa passare la regalità messianica (realizzata sotto il segno della rovina dinastica e della cattività, 1, 7) a un piano trascendente.
Nello stesso tempo Giuseppe, congiunto a Maria dai legami del matrimonio, decide il ripudio (disgiunzione), poiché il bambino appartiene a Dio e non a lui. Su ordine dello stesso Dio egli mantiene la congiunzione del matrimonio, ma senza «conoscerla»: la congiunzione sarà coniugale, ma non sessuale (1, 24). Egli dona così al Messia una famiglia legittima fondata da Dio stesso.
Le tre fasi di Mt 1, 18-25 possono essere formalizzate così: (Davide A Giuseppe A Maria) (Giuseppe v Maria A Gesù) (Giuseppe A Maria A Gesù), il che significa:
1. Giuseppe, congiunto a Davide dalla catena genealogica, è congiunto a1 Maria dall'accordo di matrimonio.
2. Egli progetta il ripudio (disgiunzione) a motivo della concezione di Gesù per opera di Dio soltanto.
3. L'angelo l'invita a prendere Maria in casa come sposa (congiunzione del legame matrimoniale e dell'abitazione, ma senza congiunzione sessuale), unitamente al bambino cui imporrà il nome.
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