Lunedì della XXVIII settimana del Tempo Ordinario. Approfondimenti. Una meravigliosa riflessione di J. Ratzinger e altro materiale.


Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria 
è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare. 
Anche per i cristiani di oggi vale "Alzati... e annunzia quanto ti dirò" (Gn 3,2). 
Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio, 
che regna sulla storia. 
Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. 
Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. 
E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, 
e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, 
così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi 
sulla strada della penitenza per essere credibili.   

Joseph Ratzinger 24 gennaio 2003




Dal Vangelo secondo Luca 11,29-32


In quel tempo, mentre le folle si accalcavano, Gesù cominciò a dire:
«Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione. 
Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro gli uomini di questa generazione e li condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone. 
Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Nìnive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona».


IL COMMENTO



Accalcarsi per carpire un segno, un miracolo, qualcosa che sigilli le nostre scelte, che sfami il desiderio di certezze. Quante volte chiediamo un segno per orientare le nostre vite e restiamo delusi, interdetti dinanzi al silenzio di Dio. "Chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. O forse pensate che invano la Scrittura dichiari: «Fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi»?" (Giac. 4,3-5). Infedeli, adulteri e con il cuore perverso chiediamo male, anche quando ci inginocchiamo per chiedere luce sul nostro cammino: il nostro cuore è amico del mondo e cerca di pervertire la voce di Dio. Chiediamo per soddisfare le nostre passioni, fossero anche rivestite di religiosità. Il nostro cuore è così spesso impuro perchè è schiavo! Un cuore libero e abbandonato alla volontà di Dio non chiede un segno: chiede, come Salomone, la Sapienza per discernere i segni che già sono dati nel tessuto della storia. E discernere presuppone un cuore aperto alla conversione, a lasciare i propri schemi, a cambiare opinione, a far posto al pensiero di Dio. "Alla radice di tale richiesta sviata di un segno, c’è l’egoismo, la mancanza di purezzza di un cuore che non aspetta nulla di Dio se non il successo personale e un aiuto per affermare l’assoluto dell’io. Tale forma di religiosità è rifiuto fondamentale di conversione. Eppure, quante volte anche noi dipendiamo dal segno del successo! Quante volte chiediamo il segno e rifiutiamo la conversione!" (J. Ratzinger, Ritiro predicato in Vaticano, 1983)


Pervertire significa, secondo l'etimologia latina, volgere il bene in male. Chiedere un segno è volgere il bene della storia che Dio prepara in un male che Egli ci provoca. E' l'inganno satanico che ha ferito l'anima dei progenitori. E' la fonte del peccato che chiude la strada all'opera di Dio. Nonostante i segni compiuti nella storia di Israele, la generazione che si accalcava attorno a Gesù, cercava in Lui lo strumento per piegare gli eventi al proprio favore carnale. Una generazione perversa diviene sempre, di conseguenza, adultera: chi cambia il bene in male tradirà l'Autore del bene per "giacere" con l'autore del male. Ogni giorno ne facciamo esperienza, in famiglia, la lavoro, ovunque. Non ci convertiamo, essendo schiavi dei nostri ideali, progetti, criteri. Chiediamo segni che ci diano ragione e certezze, ci alleiamo con il menzognero e viviamo di menzogne. Per questo i pagani giudicheranno coloro che hanno disprezzato le grazie ricevute per accogliere il Messia e convertirsi. I pagani, subentreranno ai primogeniti che hanno rigettato la primogenitura per un piatto di lenticchie, duemila anni fa come oggi.


Per guarire un cuore perverso e adultero vi è un solo segno: quello di Giona, compiuto in Qualcuno che è più di Giona. Qui, nella nostra vita concreta, come quel giorno dinanzi alla fola che si accalcava, vi è Gesù Cristo. E' Lui il segno, come lo fu Giona per i niniviti. La sua vita, la Parola di Dio sulle sue labbra, e la chiamata a conversione: nella sua carne i "segni" della vittoria sul peccato. In quell'Uomo vivo di fronte a loro vi era il segno capace di guarire e ridonare fedeltà e rettitudine di intenzione. Il segno capace di destare il desiderio di convertirci, di accogliere la sapienza che dia il discernimento. Per questo Lui ci attira ogni giorno nel deserto della nostra storia, ad "impattare" con la sua persona; nell'incontro con Lui affiorano i dubbi, i timori, le debolezze e i limiti della nostra carne. La sua presenza che si fa prossima smaschera l'adulterio e la perversione che si fa mormorazione ed esigenza. E le sue carni ferite, i "segni" dei chiodi come pertugi dove "convertire" i peccati in Grazia. Gesù è oggi il segno, la misericordia che guarisce e ci ricrea vergini e casti per sposarci con Lui nella fedeltà e nell'amore; è Gesù il segno che ci dischiude gli occhi perchè possiamo discernere in Lui il Messia che attendiamo. Lui, il segno incarnato nella nostra vita che ci svela ogni istante come una meraviglia del suo amore, dove trovare la vera pace.    








