Hai avuto in me il donatore, rendimi presto debitore...
Mi dai poco, renderò di più.
Mi dài beni terreni, te ne renderò di celesti.
Mi dài beni temporali, ti renderò beni eterni.
A te renderò te stesso quando avrò restituito te a me.
Sant'Agostino
Vangelo Mt 6, 19-23
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignuòla e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignuòla né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!».
Il Commento
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignuòla e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignuòla né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore.
La lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!».
Il Commento
Lo sguardo scruta ciò che il cuore suggerisce. Sempre. Gli occhi cercano il tesoro del cuore. Senza posa, affannati, guardiamo, fissiamo, sogniamo. Un tesoro luminoso accende lo sguardo di pace e di letizia. Inconfondibile è lo sguardo di chi vive in Dio. Trasfigurato. Reca le tracce splendenti del Cielo. Gli occhi innamorati di Cristo ne riflettono la mitezza. Ed ogni mossa, ogni parola, ogni passo parlano di Lui. E oggi, noi, dove abbiamo il nostro tesoro? Da che cosa è attirato il nostro sguardo? Per chi palpita il nostro cuore? Per chi o per che cosa stiamo accumulando? Gli sforzi, il lavoro, gli affetti. Se non sono per il Cielo, sono irrimediabilmente per la terra. Per la corruzione.
Chi vive per se stesso, solo per questa vita, è già roso dai vermi, le cose, gli amori, sfuggono e i ladri sono già alla porta pronti a scassinare. E lo sguardo, come quello di Caino, si fa torvo: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dòminalo" (Gen. 4,4). Caino in ebraico deriva dalla radice "qanah" che significa "comperare", "guadagnare". E' immagine del doloroso frutto del peccato di superbia, che sovverte l'ordine pensato da Dio: al posto della totale gratuità, la vita si trasforma in uno sforzo doloroso per acquisire il sostentamento. "Caino è il prototipo dell'uomo attaccato alle cose di questo mondo, che investe il meglio del suo tempo e dei suoi talenti per realizzare se stesso esclusivamente attraverso il successo materiale. Tutto il suo successo diviene però la sua sconfitta. Così Caino sarà errabondo senza sosta e non troverà alcuna vera soddisfazione perchè: Chi ama il denaro, non ne sarà mai soddisfatto (Qo 5,9)" (D. Lifschitz, Caino e Abele). Caino accumula tesori in terra, per Dio riserva la parte meno pregiata. Avarizia con Dio che si traduce in ruggine, tignola e furti: la corruzione di ogni cosa. Avarizia di chi si è sentito defraudato, di chi pensa male di Dio; Caino è immagine di tutti noi che abbiamo perduto il Paradiso, il Cielo dell'intimità con Dio. Nudi, ci ritroviamo con un rancore sordo nei confronti di Dio, oppressi dalla fatica quotidiana che si traduce in un egoismo che ci fa soli, attaccati alle cose della terra, e quindi pieni di invidia, perchè “Nulla mi basta che sia meno di Te” (S. Agostino). E accanto all'invidia sorge la concupiscenza: “Poi la concupiscenza, quando ha concepito, partorisce il peccato; e il peccato, quando è compiuto, produce la morte” (Gc. 1,15). E' la parabola di Caino, quella sperimentata da noi mille volte.
