Lc 6,12-16
Avvenne che in quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione.
Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d'Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore.
IL COMMENTO
La nostra chiamata sorge dall'aurora di Pasqua. Gesù infatti chiama i Dodici al termine di una lunga notte di preghiera, e li costituisce "apostoli". Apostoli deriva dal greco "apostello", che significa "persone inviate appositamente da un Altro". In ambiente ebraico vi era lo "schaliah", l'inviato, il procuratore nel quale era considerato presente colui che lo inviava; tutto quello che l'inviato faceva era considerato come fatto da colui che lo aveva inviato. Nel Talmud si legge: " Lo schaliah di una persona è un altro se stesso".
Gesù è l'Apostolo del Padre, l'incarnazione viva e reale, qui ed oggi, dell'amore infinito di Dio. Gesù è uscito dal segreto del Padre per entrare nella notte dei nostri peccati e della nostra morte. Nell'agone definitivo ha vinto il nostro egoismo. Il monte dove Gesù è salito a pregare è "il luogo della sua solitudine, in cui si rivolge al Padre. E' l'espressione dell'interiore ascesa al di sopra degli invischiamenti nelle cose di tutti i giorni. La vocazione dei discepoli nasce nel colloquio di Gesù con il Padre. Se vogliamo scoprire la nostra vocazione, accoglierla e portarla a maturazione, dobbiamo scoprire il monte di Gesù: la liberazione dalle cose di tutti i giorni, il contatto con il Dio vivente, dove si ascolta la voce di Gesù" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 89).
Gesù nella preghiera ha ascoltato il grido sofferente dell'umanità. La notte sul monte è stato l'immergersi nella notte che ha inghiottito l'uomo di ogni generazione sopraffatto dall'inganno del demonio. Gesù, come Mosè "dentro [la tenda] rapito in alto mediante la contemplazione, si lascia fuori [della tenda] incalzare dal peso dei sofferenti" (Gregorio Magno, Regola pastorale, SCh 381, 198) sul monte che già prefigurava la Croce, si è lasciato incalzare dal dolore di ogni uomo; il peccato lo ha crocifisso e spinto nella notte della morte dalla quale è però uscito vittorioso nell'alba della risurrezione. La nostra chiamata nasce da questo mistero d'amore. I nostri nomi sono risuonati nel cuore di Cristo accanto alle grida di dolore dell'umanità. Per questo il Signore ci ha raggiunti e amati così, schiavi di essere sempre e solo apostoli di noi stessi. Nella nostra notte, quella che forse stiamo vivendo ora, la Sua preghiera ci ha liberati e all'alba della risurrezione ci ha chiamati ad essere Lui per questa generazione. Famiglia, lavoro, studio, gioie e dolori, ogni momento è uno sguardo d'amore di Cristo impresso nel nostro stesso sguardo, la Sua vittoria che scaturisce dalla nostra vita per la salvezza del mondo. Il nostro nome nel Suo Nome. Noi in Lui. Apostoli di Cristo, figli del suo amore. Il nostro nome chiamato è segno di una vita consegnata al dolore dell'umanità. Tutto di noi è a servizio di questa generazione; nulla della nostra esistenza è estraneo al dolore e ai bisogni di chi ci è posto accanto, di coloro ai quali siamo inviati. Nel nostro nome risuona la voce di Gesù, e con essa ci incalza il peso dei sofferenti. Dietro ogni evento della nostra vita si nascondono i volti dei poveri, dei peccatori, degli schiavi. A loro siamo inviati, ogni istante, in ogni luogo.
Ciascuno di noi, misteriosamente, annuncia la risposta di Dio al grido di dolore del mondo, perchè la risposta è stata, è e sarà Cristo morto e risorto. In Lui non solo annunciamo, ma siamo noi stessi la risposta. Dirà Gesù di fronte alla fame delle folle: "Dategli voi stessi da mangiare". La risposta alla fame è tutta in quel "voi stessi". La sua Parola chiama all'esistenza moltiplica e distribuisce; la sua chiamata ci ha tratti dalla morte alla vita, ha dato senso e pienezza alla nostra esistenza, ne ha fatto un dono per l'umanità. Possiamo dare noi stessi da mangiare perchè Lui è in noi e noi ormai siamo Lui. Siamo dunque la risposta d'amore di Dio al dolore e alla fame del mondo. Per questo è necessario che Dio parli lo stesso linguaggio dell'uomo, di quello concreto a cui siamo inviati. Ciò significa che, per essere una risposta autentica, credibile e comprensibile Dio ci conduce nella medesima vita, nelle medesime sofferenze dell'umanità. L'apostolo è la voce stessa di Dio, ed è sintonizzata sul dolore; ciò significa che lo condivide, che lo sperimenta, nel matrimonio, nel lavoro, nella salute, come ogni altro uomo. E' questo il cammino dell'incarnazione, che depone un seme di vita eterna nella carne soggetta alla corruzione. Per essere la risposta di Dio occorre dunque parlare la stessa lingua di chi soffre: ammalarsi, essere traditi, abbandonati, sperimentare la solitudine e l'ingiustizia, perchè in tutto brilli la speranza dell'amore che ha vinto il peccato e la morte.