Sant’Ireneo di Lione (circa130-circa 208), vescovo, teologo e martire
Contro le eresie III, 20,1 ; SC 34, 339


Il segno di Giona


Generoso fu Dio il quale, venendo meno l’uomo, preordinò la vittoria che gli avrebbe resa per mezzo del Verbo. Infatti, poiché « la potenza trionfava nella debolezza » (2 Cor 12,9), il Verbo mostrava la bontà e la magnifica potenza di Dio.
Infatti, come fu per il profeta Giona, è stato lo stesso per l’uomo. Dio ha permesso che costui fosse inghiottito dal mostro marino, non perché scomparisse e perisse totalmente, bensì affinché, dopo esser stato rigettato dal mostro, fosse maggiormente sottomesso a Dio e glorificasse maggiormente colui che gli concedeva tale salvezza insperata. Era anche per condurre gli abitanti di Ninive ad un fermo pentimento e convertirli a colui che poteva liberarli dalla morte, essendo stati loro stessi colpiti dal segno compiuto nella persona di Giona… Allo stesso modo, fin dal principio, Dio ha permesso che l’uomo fosse inghiottito dal grande mostro, autore della disubbidienza, non perché scomparisse e perisse totalmente, bensì perché Dio stava preparando in anticipo la salvezza compiuta dal suo Verbo per mezzo del « segno di Giona ». Questa Salvezza è stata preparata per coloro che avrebbero avuto per Dio gli stessi sentimenti di Giona, e li avrebbero confessati negli stessi termini : « Sono il servo del Signore e venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra » (Gn 1,9).
Dio ha voluto che l’uomo, avendo ricevuto da lui una salvezza insperata, risuscitasse dai morti e glorificasse Dio dicendo con Giona : « Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito ; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce » (Gn 2,3). Dio ha voluto che l’uomo rimanesse sempre fedele a glorificarlo e a rendergli grazie incessantemente per la salvezza ricevuta da lui.





San Romano il Melode (?-circa 560), compositore d'inni. 
Inno « Nìnive »; SC 99


« Come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell'uomo lo sarà per questa generazione »


        Hai prevenuto la disperazione di Ninive, hai allontanato l'annunciata minaccia e sulla collera ha prevalso la tua pietà, o Signore! Sii misericordioso anche ora verso il tuo popolo e la tua città, con mano possente abbatti i nostri nemici per intercessione della Madre di Dio, accogliendo da noi il pentimento.


        L'ospedale del pentimento è aperto a tutte le malattie morali: venite, sbrighiamoci ad andarvi per rinvigorire le nostre anime. È nel pentimento che la peccatrice ha ritrovato la salvezza, che Pietro è stato liberato dal suo rinnegamento, che Davide ha messo fine alla sua sofferenza, grazie a Lui che i Niniviti sono stati salvati (Lc 7,50; 22,62; 2S 12,13). Perciò non esitiamo, alziamoci, mostriamo la nostra ferita al Salvatore e lasciamoci medicare : Egli accoglie il nostro pentimento al di là di ogni nostra speranza.


        Nessun compenso è dovuto da tutti quelli che vanno da Lui perché non potrebbero offrire un regalo pari alla cura. Hanno ritrovato la salvezza gratuitamente dando quanto potevano dare: al posto dei regali, le lacrime, perché queste, per il Liberatore, sono preziosi oggetti di amore e di desiderio. Ne sono testimoni la peccatrice, Pietro, Davide e i Niniviti, perché è solamente offrendo il loro gemiti che sono andati ai piedi del Liberatore, ed Egli ha accettato il loro pentimento.


        Le lacrime sono spesso più forti di Dio, per modo di dire, e gli fanno violenza : perché il Misericordioso si lascia, con gioia, commuovere dalle lacrime, perlomeno le lacrime dello spirito (cfr. 2Co 7,10)... Piangiamo, dunque, di vero cuore alla stessa maniera dei Niniviti che, grazie alla contrizione, hanno aperto il cielo e sono stati visti dal Liberatore che ha accettato il loro pentimento. dell’io. Tale forma di religiosità è rifiuto fondamentale di conversione. Eppure, quante volte anche noi dipendiamo dal segno del successo! Quante volte chiediamo il segno e rifiutiamo la conversione!








Giona e Gesù. Dio si impietosì . Joseph Ratzinger




Meditare la Parola 


Il libro di Giona non narra avvenimenti che si sono avverati in un lontano passato; è una parabola. 
Nello specchio di questo racconto parabolico appare il futuro e nello stesso tempo viene sempre di nuovo spiegato alle diverse generazioni il presente, che solo nella luce del futuro – in ultima analisi in quella luce che proviene da Dio – può essere capito e rettamente vissuto. 
Perciò questa parabola è profezia: essa getta la luce di Dio sul tempo e con ciò ci chiarisce la direzione in cui dobbiamo muoverci perché il presente si apra sul futuro e non vada in rovina. In questa parabola profetica si possono distinguere tre cerchi. 
Il testo annuncia a Israele incredulo la salvezza per i pagani, anzi, che i pagani precederanno Israele nella fede. L’ingresso dei pagani nella fede nell’unico Dio, che si è rivelato a Israele sul Sinai e oltre, risulta chiaramente in due passi del piccolo libro. 
I marinai (cfr. Gn 1,4-16), che normalmente venivano considerati come crudeli e lontani da Dio, si convertono quando assistono al placarsi della tempesta. 
Riconoscono che la descrizione che Giona ha dato del suo Dio è vera: è il Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra. Riconoscono questo Dio del cielo come l’unico vero Dio che tiene in mano l’universo. E sanno che il riconoscimento deve diventare un atto: già sulla nave fanno un sacrificio e promettono nuove azioni di grazie non appena saranno giunti a destinazione. Importante è che Gerusalemme non appare più come l’unico luogo in cui si può sacrificare a Dio – il suo tempio è ovunque. Ancora un altro elemento è importante in questo racconto: i marinai si erano mostrati pieni di compassione e rispetto di fronte alla vita umana e solo su insistenza di Giona avevano osato gettarlo in mare, nello stesso tempo però implorando perdono per questo sacrilegio. In questa loro umanità si può vedere, per così dire, una disposizione alla grazia, che rendeva loro possibile l’accesso alla fede.
La seconda profezia (cfr. Gn 3,1-10) davvero centrale per la salvezza dei pagani si trova nella storia di Ninive. Gli assiri, la cui capitale era Ninive, erano il popolo guerriero più brutale dell’antico Oriente; Ninive è indicata nel capitolo terzo di Naum come città sanguinaria. Ci viene data così un’idea della sua "malizia" la cui fama è "salita fino" a Dio (Gn1,2). La città è simbolo per eccellenza dell’infamia del peccato umano, quello che si accumula negli agglomerati delle grandi città. Essa è "paganesimo" nella sua forma più compatta. L’incredibile accade: la città crede al profeta e crede che c’è un Dio, il Dio per eccellenza, e non solo i suoi dei. Crede che c’è un giudizio e fa penitenza. La contrapposizione all’Israele sicuro di sé si fa qui estremamente chiara. Il capitolo 36 di Geremia ci racconta come Geremia abbia fatto leggere al re Ioiakìm il rotolo con l’annuncio delle punizioni. 
Il re resta seduto sul trono e taglia pezzo per pezzo il rotolo, che alla fine diventa per intero preda delle fiamme. Il re della malvagia città di Ninive invece si alza dal trono, si spoglia di tutte le insegne regali e si mette a sedere come penitente sulla cenere. Il suo potere regale egli lo usa ora soltanto per imporre a tutti – uomini e animali – un digiuno completo, per richiamare alla penitenza, allo scendere dai loro seggi nella cenere. Chi è sceso è colui che sale a Dio: Dio si impietosisce e salva. La salvezza dei pagani è la salvezza di quelli che accettano la discesa di Dio e scendono da se stessi. La salvezza è fondata sulla penitenza. Chi è pieno di sé si preclude la salvezza. 
Vediamo trasparire qui l’intero Vangelo di Cristo. Nel libro di Giona si compenetrano Antico e Nuovo Testamento e si mostrano come una sola cosa.