La concupiscenza si manifesta nello sguardo fisso sulla terra, il volto abbattuto di chi è internamente consumato dalla ruggine e dalla tignola. E le parole, e gli atti si impregnano di sfiducia, di rancori, di tristezza irrancidita: «E' malvagio l'uomo dall'occhio invidioso; volge altrove lo sguardo e disprezza la vita altrui. L'occhio dell'avaro non si accontenta di una parte, l'insana cupidigia inaridisce l'anima sua. Un occhio cattivo è invidioso anche del pane e sulla sua tavola esso manca» (Sir 14,8-10). Accumulare tesori in terra è l'approccio alla vita dell'avaro, e un avaro è sempre un misero, schiavo della propria indigenza, incapace di aprirla alla mendicanza. Chi accumula tesori in terra ha smesso di guardare al Cielo e chiede stoltamente alla terra quello che solo il Cielo può dare: "Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo" (Os. 11,6). Due fidanzati, come due sposi che si fissano negli occhi senza cercare un più in là al di fuori di se stessi nel quale posare, insieme, lo sguardo, sono destinati ad esaurirsi l'uno nell'altro, condannati a vedere arrugginirsi il loro amore, rubare i loro sentimenti. Dietro ogni rapporto esclusivo, che tende ad appropriarsi dell'altro e a ripiegarsi sulla propria soddisfazione vi è sempre un'invidia inconfessata, un bisogno inappagato. L'invidia genera immancabilmente la concupiscenza, e questa è l'arma che uccide ogni rapporto.
"La concupiscenza della carne e, insieme ad essa, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, è «nel mondo» e al tempo stesso «viene dal mondo»... Nella triplice concupiscenza fruttifica la rottura della prima alleanza con il Creatore. Questa alleanza fu rotta nel cuore dell'uomo... Solo come conseguenza del peccato, come frutto della rottura dell'alleanza con Dio nel cuore umano - nell'intimo dell'uomo - il «mondo» del libro della Genesi è divenuto il «mondo» delle parole giovannee: luogo e sorgente di concupiscenza... L'uomo che coglie il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male fa, al tempo stesso, una scelta fondamentale e la attua contro il volere del Creatore, Dio Jahvè, accettando la motivazione suggeritagli dal tentatore: Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male. In questa motivazione si racchiude chiaramente la messa in dubbio del Dono e dell'Amore, da cui trae origine la creazione come donazione... l'uomo volta le spalle al Dio-Amore, al «Padre». In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Contemporaneamente, quindi, distacca il suo cuore e quasi lo recide da ciò che «viene dal Padre»: così, resta in lui ciò che «viene dal mondo». «Allora si aprirono gli occhi di tutte e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,6). Non suggerisce forse anche questa frase l'inizio della «concupiscenza» nel cuore dell'uomo? Mentre Genesi 2,25 sottolinea che «erano nudi... ma non ne provavano vergogna», Genesi 3,6 parla esplicitamente della nascita della vergogna in connessione col peccato. Quella vergogna è quasi la prima sorgente del manifestarsi nell'uomo - in entrambi, uomo e donna - di ciò che «non viene dal Padre, ma dal mondo»" (Giovanni Paolo II, Udienza generale, 30 aprile 1980). Quante relazioni accumulate come tesori per questa terra: prive dell'apertura al Cielo, schiave dell'invidia. Quanti occhi malati, inzuppati nella concupiscenza, aperti sulla propria debolezza e nudità; quanti corpi tenebrosi, vestiti stracciati, e piercing, e tatuaggi, e confusione mortale. Quanta vergogna, e quanta fatica per nasconderla e mostrarsi forti, liberi, felici. Mentre la luce che sprigiona è solo tenebra angosciante.