Non siamo apostoli per la nostra volontà, per un desiderio, per quanto nobile sia. E' Gesù che costituì, che fece i Dodici. E' opera sua. come la nostra stessa vita è una sua opera che scaturisce dalla sua intimità con il Padre. Mette i brividi pensare al grande mistero della profonda intimità con Gesù alla quale e per la quale siamo stati chiamati. Essa giunge al punto di far di noi degli alter Christus, degli altri Cristo, condividendo con Lui vita e missione. Gesù è sceso in missione sulla terra uscendo dall'intimità con il Padre per cercare e salvare la pecora perduta. Si è consumato nell'amore che lo ha gettato all'ultimo posto, il posto più lontano dal Padre, scavalcando in una corsa a ritroso, il peccatore più grande della storia. L'ultimo posto di Gesù perchè nessuno resti escluso dalla salvezza. Nell'ultimo posto di Gesù il nostro ultimo posto, quello dell'apostolo, quello che ci è riservato ogni giorno. E' esattamente dove i fatti della nostra vita ci conducono che siamo inviati in missione. E' nella difficoltà sul lavoro, in famiglia, dove e con chi sia che siamo mandati ad essere Cristo stesso, a portare la salvezza, a caricarsi dei peccati del mondo, o meglio a lasciare che Cristo li carichi sulle sue spalle che ha preso in prestito da noi. E' questa la missione, la chiamata che ci ha raggiunti, l'amore che consuma il male consumando la nostra vita, perchè il mondo riceva la vita, quella vera che ci è data e che sovrabbonda in noi.
"Dodici è il numero delle tribù di Israele, ma è anche il numero delle costellazioni che scandiscono il ritmo dell'anno. Questo nuovo popolo è così votato alla conformità tra cielo e terra: sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra. Il cammino che qui si intraprende, decide per il cielo e per la terra e li rende conformi. I dodici, che qui sono stati chiamati, diventano per così dire le nuove costellazioni della storia, che ci indicano il cammino attraverso i secoli" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 91) . Così, se la Chiesa, la comunità della quale siamo parte è la costellazione della storia che indica la salvezza e la via a Dio, la nostra esistenza è una stella, che si consuma brillando, luce purissima che brucia peccati e debolezze, il fuoco dell'amore infinito di Dio riversato in noi perchè tutto di noi sia un segno sicuro e autentico del Cielo.
Evangelio según San Lucas 6,12-19.
En esos días, Jesús se retiró a una montaña para orar, y pasó toda la noche en oración con Dios.
Cuando se hizo de día, llamó a sus discípulos y eligió a doce de ellos, a los que dio el nombre de Apóstoles:
Simón, a quien puso el sobrenombre de Pedro, Andrés, su hermano, Santiago, Juan, Felipe, Bartolomé,
Mateo, Tomás, Santiago, hijo de Alfeo, Simón, llamado el Zelote,
Judas, hijo de Santiago, y Judas Iscariote, que fue el traidor.
Al bajar con ellos se detuvo en una llanura. Estaban allí muchos de sus discípulos y una gran muchedumbre que había llegado de toda la Judea, de Jerusalén y de la región costera de Tiro y Sidón,
para escucharlo y hacerse curar de sus enfermedades. Los que estaban atormentados por espíritus impuros quedaban curados;
y toda la gente quería tocarlo, porque salía de él una fuerza que sanaba a todos.