2) Il libro di Giona ci annuncia l’avvenimento di Gesù Cristo – Giona è una prefigurazione della venuta di Gesù. Il Signore stesso ci dice questo nel Vangelo del tutto chiaramente. 
Richiesto dai giudei di dar loro un segno che lo riveli apertamente come il Messia, risponde, secondo Matteo: "Nessun segno sarà dato a questa generazione se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra" (Mt12,39s). 
La versione di Luca delle parole di Gesù è più semplice: "Questa generazione [...] cerca un segno ma non le sarà dato nessun segno fuorché il segno di Giona. Poiché come Giona fu un segno per quelli di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione" (Lc 11,29s). Vediamo due elementi in entrambi i testi: lo stesso Figlio dell’uomo, Cristo, l’inviato di Dio, è il segno. Il mistero pasquale indica Gesù come il Figlio dell’uomo, egli è il segno in e attraverso il mistero pasquale.
Nel racconto veterotestamentario proprio questo mistero di Gesù traspare del tutto chiaramente. 
Nel primo capitolo del libro di Giona si parla di una triplice discesa del profeta: egli scende al porto di Giaffa; scende nella nave; e nella nave egli si mette nel luogo più riposto. Nel suo caso, però, questa triplice discesa è una tentata fuga davanti a Dio. Gesù è colui che scende per amore, non per fuggire, ma per giungere nella Ninive del mondo: scende dalla sua divinità nella povertà della carne, dell’essere creatura con tutte le sue miserie e sofferenze; scende nella semplicità del figlio del carpentiere, e scende nella notte della croce, infine persino nella notte dello Sheòl, il mondo dei morti. Così facendo egli ci precede sulla strada della discesa, lontano dalla nostra falsa gloria da re; la via della penitenza, che è via verso la nostra stessa verità: via della conversione, via che ci allontana dall’orgoglio di Adamo, dal volere essere Dio, verso l’umiltà di Gesù che è Dio e per noi si spoglia della sua gloria (Fil 2,1-10). Come Giona, Gesú dorme nella barca mentre la tempesta infuria. In un certo senso nell’esperienza della croce egli si lascia gettare in mare e così placa la tempesta. I rabbini hanno interpretato la parola di Giona "Gettatemi in mare" come offerta di sé del profeta che voleva con questo salvare Israele: egli aveva timore davanti alla conversione dei pagani e al rifiuto della fede da parte di Israele, e per questo – così dicono – voleva farsi gettare in mare. Il profeta salva in quanto egli si mette al posto degli altri. Il sacrificio salva. Questa esegesi rabbinica è diventata verità in Gesù.


3) Giona rappresenta Gesù ma rappresenta anche Israele nella sua resistenza alla misericordia universale di Dio. Il nome di Giona significa colomba. 
In Osea 7,11, Efraim è indicato come colomba "ingenua, priva di intelligenza". Giona, in cui da una parte traspare il mistero di Gesù, è, dall'altra, una incarnazione dell’Israele testardo che ha timore della salvezza dei pagani e fa resistenza di fronte a questa salvezza, che insiste sulla unicità della sua predilezione che non vorrebbe dividere con nessuno. 
Mentre Elia era turbato dal suo insuccesso e per questo voleva fuggire da Dio e morire, Giona ha paura del successo: fin dall’inizio egli teme che alla fine non sarà emesso il giudizio. Egli conosce Dio e sa che alla fine in lui la grazia prevale sempre sul giudizio. Egli però augura ai malvagi abitanti di Ninive il giudizio e non la grazia. Si augura che la sua predicazione si manifesti come vera attraverso il giudizio e non che la misericordia di Dio, per così dire, possa farla apparire superflua. Egli somiglia in questo al fratello maggiore della parabola di Gesù del figliol prodigo, che in realtà è la parabola dei due fratelli. Se il prodigo non viene punito e non sprofonda nel fango allora la mia fedeltà, pensa il fratello maggiore, risulta inutile, poiché la dissolutezza sarebbe meglio della fedeltà: così gli sembra. Una concezione simile si trova in Giona, si trova nella resistenza di Israele contro l’ingresso dei pagani nella promessa "senza l’opera della legge". 
Ci dobbiamo domandare nel passo successivo che cosa questo significa per noi.