La concupiscenza si manifesta nello sguardo fisso sulla terra, il volto abbattuto di chi è internamente consumato dalla ruggine e dalla tignola. E le parole, e gli atti si impregnano di sfiducia, di rancori, di tristezza irrancidita: «E' malvagio l'uomo dall'occhio invidioso; volge altrove lo sguardo e disprezza la vita altrui. L'occhio dell'avaro non si accontenta di una parte, l'insana cupidigia inaridisce l'anima sua. Un occhio cattivo è invidioso anche del pane e sulla sua tavola esso manca» (Sir 14,8-10). Accumulare tesori in terra è l'approccio alla vita dell'avaro, e un avaro è sempre un misero, schiavo della propria indigenza, incapace di aprirla alla mendicanza. Chi accumula tesori in terra ha smesso di guardare al Cielo e chiede stoltamente alla terra quello che solo il Cielo può dare: "Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo" (Os. 11,6). Due fidanzati, come due sposi che si fissano negli occhi senza cercare un più in là al di fuori di se stessi nel quale posare, insieme, lo sguardo, sono destinati ad esaurirsi l'uno nell'altro, condannati a vedere arrugginirsi il loro amore, rubare i loro sentimenti. Dietro ogni rapporto esclusivo, che tende ad appropriarsi dell'altro e a ripiegarsi sulla propria soddisfazione vi è sempre un'invidia inconfessata, un bisogno inappagato. L'invidia genera immancabilmente la concupiscenza, e questa è l'arma che uccide ogni rapporto.
"La concupiscenza della carne e, insieme ad essa, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, è «nel mondo» e al tempo stesso «viene dal mondo»... Nella triplice concupiscenza fruttifica la rottura della prima alleanza con il Creatore. Questa alleanza fu rotta nel cuore dell'uomo... Solo come conseguenza del peccato, come frutto della rottura dell'alleanza con Dio nel cuore umano - nell'intimo dell'uomo - il «mondo» del libro della Genesi è divenuto il «mondo» delle parole giovannee: luogo e sorgente di concupiscenza... L'uomo che coglie il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male fa, al tempo stesso, una scelta fondamentale e la attua contro il volere del Creatore, Dio Jahvè, accettando la motivazione suggeritagli dal tentatore: Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male. In questa motivazione si racchiude chiaramente la messa in dubbio del Dono e dell'Amore, da cui trae origine la creazione come donazione... l'uomo volta le spalle al Dio-Amore, al «Padre». In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Contemporaneamente, quindi, distacca il suo cuore e quasi lo recide da ciò che «viene dal Padre»: così, resta in lui ciò che «viene dal mondo». «Allora si aprirono gli occhi di tutte e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gen 3,6). Non suggerisce forse anche questa frase l'inizio della «concupiscenza» nel cuore dell'uomo? Mentre Genesi 2,25 sottolinea che «erano nudi... ma non ne provavano vergogna», Genesi 3,6 parla esplicitamente della nascita della vergogna in connessione col peccato. Quella vergogna è quasi la prima sorgente del manifestarsi nell'uomo - in entrambi, uomo e donna - di ciò che «non viene dal Padre, ma dal mondo»" (Giovanni Paolo II, Udienza generale, 30 aprile 1980). Quante relazioni accumulate come tesori per questa terra: prive dell'apertura al Cielo, schiave dell'invidia. Quanti occhi malati, inzuppati nella concupiscenza, aperti sulla propria debolezza e nudità; quanti corpi tenebrosi, vestiti stracciati, e piercing, e tatuaggi, e confusione mortale. Quanta vergogna, e quanta fatica per nasconderla e mostrarsi forti, liberi, felici. Mentre la luce che sprigiona è solo tenebra angosciante.
Ma i nostri occhi sono fatti per Lui, sono rivolti a Lui e si "consumano nell'attesa del nostro Dio" (Sal. 69,4). Sazi del disprezzo e dell'inconsistenza dei beni di questo mondo, al colmo della tristezza per la dura tirannia della concupiscenza, leviamo gli occhi al Signore finchè abbia pietà di noi (cfr. Sal. 123). Possiamo abbandonarci all'amore di Dio solo se abbiamo sperimentato davvero la sazietà, la nausea della troppa menzogna che avvelena i rapporti fondati sulla sabbia della carne. «L’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo dell’uomo» (L. Giussani, «Dio e l’esistenza», in L’uomo e il suo destino). La delusione di vedere arrugginirsi le speranze e sottratte le gioie, sospinge gli occhi a cercare la verità, l'autenticità, ciò che non passa.