COMENTARIO
Nuestra llamada surge de la aurora de Pascua. Jesús llama los Doce al final de una larga noche de oracion, y los constituye "apóstoles." Apóstoles deriva del griego "apostello", que significa personas mandadas de propósito por "Otro." En ambiente hebreo habia el "schaliah", el enviado, el procurador en el qual era considerado presente el que lo ha mandado; todo lo que el enviado hacia era considerado como hecho por el que lo habia enviado. Los shaliah señalaban a “quienes eran enviados desde la ciudad madre por los gobernantes en alguna misión al extranjero, especialmente aquellos que estaban encargados de recoger los tributos que se pagaban para el servicio del templo” (Lightfoot, "Galatians", London, 1896, p. 93). En el Talmud se lee: "El schaliah de una persona es otro si mismo."
Jesús es el apóstol del Padre, la encarnación aquí y hoy, viva y real, del amor infinito de Dios. Jesús ha salido del secreto del Padre para entrar en la noche de nuestros pecados y de nuestra muerte. En el certamen definitivo ha vencido nuestro egoísmo. El monte dónde Jesús ha subido a rezar es "el lugar de su soledad, donde se dirige al Padre. Es la expresión de la interior ascensión por encima de los enrollamientos en las cosas de todos los días. La vocación de los discípulos nace en el coloquio de Jesús con el Padre. Si queremos descubrir nuestra vocación, acogerla y llevarla a maduración, tenemos que descubrir el monte de Jesús: la liberación de las cosas de todos los días, el contacto con el Dios viviente, dónde se escucha la voz de Jesús" (J. Ratzinger, Servitori della vostra gioia, p. 89).
Jesús en su oracion ha escuchado el grito doliente de la humanidad. La noche sobre el monte ha sido para el Señor el hundirse en la noche que ha tragado
el hombre de cada generación arrollada por el engaño del demonio. Moisés "dentro [del tabernáculo] secuestrado para arriba a través de la contemplación, se deja fuera [del tabernáculo] apremiado por el peso de los afligidos" (Gregorio Magno, Regla pastoral, SCh 381,198); Jesus, como Moisés, sobre el monte que prefiguraba ya la Cruz, se ha dejado apremiar del dolor de cada hombre; el pecado lo ha crucificado y empujad en la noche de la muerte de la qual pero ha salido victorioso en el alba de la resurrección. Nuestra llamada nace de este misterio de amor. Nuestros nombres son repicado en el corazón de Cristo junto a los gritos de dolor de la humanidad. Por eso el Señor nos ha alcanzado y queridos así como somos, esclavos de ser siempre y sólo apóstoles de nosotros mismos. En nuestra noche, la que quizás ahora estamos viviendo, Su oracion nos ha liberado y al alba de la resurrección nos ha llamado a ser Él mismo por esta generación. Familia, trabajo, estudio, alegrías y dolores, cada momento es una mirada de amor de Cristo imprimida en nuestra misma mirada, Su victoria que mana de nuestra vida por la salvación del mundo.
Nuestro nombre en Su Nombre. Nosotros en Él. Apóstoles de Cristo, hijos de su amor. Nuestro nombre llamado es la señal de una vida remitida, consignada al dolor de la humanidad. Todo de nosotros es a servicio de esta generación; nada de nuestra existencia es extraño al dolor y a las necesidades de quien nos es puesto al lado, de aquellos a quien somos enviados. En nuestro nombre repica la voz de Jesús, y con ella nos apremia el peso de los afligidos. Detras de cada acontecimiento de nuestra vida se esconden los rostros de los pobres, de los pecadores, de los esclavos. A ellos somos enviados, cada instante, en cada lugar.
Cada uno de nosotros, misteriosamente, anuncia la respuesta de Dios al grito de dolor del mundo, porque la respuesta ha sido, es y será Cristo muerto y resucitado. En Él no sólo anunciamos, si no que somos nosotros mismos la respuesta. Dirá Jesús frente al hambre de las muchedumbres : Dadle vosotros mismos de "comer." La respuesta al hambre està toda en aquel "vosotros mismos." Su Palabra llama a la existencia, multiplica y distribuye; su llamada nos ha llamado de la muerte a la vida, ha dado sentido y plenitud a nuestra existencia, ha hecho de ella un don para la humanidad. Podemos emntonces dar nosotros mismos que comer, porque Él ya está en nosotros y nosotros somos Él. Somos la respuesta de amor de Dios al dolor y al hambre del mundo. Por ésto es necesario que Dios hable el mismo lenguaje del hombre, de aquel hombre concreto al que somos enviados. Eso significa que, para ser una respuesta auténtica, creíble y comprensible Dios nos conduce en la misma vida, en los mismos sufrimientos de la humanidad. El apóstol es la voz misma de Dios, y està sintonizada sobre el dolor; eso significa que lo comparte, que lo experimenta, en el matrimonio, en el trabajo, en la salud, exactamente como cada otro hombre. Es esto el camino de la encarnación, que depone una semilla de vida eterna en la carne sometida a la corrupción. Para ser la respuesta de Dios hace falta hablar el mismo idioma de quien sufre: enfermarse, ser traicionados, abandonados, experimentar la soledad y la injusticia, porque en todo resplandezca la esperanza del amor que ha vencido el pecado y la muerte.