La Parola illumina la nostra via e la interpella 


1) Nella storia il paragone tra i pagani diventati credenti e l’Israele infedele è diventato presto causa di malintesi che dobbiamo constatare e combattere in ogni generazione, poiché adesso nella Chiesa siamo diventati "Israele" e corriamo lo stesso rischio di Israele: il rischio "dell’egoismo della salvezza", il rischio di guardare Israele dall'alto in basso e considerarci automaticamente giusti. 
Già Paolo, invece, diceva nella Lettera ai Romani: "Essi sono stati tagliati a causa dell’infedeltà mentre tu resti lì in ragione della fede. Non montare dunque in superbia ma temi!... Considera dunque la bontà e la severità di Dio: severità verso quelli che sono caduti, bontà di Dio invece verso di te, a condizione però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai reciso" (11,20ss). 
Troviamo qui due parole chiave: "credere" e "restare nella bontà di Dio". 
Crediamo veramente? Non soltanto in teoria, ma in modo tale che la fede diventi fondamento della nostra vita, in modo tale che lasciamo la nostra vita nelle mani di Dio? E rimanere in Dio significa rimanere nella sua bontà: questo è il nocciolo del credere. 
Non temere la sua bontà – non temere che egli potrebbe essere troppo buono con gli altri cosicché la mia fede non avrebbe valore; rimanere nella sua bontà, averne parte: questo è il segno della fede. 


Noi cadiamo sempre nella tentazione del fratello maggiore o dell’operaio della prima ora: crediamo che la fede abbia valore solo se gli altri hanno di meno. 


Ma pensiamo che sia più bello vivere nell’infedeltà e nella sua apparenza di verità piuttosto che stare nella casa del Padre? La fede è per noi un peso che continuiamo a portare ma di cui in fondo vorremmo sbarazzarci o riconosciamo che la libertà apparente della infedeltà lascia vuota la vita, riconosciamo che è bello stare con Dio? Noi crediamo davvero solo se troviamo gioia in Dio e nella compagnia con lui e se, in forza di questa gioia, vogliamo trasmettere la sua bontà.


2) Se questi pensieri della universalità della misericordia divina e del sempre nuovo volgersi di Dio verso i pagani sono concepiti in modo superficiale, possono diventare pretesto per il relativismo e per l’indifferenza. La salvezza è comunque grazia, possiamo non meritarla, potremmo dire; è la stessa cosa essere pagani e essere cristiani, anzi forse meglio essere pagani, poiché i pagani non sono penetrati dalla giustizia che viene dalle opere e dalla presunzione, e possono così ricevere più facilmente la grazia come grazia. Allora non avrebbe neanche senso predicare il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo. Lasciamo che i pagani rimangono pagani, Dio avrà senz’altro misericordia di loro: così si potrebbe dire. 
E così ci si sente naturalmente incoraggiati a essere pagani: se io pecco sono più vicino alla grazia, ci si dice; non cadrò così facilmente nella trappola dell'essere pieno di me. Uno sguardo al testo di Giona come all’intera Bibbia, in specie al Nuovo Testamento, mostra come tutto questo sia falso e superficiale. C’è anche un essere pieno di sé dei pagani, uno star bene col peccato. Finisce che il cuore diventa cieco, che non vuole più Dio, non vuole più la grazia, non conosce più alcun pentimento. Però ciò che è cattivo rimane cattivo. La malvagità era giunta fino a Dio, ci dice il libro di Giona, e Dio decide di intervenire, ciò che è malvagio deve essere superato. I misfatti di Hitler, di Stalin, di Pol Pot, di tanti altri, così come dei loro complici e simpatizzanti, sono misfatti che rovinano il mondo e precludono la strada verso Dio. 
No, il duplice invito a Giona "alzati", non era una finzione, ma un comando impellente il cui adempimento Dio imponeva a dispetto della resistenza del profeta. E Cristo non è venuto perché tutto è già buono e sta sotto il regime della grazia ma perché l’appello alla bontà e al pentimento è assolutamente necessario. 
Il libro di Giona e la sua prosecuzione neotestamentaria è la più decisa negazione del relativismo e dell’indifferenza che si possa immaginare. 
Anche per i cristiani di oggi vale "Alzati... e annunzia quanto ti dirò" (Gn 3,2). Anche oggi deve essere annunciato l’unico Dio, il Dio che ha fatto il cielo, la terra e il mare, e regna sulla storia. 
Anche oggi è necessario agli uomini Cristo, il vero Giona. Anche oggi deve esserci pentimento perché ci sia salvezza. E come la strada di Giona fu per lui stesso una strada di penitenza, e la sua credibilità veniva dal fatto che egli era segnato dalla notte delle sofferenze, così anche oggi noi cristiani dobbiamo innanzitutto essere per primi sulla strada della penitenza per essere credibili. 


3) Le parole chiave del nostro testo sono valide anche oggi e soprattutto per noi: conversione ("ognuno si converta", Gn 3,8) e penitenza. Di per sé questa parola non è usata espressamente, ma l’annuncio "quaranta giorni e Ninive sarà distrutta" (Gn 3,4) contiene il simbolismo dei quaranta giorni che indica il peregrinare di Israele nel deserto e dà con questo una concreta immagine del tema della penitenza. Traspare qui il messaggio chiave del Nuovo Testamento, che Gesù esprime con le parole "Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15). Ciascuno di noi deve riflettere cosa per lui significhi "conversione". L’esperienza dei grandi convertiti, nella storia della Chiesa, fu che il sì a Cristo e alla sua Chiesa, il battesimo, innanzitutto comportò un inizio completamente nuovo, cambiò dal fondo la loro vita. Ma se avevano pensato che a quel punto tutto era fatto e nuovo per sempre, dovevano sperimentare che la strada della conversione andava quotidianamente ripresa e di nuovo percorsa. 
Proprio questa è la differenza fra la sicurezza di Israele della sua predilezione e la Chiesa ex gentibus: la conversione non è bella e fatta, non è mai finita. L’immagine di Dio in te deve formarsi lentamente, lentamente deve accadere la trasformazione in Cristo, il "rivestirsi di Cristo". Giorno per giorno io devo combattere contro la mia pigrizia, contro abitudini che mi asservono; contro i pregiudizi nei confronti del prossimo, contro simpatie e antipatie, dalle quali mi lascio trascinare, contro la ricerca del potere e l’autocompiacimento, contro l’avvilimento e la rassegnazione; contro la vigliaccheria e il conformismo come contro l’aggressività e la prepotenza. 
Giorno per giorno io devo scendere dal trono e cercare di imparare la strada di Gesù. Giorno per giorno devo spogliarmi delle mie sicurezze, superare nella fede i miei pregiudizi; non decidere da me cosa significa essere cristiano, ma imparare dalla Chiesa e lasciarmi condurre da essa. Giorno per giorno devo sopportare gli altri, come essi mi sopportano, visto che Dio sopporta tutti noi...