"Nel rapporto di conoscenza, ma soprattutto nel rapporto affettivo - che è la conoscenza più impressionante, da un certo punto di vista -, nel rapporto con la realtà il punto è che deve essere affermata la realtà non condizionata da te. E quando è affermata la realtà? Quando è amata - bellissimo! -. Quando è affermato il libro che hai di fronte e perciò riesci anche a studiare la pagina che non ti va giù? Quando è amata. Amare non significa sentire un particolare sentimento o inclinazione per (perché questo non è amare), ma significa affermare la verità di quel che c’è di fronte, di quel che esiste; amare è affermare la consistenza della verità di quel che c’è di fronte, se no staremmo freschi se fosse quello che sento. E quello che non senti, allora, non c’e? Ma c’è anche quello che non senti" (Enzo Piccinini, Assemblea degli universitari di CL, Bologna 12 maggio 1999). Accumulare tesori nel Cielo è proprio questo amore che afferma la realtà dell'altro, degli avvenimenti, delle nostre attività. Significa affermare che il nostro tesoro è in Cielo, è incorruttibile, è il destino che ci attende e in vista del quale pensiamo e agiamo. Avere un tesoro nel Cielo significa allora perfino indossare un paio di pantaloni piuttosto che un altro, restare inchiodati alla sedia e studiare anche quando la carne tira da tutt'altra parte; accumulare tesori in Cielo significa non essere avari nei rapporti, consegnarsi completamente a Dio per donarsi senza riserve e difese agli altri. Perchè esiste, ed è opera di Dio, anche quello che non sentiamo e non vediamo.
Solo fissando Cristo lo sguardo si fa luminoso, perchè negli altri, nello studio, nel lavoro, nella famiglia, nello sposo e nella fidanzata, nello sport e nella malattia, in tutto e tutti intercettiamo quel che non si sente e non si vede, il tesoro nel Cielo. Ogni istante diviene così un investimento che attraversa il soffitto e si pianta nell'eternità. Tutto ha sapore di Cristo, di vita che non muore, di amore inesauribile. Perchè tutto quello che abbiamo di fronte è affermato come profezia di Lui, come segno del suo amore. "Ma affermare quello che hai di fronte, che cosa vuol dire? Che devi mettere in discussione sempre quello che senti e pensi. Sempre in discussione: non ho detto che quel che senti e pensi sia sbagliato, ma non può essere il criterio ultimo; se incominciate a ragionare così, la vita si illumina, siete capaci di pazienza, di fedeltà, di tenacia, cioè cominciano a entrare dentro i sentimenti grandi della vita, quelli potenti e grandi che fanno veramente la vita, che sanno portare sulle spalle le persone e le cose" (Enzo Piccinini, Assemblea degli universitari di CL, Bologna 12 maggio 1999).
"Anche noi dunque, circondati da un così gran numero di testimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede“. Deporre la zavorra come gli atleti facevano nello stadio, soprattutto il peccato che ci assedia, secondo l'originale greco euperístaton: che “facilmente seduce”. Deporre l'attitudine dell'uomo vecchio che accumula tesori in terra per tenere fisso lo sguardo su Gesù; il greco aphrôntes, significa fissare qualcuno negli occhi, guardare a qualcuno con fiducia, allo scopo di orientare verso lui il proprio comportamento: fissare Gesù come un atleta fissa il traguardo. Fissare il nostro tesoro in Cielo, di cui la nostra vita è primizia e anticipo. "L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso. L’amore che ci può persuadere a questo lavoro per arrivare a una capacità abituale di distacco dalle proprie opinioni e dalle proprie immaginazioni (non di eliminazione, ma di distacco da esse!), così da porre tutta la nostra energia conoscitiva nella ricerca della verità dell’oggetto qualunque esso sia, è l’amore a noi stessi come destino, è l’affezione al nostro destino. È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù vera" (Don Giussani). Il nostro cuore attende Lui, non è fatto per restare imprigionato nelle proprie opinioni, nei criteri che accumulano per la terra. Siamo mossi dall'amore per il Signore Gesù, la nostra vita, il nostro tesoro. L’amore che dà luce e pace. Lui, per noi. Noi per Lui. Oggi. Sempre. Chi vive per Dio vive per l’eternità, ed ogni aspetto della vita, anche il più semplice e apparentemente insignificante, reca il segno dell’incorruttibile amore.