No somos enviados por nuestra voluntad, por un deseo, para cuanto noble sea. Es Jesús que constituyó, que hizo los Doce. Es su obra, como la nuestra misma vida es una obra suya que mana de su intimidad con el Padre. Pone los escalofríos pensar en el gran misterio de la profunda intimidad con Jesús al que y por el que hemos sido llamados. Ella llega al punto de hacernos alter Christus, otros Cristo, compartiendo con Él vida y misión. Jesús ha bajado en misión sobre la tierra saliendo de la intimidad con el Padre para buscar y salvar la oveja perdida. El Señor ha sido consumido en el amor que lo ha echado al último sitio, el sitio más lejos del Padre, superando en una carrera a reacio, el pecador más grande de la historia. El último sitio de Jesús, porque ninguno quede excluido de la salvación. En el último sitio de Jesús nuestro último sitio, aquel del apóstol, lo que nos es reservado cada día. Es exactamente dónde los hechos de nuestra vida nos conducen que somos enviados en misión. Es en las dificultades en el trabajo, en familia, dónde y con quien sea, que somos enviados a ser Cristo mismo, a llevar la salvación, a cargarnos los pecados del mundo, o mejor dicho, a dejar que Cristo los cargues sobre sus hombros que ha tomado en préstamo de nosotros. Es esta la misión, la llamada que nos ha alcanzado, el amor que consuma el mal consumiendo nuestra vida, porque el mundo reciba la vida, aquella verdadera que nos es dada y que rebosa en nosotros.
"Doce es el número de las tribus de Israel, pero también es el número de las constelaciones que recalcan el ritmo del año. Este nuevo pueblo es asì votado a la conformidad entre cielo y tierra: se haga tu voluntad en Cielo como en tierra. El camino que se emprende aquí, decide por el cielo y por la tierra y ellos lo hace conforme. Los doce, que han sido llamados, se vuelven, por decir así, las nuevas constelaciones de la historia, que nos indican el camino por los siglos." Así, si la Iglesia y la comunidad de las quales somos parte, son la constelación de la historia que indica la salvación y la via a Dios, nuestra existencia es una estrella de la misma constelacion, que se consuma brillando, luz refina que quema pecados y debilidades, el fuego del amor infinito de Dios derramado en nosotros, porque todo de nosotros sea una señal segura y auténtica del Cielo.
Papa Benedetto XVI
Udienza Generale, 11 ottobre 2006 - © Libreria Editrice VaticanaL'unità dei Dodici, l'unità della Chiesa
Prendiamo in considerazione due dei dodici Apostoli: Simone il Cananeo e Giuda Taddeo (da non confondere con Giuda Iscariota). non solo perché nelle liste dei Dodici sono sempre riportati l'uno accanto all'altro (cfr Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13), ma anche perché le notizie che li riguardano non sono molte, a parte il fatto che il Canone neotestamentario conserva una lettera attribuita a Giuda Taddeo.
Simone riceve un epiteto che varia nelle quattro liste: mentre Matteo e Marco lo qualificano «cananeo», Luca invece lo definisce «zelota». In realtà, le due qualifiche si equivalgono, poiché significano la stessa cosa: nella lingua ebraica, infatti, il verbo qanà' significa «essere geloso, appassionato»... E' ben possibile, dunque, che questo Simone, se non appartenne propriamente al movimento nazionalista degli Zeloti, fosse almeno caratterizzato da un ardente zelo per l'identità giudaica, quindi per Dio, per il suo popolo e per la Legge divina. Se le cose stanno così, Simone si pone agli antipodi di Matteo, che al contrario, in quanto pubblicano, proveniva da un'attività considerata del tutto impura. Segno evidente che Gesù chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione. A Lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette!