4) Il libro di Giona è un libro teocentrico. Il vero attore è Dio. Sì, Dio agisce – non si è tirato fuori dalla storia (cfr. Gv 5,17). E Dio ama la creazione. Si occupa degli uomini e degli animali. È un Dio che combatte ciò che è cattivo e per questo deve anche punire come giudice per fare giustizia. 
L’aspetto del giudizio, della punizione, della "collera" di Dio non deve sparire dalla nostra fede. Un Dio che accetta tutto non è il Dio della Bibbia, ma un’immagine sognata. Gesù si mostra come Figlio di Dio proprio perché può prendere la frusta e irato cacciare dal tempio i venditori. Proprio il fatto che Dio non è indifferente davanti a ciò che è cattivo ci dà fiducia. Ma rimane valido che la misericordia di Dio è senza confini. Dobbiamo sempre combattere contro il peccato e non perdere il coraggio di farlo, soprattutto oggi. 
Non aiuta la strada dell’imbonimento, ma soltanto attraverso il coraggio della verità, che sa anche dire di no, noi serviamo il bene. Questo coraggio si nutre della consapevolezza della misericordia di Dio, del fatto che egli ama le sue creature, ci ama. 
Nella lotta contro il male in noi e attorno a noi non possiamo demordere; ma conduciamo questa battaglia nella coscienza che Dio sempre "è più grande del nostro cuore" (1Gv 3,20). Noi conduciamo la battaglia con una infinita fiducia e per amore, poiché vogliamo essere vicini a colui che amiamo e che ci ha amati per primo (1Gv 4,19). Più impariamo a conoscere Dio più possiamo dire con la saggezza veterotestamentaria: "La gioia di Dio è la nostra forza" (Ne 8,10). 


La lectio divina è stata tenuta dal cardinale Joseph Ratzinger nella chiesa romana di Santa Maria in Traspontina il 24 gennaio 2003. 


Traduzione di Silvia Kritzenberger e Lorenzo Cappelletti 


© Copyright 30Giorni febbraio 2003


Omelia di Matta El Meskin: “Giona, Ninive e noi”