Emiliano Jimenez. il cuore, i beni e la luce degli occhi.
Sant’Agostino (354-430), vescovo d'Ippona (Africa del Nord) e dottore della Chiesa
Discorso 123
« Accumulatevi tesori nel cielo »
Tu che sei? Ricco, o povero? Molti mi dicono: Sono povero, e dicono il vero. Riconosco povero chi possiede qualcosa, riconosco povero anche l'indigente. Ma c'è chi possiede in abbondanza oro e argento. O se si riconoscesse povero! Si riconosce povero chi si accorge di avere accanto a sé un povero. Com'è? Per molto che tu voglia avere, chiunque ricco tu sia, sei il mendìco di Dio.
Si viene all'ora della preghiera... Tu chiedi. Come, non sei povero tu che chiedi? Aggiungo di più: chiedi pane. Non sei forse sul punto di dire: “Dacci il nostro pane quotidiano” ? Tu che chiedi il pane quotidiano sei povero o ricco? Eppure Cristo ti dice: Dammi di ciò che ti ho dato. Che hai portato con te quando sei venuto al mondo? Quaggiù hai trovato esistente tutto ciò che ho creato. Niente hai recato, nulla porterai via di qui. Per quale ragione non mi doni del mio? E' perché sei ricco, mentre il povero è privo di tutto. Considerate all'origine la vostra vita: entrambi veniste alla luce nudi. Anche tu perciò nascesti nudo. Trovasti qui molte cose: recasti con te qualcosa? Ti chiedo del mio: dammi ed io ti rendo.
“Hai avuto in me il donatore, rendimi presto debitore... Mi dai poco, renderò di più. Mi dài beni terreni, te ne renderò di celesti. Mi dài beni temporali, ti renderò beni eterni. A te renderò te stesso quando avrò restituito te a me”.
Discorso 123
« Accumulatevi tesori nel cielo »
Tu che sei? Ricco, o povero? Molti mi dicono: Sono povero, e dicono il vero. Riconosco povero chi possiede qualcosa, riconosco povero anche l'indigente. Ma c'è chi possiede in abbondanza oro e argento. O se si riconoscesse povero! Si riconosce povero chi si accorge di avere accanto a sé un povero. Com'è? Per molto che tu voglia avere, chiunque ricco tu sia, sei il mendìco di Dio.
Si viene all'ora della preghiera... Tu chiedi. Come, non sei povero tu che chiedi? Aggiungo di più: chiedi pane. Non sei forse sul punto di dire: “Dacci il nostro pane quotidiano” ? Tu che chiedi il pane quotidiano sei povero o ricco? Eppure Cristo ti dice: Dammi di ciò che ti ho dato. Che hai portato con te quando sei venuto al mondo? Quaggiù hai trovato esistente tutto ciò che ho creato. Niente hai recato, nulla porterai via di qui. Per quale ragione non mi doni del mio? E' perché sei ricco, mentre il povero è privo di tutto. Considerate all'origine la vostra vita: entrambi veniste alla luce nudi. Anche tu perciò nascesti nudo. Trovasti qui molte cose: recasti con te qualcosa? Ti chiedo del mio: dammi ed io ti rendo.
“Hai avuto in me il donatore, rendimi presto debitore... Mi dai poco, renderò di più. Mi dài beni terreni, te ne renderò di celesti. Mi dài beni temporali, ti renderò beni eterni. A te renderò te stesso quando avrò restituito te a me”.
Nessun commento:
Posta un commento