E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità. Teniamo anche presente che il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, nella quale devono avere spazio tutti i carismi, i popoli, le razze, tutte le qualità umane, che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù.
Il Papa, parlando di San Giuda Taddeo, ha ricordato la sua forte esortazione ai cristiani del tempo perché non si lasciassero ingannare da quelli che, giustificando con la fede la dissolutezza dei propri comportamenti, proponevano insegnamenti inaccettabili. Il Santo usa un linguaggio polemico cui non siamo forse più abituati – nota Benedetto XVI – ma che tuttavia ci dice una cosa importante: in mezzo alle tante correnti di pensiero dell’epoca moderna “dobbiamo conservare l’identità della nostra fede”:
“Certo, la via dell'indulgenza e del dialogo, che il Concilio Vaticano II ha felicemente intrapreso, va sicuramente proseguita con ferma costanza. Ma questa via del dialogo, così necessaria, non deve far dimenticare il dovere di ripensare e di evidenziare sempre con altrettanta forza le linee maestre e irrinunciabili della nostra identità cristiana. D'altra parte, occorre avere ben presente che questa nostra identità richiede forza, chiarezza e coraggio davanti alle contraddizioni del mondo in cui viviamo”.
Di Simone, detto lo zelota o il cananeo, il Papa ha ricordato l’ardente zelo per l’identità giudaica e la Legge divina; una personalità, dunque, agli antipodi di Matteo, considerato, in quanto esattore delle tasse, un pubblico peccatore. Gesù – ha osservato il Pontefice - “chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione”:
“A Lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette! E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità. Teniamo anche presente che il gruppo dei Dodici è la prefigurazione della Chiesa, nella quale devono avere spazio tutti i carismi, i popoli, le razze, tutte le qualità umane, che trovano la loro composizione e la loro unità nella comunione con Gesù”.
Il Papa ha auspicato, infine, che attraverso Simone il Cananeo e Giuda Taddeo possiamo riscoprire sempre di più “la bellezza della fede cristiana, sapendone dare testimonianza forte e insieme serena”
Papa Benedicto XVI
Audiencia general del 11/10/2006La unidad de los Doce, unidad de la Iglesia
A los apóstoles Simón, el Cananeo, y Judas (Tadeo) –que no debemos confundir con Judas Iscariote- los consideramos juntos no tan sólo porque en la lista de los Doce se citan siempre uno detrás del otro (cf Mt 10,4; Mc 3,18; Lc 6,15; Hch 1,13) sino también porque los detalles que nos han llegado de ellos son muy pocos, a parte del hecho que en el Nuevo Testamento se conserva una carta atribuida a Judas.
Simón recibe un epíteto variable según las cuatro listas; así, mientras Mateo y Marco lo llaman «el cananeo», Lucas lo llama «celotes». En realidad los dos calificativos son equivalentes porque tienen el mismo significado. En efecto, en hebreo el verbo «kana» quiere decir «ser celoso, apasionado»... Es, pues, muy posible que ese Simón, si no pertenecía propiamente al movimiento nacionalista de los celotes, por lo menos se haya caracterizado por un ardiente celo por la identidad judía, así pues, también por Dios, por su pueblo y por la ley divina. Si esto es así, Simón queda situado en las antípodas de Mateo, el cual, por el contrario y en tanto que publicano, ejercía una actividad considerada como del todo impura. Ello es un signo evidente de que Jesús llama como discípuos y colaboradores suyos a personas de las clases sociales y religiosas más diversas si ninguna clase de prejuicios. ¡Lo que le interesa son las personas y no las categorías sociales o las etiquetas!
Y lo bueno es que, en el grupo de sus discípulos, a pesar de ser tan diferentes, todos coexistían y superaban todas las dificultades imaginables; en efecto, era él mismo Jesús la razón de su cohesión y quien hacia que todos se encontraran unidos. Esto contituye una clara lección para nosotros, a menudo inclinados a subrayar las diferencias, y posiblemente las oposiciones, olvidando que, en Cristo Jesús, se nos da la fuerza para resolver nuestros conflictos. En nuestro interior no olvidemos que el grupo de los Doce es la prefiguración de la Iglesia en la que deben encontrar su lugar, todos los carismas, todos los pùeblos y razas y todas las cualidades humanas, su identidad y su unidad en la comunión con Jesús.
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