Non è un caso che la Chiesa abbia scelto per questo santo digiuno proprio questo periodo dell’anno. L’ordine stabilito dalla Chiesa è sempre ispirato.
Sapete che ci stiamo avvicinando al santo digiuno di Quaresima. Qui andrò al punto. La parola “quaresima”, infatti, è molto importante. Noi infatti ci stiamo avvicinando ad una morte che Cristo attraversa per il bene di tutta l’umanità, o meglio a una sostituzione: morte contro perdizione. L’umanità intera, infatti, era in uno stato di perdizione o sulla soglia della perdizione o di uno sterminio non meno importante di quello del diluvio universale [il Diluvio durò 40 giorni], a causa di un’ipertrofia del potere del peccato.
Questo è ciò che ha spinto il Figlio benedetto a lasciare la sua gloria, a rivestirsi della nostra umanità e a patire per salvare l’umanità. Ha offerto se stesso alla morte in riparazione della perdizione dell’umanità. Poi è risorto e la sua morte e la sua risurrezione sono divenute fonte di salvezza e conversione senza fine. E’ divenuto un segno per tutti coloro che vogliono ereditare il cielo stesso, non per chi voleva vedere ancora un segno. Questa è la morte e la risurrezione di Cristo. Questo è il digiuno quaresimale che il Signore ha compiuto per tutta l’umanità per saldare per lei ogni mancanza in termini di ascetismo e di digiuni.
Chi di voi segue di più il calendario liturgico si ricorderà che stiamo ancora cantando gli inni della Teofania, cioè del Battesimo, il quale avviene con l’immersione totale sotto la superficie dell’acqua [3 volte], vale a dire in profondità. O, prendendo a prestito la storia di Giona, Cristo è sceso nella pancia dell’acqua. Perciò, l’uscita di Cristo dall’acqua fu considerata come un’unzione con quale egli compì il suo servizio, un’unzione con quale iniziò poi il digiuno di quaranta giorni. Se andassimo al di là del tempo o del nostro calendario liturgico ci troveremmo direttamente nella settimana santa, poi la morte, infine la risurrezione.
Così, il digiuno di Giona prima del digiuno di Quaresima porta in sé molti significati e una simbologia che riguarda sia il battesimo che la morte in croce.
Torniamo a Giona. E domandiamoci: chi è costui che si chiama Giona?
Un uomo, un profeta, facente parte degli ebrei, a cui è giunta la voce del Signore che diceva: «Alzati, va’ a Ninive la grande città…» (Gion 1,2).
Giona si alzò, dice la Scrittura “si alzò e scappò” dal volto del Signore a Tarsis. Si imbarcò ma scoppiò un maremoto.
Il libro non specifica altro. Ovviamente, questo non specificare nell’Antico e nel Nuovo Testamento non significa una negligenza o un difetto nella scrittura fosse anche solo involontario. Consideriamolo invece come uno spazio lasciato alla mente profonda e all’anima contemplatrice perché possano comprendere quelle cose che non possono essere messe per iscritto. Spero che tali parole abbiano un’eco in voi perché molti si lamentano dell’oscurità di alcuni passaggi del Vecchio Testamento ma anche del Vangelo.
La voce del Signore disse a Giona: «Va’ e proclama che la loro malizia è salita fino a me». Giona fuggì ma sprofondò nella pancia dell’acqua e ci restò tre giorni. Secondo le Scritture, Cristo scese agli inferi e vi restò tre giorni e tre notti. Giona sprofondò nell’abisso, nel ventre della balena, e vi restò tre giorni e tre notti. Dice: «Dal profondo degli inferi ho gridato» (Gion 2,3). Così il libro di Giona appare come profetico e visionario: ogni riga, ogni parola fa riferimento molto chiaramente a Cristo. Qui possiamo considerare Giona Giovanni Battista del Nuovo Testamento che urla per preparare la via del Signore.
Giona è una prefigurazione viva che rappresenta Cristo. Il battesimo di Cristo l’ha spinto verso il digiuno quaresimale, e la Quaresima alla croce poi alla risurrezione. Giona, dopo essere sceso nell’acqua, andò a Ninive a predicare la conversione dicendo che “questa città perirà tra quaranta giorni”. Ciò è come se fosse un’indicazione celata che questi quaranta giorni sono importanti nelle decisioni di Dio, il lasso di tempo massimo stabilito per la perdizione. Ma il Signore li ha scontati tutti per l’umanità intera trascorrendoli nel suo digiuno quaresimale.
Quanto alla fuga, Giona riteneva troppo difficile la sua missione divina. Ma dopo essere sceso nell’acqua ed esserci rimasto tre giorni, qualcosa cambiò. Dopo essere stato gettato dalla balena sulla spiaggia, il Signore gli ripeté le stesse identiche parole: «Alzati, va’ a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò» (Gion 3,2). Stavolta Giona obbedisce, come se il suo pensiero si fosse trasformato dopo essersi battezzato nell’abisso per Ninive per tre giorni.
Qui è accaduto qualcosa di velato. Come se la discesa nell’acqua – il battesimo di Giona – fosse un attraversare la morte e la risurrezione per Ninive.
Che meraviglia sono queste indicazioni profetiche! Che meraviglia la Chiesa che riesce a dare senso profondo a un dato digiuno a una data festa, che fungono da ispirazione e da visione per chi vuole sentire o vedere, diversamente dagli scribi e dai farisei che dissero “vogliamo vedere un segno” dimenticando ciò che era già accaduto [nell'Antico Testamento].
La Chiesa ci ha posto questo libro davanti agli occhi in questi giorni perché riuscissimo a farlo nostro: prima Giona e poi Ninive. Perché Giona e Ninive rappresentano due messaggi per noi, nelle nostre vite. Giona tratteggia da lontano la figura del Messia che sarebbe venuto. Ninive ci ammonisce: «Quelli di Nìnive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno [...] una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta» (Mt 12,39).
Con “questa generazione” la Rivelazione non intende soltanto la generazione al tempo di Cristo come dice la gran parte degli esegeti ma è “questa generazione” cioè qualunque generazione perversa e adultera. Ogni generazione nella quale c’è il perverso e l’adultero è “questa generazione”. La generazione di Cristo è invece la generazione degli Apostoli che ancora continua in noi e attraverso di noi fino a oggi. Voi sentite il prete dire: “Ricordati Signore della tua Chiesa una, unica, santa, cattolica e apostolica” [Liturgia copta] poi sentite nella commemorazione dei santi i nomi dei patriarchi fino all’ultimo. La Chiesa si estende da Cristo e dagli Apostoli fino ai giorni nostri. E’ un’unica generazione, è la generazione di Cristo, così si chiama. La generazione testimone di Cristo durerà fino all’ultimo giorno della storia dell’umanità, una generazione estesa, una generazione buona, santa e pura. L’altra generazione è quella di Caino, di Giuda, dei crocifissori. Anch’essa è estesa fino ai giorni nostri. Di essa fanno parte i crocifissori e Giuda.
“Generazione perversa e adultera”. L’espressione di Cristo potrebbe sembrarci dura ma non è così. E’ una generazione perversa e adultera perché si è sviata da Dio. Se leggi “perversione e adulterio” nel Vangelo, sappi che si intende la condizione spirituale e non corporale della persona (perché la condizione fisica può, mediante un colpo alla coscienza inferto da parte della spada della Parola di Dio, trasformare i peggiori peccatori in grandi santi). La perversione spirituale, è adorare altri da Dio, gettarci nell’abbraccio di satana. E’ questo il tradimento coniugale spirituale. Poiché Cristo ha preso per sé la Chiesa come sposa, ritiene se stesso il suo Sposo: «Avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo» (2Cor 11,2).
“Generazione perversa e adultera che chiede un segno”. Vuole forse che Dio le invii un fuoco dal cielo? O le invii della manna dal cielo con cui mangiare e saziarsi? Forse che Cristo non le ha offerto il cibo nel miracolo della moltiplicazione dei cinque pani e dei due pesci (Vangelo del terzo giorno del digiuno di Giona)? Ma facciamo attenzione perché il segno non accresce la fede, ma è la fede in se stessa a essere un segno. Ricordate le parole del Vangelo in cui si dice che Cristo «non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mt 13,58). Cristo non potrà darti un segno nella tua vita se prima non hai fede.
“Nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona”. Una generazione perversa e adultera il cui peccato è tremendo. Non le serviranno segni dal cielo. L’unico segno è quello che li resuscita dalla morte della coscienza e questo segno è il profeta Giona perché egli doveva, secondo la logica e la scienza, morire nel ventre della balena. Giona morì, sì certamente morì. Ma Dio lo risuscitò. Ma per chi era questa morte? Che gloriosa morte è quella che moriamo ogni giorno per gli altri! Che grande profeta sei stato Giona, profeta della redenzione, morendo per tre giorni e tre notti per espiare il tuo peccato e quello della grande Ninive!
Gli esegeti occidentali dicono che il libro di Giona è un libro leggendario. Altri dicono che Giona rappresenti il figlio maggiore nella parabola del figliol prodigo perché quando si salvò Ninive, Giona se ne rattristò e diventò come il figlio maggiore che non volle entrare in casa.
No, non è successo questo. La profonda verità è che Giona evitò di andare a Ninive per non doverle preannunciare la distruzione perché sapeva perfettamente che Dio è paziente e lento all’ira e che avrebbe certamente perdonato alla fine. Perciò Giona scappò per non affrontare due dure prove: l’annuncio della distruzione, difficilissimo per l’anima mite; e la rinuncia all’ira da parte di Dio che avrebbe messo Giona in cattiva luce davanti a un popolo straniero. Ma dove poteva fuggire Giona dal volto di Dio? Dio sta sempre dietro all’uomo che fugge. Ogni uomo può sfuggire dal volto di Dio tranne colui che ha ascoltato la sua voce, ha preso il suo giogo e ha accolto il suo nome santo.
Nel pensiero copto Giona non rappresenta il figlio maggiore che si è rattristato per la salvezza di Ninive ma è immagine di Cristo. E’ il profeta della redenzione e non meno delicato, anzi forse è superiore in ciò, a tutti i profeti dell’Antico Testamento. Probabilmente l’unico che gli assomiglia è solo un altro profeta maltrattato: Giobbe.
Giona non sopportò di dover predicare la distruzione. Nel Vangelo di Luca troviamo un accenno piccolissimo e rapidissimo che svela un legame tra l’ammonizione ai niniviti a causa della loro condotta e la morte certa che subì Giona per loro: «Poiché come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione» (Lc 11,30).
I niniviti seppero che Giona attraversò la morte dentro il ventre della balena per tre giorni e poi risorse per loro? Qui il Vangelo di Luca intende che così come Giona fu egli stesso, non soltanto la sua predicazione, un segno per i niniviti, così anche il Figlio dell’uomo è egli stesso un segno per questa generazione, cioè attraverso la sua morte e risurrezione.
E’ molto difficile, fratelli, parlare a lungo di cosa sia la morte di tre giorni e tre notti che Giona attraversò ma sappiamo certamente cosa successe a Cristo quando dimorò tre giorni e tre notti negli inferi e poi risorse: «Ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini (cioè onori)» (Ef 4,8), risorse «e soffiò (sul volto dei suoi discepoli) e disse loro [...] a coloro ai quali rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,22-23). Diede il potere di sciogliere e di benedire sulla terra per sempre. Sentiamo il sacerdote dire: «Come desti il potere di sciogliere ai discepoli per rimettere i peccati…». Così dura fino a ora questo potere che slaccia tutti i peccati.
Allo stesso modo Giona risorse e predicò a Ninive perché attraverso la sua morte e poi la sua predicazione egli potesse “sciogliere” da loro l’ira di Dio. E’ probabile che Giona disse ai niniviti cosa gli era successo.
Gli abitanti della grande città Ninive, invece, fecero qualcosa di straordinario. Non appena il re ascoltò il racconto di Giona e la sua predicazione, si alzò dal trono, si spogliò dei suoi abiti regali, dell’ostentazione, della sua vanagloria e si vestì di sacco, tutto il popolo si vestì di sacco – il sacco è un vestito fatto di pelle di pecora molto ruvido. Il re emise un decreto con il quale si ordinava il digiuno per tre giorni di tutti, piccoli e grandi, persino dei lattanti – quale spavento! – e di tutte le bestie.
E’ come se tutta la creazione fosse rappresentata nella storia della conversione di Ninive. Una città popolosissima che si pentì per intero e il Signore la perdonò per una conversione di massa attivo e per la saggia decisione di questo re leale e conscio che è riuscito, con la sua saggezza, ad annullare la sentenza di morte per il suo popolo. Che gran pastore! Che saggezza!
O Dio cos’è poi quest’abbraccio così generoso? E’ davvero una meraviglia: una città pagana che crede in Dio con una sola predicazione?
Sì, non è con un segno del cielo o della terra che l’umanità si pente o le viene perdonato il suo peccato, ma con l’umiltà, il digiuno e la preghiera e la contrizione del cuore verso Dio l’Onnipotente.
Ah se tutti i peccatori capissero ciò! Non avrebbero mai la sensazione che i loro peccati sono troppi per il perdono di Dio. Se la Chiesa conoscesse il pentimento di massa nel quale dovrebbe vivere, si vestirebbe di sacco insieme ai suoi figli, si sederebbe nella polvere della contrizione fino ad attrarre su di se il perdono del cielo. I tempi del ristoro giungerebbero velocemente dal cielo, come dice l’Apostolo Pietro: «Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati» (Atti 3,19).
Amati, se i tempi del ristoro tardano ad arrivare la colpa è nostra. Ninive si dirigeva rapidamente verso gli inferi e la perdizione certa ma con una mossa nobile e coraggiosa, degna della vocazione e commisurata alla minaccia, è riuscita ad attirare su di sé il perdono del Cielo.
Cosa ti manca ancora peccatore? Ti manca il sacco? Ti manca la polvere? Cosa ti manca?
Se per pentirsi ci fosse bisogno di oro e d’argento, se ci fosse bisogno di una scala altissima con la quale salire al cielo, se ci fosse bisogno di un sforzo particolare psicologico, mentale, fisico o una sapienza superiore o una scienza fuori dal normale per far scendere Cristo dal cielo o farlo risalire dagli inferi, diremmo che il perdono è difficile e sfinente. Ma il re, il popolo, le donne, i bambini e gli animali di Ninive capirono rapidamente come salvarsi. Perché noi, invece, stiamo fermi? perché andiamo a destra e a manca, cerchiamo consiglio dal grande e dal piccolo mentre la salvezza è davanti a noi e la porta è aperta e coloro che vi sono entrati sono tanti, di tutti i popoli, lingue e nazioni?
Ecco Ninive proporci un modello semplice di conversione capace, con la sua violenza, di aprire le porte del cielo e di far discendere un perdono totale senza eccezione alcuna per una città intera della quale la Scrittura dice che “non sa distinguere la mano destra dalla sinistra” (Gion 4,11).
Fratelli, ora che ci appropinquiamo alla Quaresima, ci serve un cuore come quello del re di Ninive e del popolo di Ninive. Le bestie che digiunavano prostrate nelle loro mangiatoie mi interpellano perché in me vedo molte bestie feroci che si fanno la guerra l’una con l’altra come il leone signoreggia sulla gazzella. Quante pulsioni ci sono dentro di te, anima mia, che avrebbero bisogno di essere umiliate con la fame e il sacco! L’immagine di Ninive e delle sue bestie che si lamentano nelle loro stalle è tremenda per le mie passioni e i miei piaceri. I tori cadono a terra per la fame. Quante ce ne sono di pulsioni così anima mia, città di Dio! Quanto sei bella anima mia vestita di sacco e seduta nella polvere, imitando Ninive. In questa Quaresima è bene per te anima mia legare tutti i tuoi sensi bestiali e animali, e non pensare che sei figlia della grande città che non sa riconoscere la mano destra dalla sinistra, perché il peccato non è sconfitto se non da chi ha gustato la conversione di Ninive.
Oggi, miei cari, svelo davanti a voi il mistero del cielo, senza veli: un re che lascia il suo trono e strappa la salvezza, strappa il perdono celeste, con una penitenza meravigliosa che è riuscito a ottenere mettendosi nella polvere e nella cenere.
Abbiate fiducia, il tempo della salvezza e della speranza non arriva per caso. Se vuoi una salvezza rapida, se vuoi tempi di ristoro, impara oggi la lezione di Ninive, una lezione per tutte le generazioni: «Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta».
Il segno di Ninive non è inferiore al miracolo della guarigione del cielo nato, o al miracolo della moltiplicazione dei cinque pani e dei due pesci, o della trasformazione dell’acqua in vino.
Il segno di Ninive è superiore a tutti i segni tranne quello della morte e risurrezione di Cristo. Ciò che c’è di nuovo nel segno di Ninive è che la città si è pentita con il richiamo di un profeta. Ora, la voce che ci chiama è molto più grande di tutti i profeti.
Giona predicò “o il pentimento o la morte”, mentre Cristo ci offre la sua morte come potenza viva e vivificante capace di risuscitare dal peccato e dalla morte!
Oggi, cari miei, è il giorno di Ninive e del suo profeta sensibile, il profeta redentore che, quando il mare si è agitato, ha detto “questo è il mio peccato” non “questo è il peccato di Ninive”.
Giona qui interpella ogni ministro, ogni omelista, ogni sacerdote su come vedere il peccato del suo popolo e della sua città e come soffrire, fare contrizione e addirittura morire in riscatto per i suoi figli.

Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore suo Dio e disse:
«Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha esaudito; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sono passati sopra di me. Io dicevo: Sono scacciato lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio. Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore mio Dio. Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore. La mia preghiera è giunta fino a te, fino alla tua santa dimora. Quelli che onorano vane nullità abbandonano il loro amore. Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore» (Gion 2,2-10)

Così devono essere le nostre preghiere nelle tribolazioni. Lamèntati con il Signore, con la tua debolezza:  ”I tuoi dolori li ho superati Signore. Mi hai fatto attraversare la prova e mi hai fatto passare sotto la verga. Ho l’amaro in bocca. Hai reso amaro il mio cuore e la mia anima” o come dice il Profeta, con un’espressione incredibile, tutta piena di gemiti di grazie e di lode: “Mi dolgono le pareti del cuore!” (Ger 4,19)
La preghiera di Giona rappresenta il nuovo salterio per chi cammina sulla via del Golgota che tutte le anime giustificate e perfette nella gloria canteranno certamente nel cielo. E’ la nuova scala sulla quale saliamo per dare uno sguardo sfuggente alla gloria preparata per noi. Sì, così viene strappato il Regno dei cieli! Con una preghiera come quella di Giona mentre era nel profondo degli inferi.
Oggi, cari miei, è il giorno del pentimento capace di strappare i diritti di santi e l’eredità del Figlio di Dio. Oggi, appare una nuova visione della predicazione mediante la sofferenza fino alla morte. Oggi, è un invito ai predicatori, a camminare sulla via della salvezza per loro e per il loro popolo, per il pastore e per il gregge.
Ecco Ninive darci un’immagine di come riconciliarsi con Dio.
O gregge di Dio, piccoli e grandi, vegliardi e lattanti, malati e sani, ecco Ninive davanti a noi, ecco il suo segno. Predicatori del mondo, predicatori della chiesa, ecco Giona, prendetelo a esempio, come era e come diventò.  Giona, dopo aver pregato dall’abisso della prova e dallo spavento della morte, ci mostra come attraversare la prova fino alla fine. Giona è divenuto un predicatore simile a Cristo, e la sua morte è stata considerata simile a una redenzione. Così  con questa prova è stato onorato Giona divenendo l’unico profeta che Cristo ha considerato come modello della sua morte e risurrezione e un segno per i penitenti.

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