Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo. Raniero Cantalamessa


"Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo"
Omelia del Predicatore della Casa Pontificia
p. Raniero Cantalamessa O.F.M. Cap.






Giovanni Paolo II ha presieduto nel pomeriggio del 10 aprile 1998, Venerdì Santo, nella Basilica di san Pietro la Celebrazione della Passione del Signore.
Al termine della Liturgia della Parola, il Predicatore della Casa Pontificia, Padre Raniero Cantalamessa, ha tenuto questa omelia il cui testo è stato pubblicata da "L’Osservatore Romano" Domenica 12 Aprile 1998.


Nella sua lettera apostolica Tertio Millennio adveniente, che, come stella cometa, sta guidando la Chiesa cattolica verso il Giubileo del duemila, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha scritto: "È giusto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli... Essa non può varcare le soglie del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi" (n. 33).


Tra questi peccati assume un rilievo particolare quello commesso nei confronti del popolo ebraico. A conclusione del Simposio che si è tenuto in Vaticano dal 30 ottobre al 1° novembre dell’anno scorso sui cristiani e l’antisemitismo, il Papa affermava: "Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico e alla sua pretesa colpevolezza, generando sentimenti di ostilità verso questo popolo. Essi hanno contribuito ad addormentare le coscienze, di modo che, quando si è scatenata sull’Europa l’ondata delle persecuzioni ispirate da un antisemitismo pagano... la resistenza spirituale di molti non è stata quella che l’umanità era in diritto di aspettarsi da parte dei discepoli di Cristo" (Discorso rivolto ai partecipanti al Simposio il 31 ottobre 1997).


Da tempo sono stati messi in chiaro i fondamenti teologici che permettono questa coraggiosa assunzione di responsabilità, senza intaccare minimamente la nostra fede nella Chiesa, per se stessa, <santa e immacolata> (cfr Lumen Gentium 8: la Chiesa <<sancta simul et semper purificanda>>).


Ma in queste richieste di perdono da parte della Chiesa c’è un significato anche teologico che non deve passare inosservato. Quando la Chiesa si assume la responsabilità delle colpe dei suoi membri, compie l’atto forse più bello che possa fare sulla terra: scagiona Dio, proclama: Dio è innocente, anaitios o Theos, Dio non ci ha colpa; siamo noi che abbiamo peccato. Dice col profeta: <<Al Signore Dio nostro la giustizia; a noi il disonore sul volto>> (Bar 1,15).


Il Venerdì Santo è stato, lungo i secoli, il terreno di cultura privilegiato dell’incomprensione e ostilità verso gli ebrei. È giusto dunque che dal Venerdì Santo parta l’opera di riconciliazione e di <<purificazione della memoria>>. S. Paolo ci dà questa interpretazione dell’evento della croce: <<Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia [ ...] , per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia [ ...] . Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito>> (Ef 2,14-18). I <<due popoli>>, si sa, sono i Giudei e i pagani.


Questa visione profetica dell’Apostolo è stata fortemente oscurata nei fatti. Fu proprio nel corso di un’omelia tenuta un <<Venerdì santo>> in Asia Minore, nel II secolo (ne abbiamo letto un brano nella Liturgia delle ore di ieri) che fu lanciata, per la prima volta, da Melitone di Sardi l’accusa indiscriminata di deicidio nei confronti degli Ebrei: <<Che hai fatto, Israele? Hai ucciso il tuo Signore, durante la grande festa... Ascoltate, o voi stirpi delle genti e vedete. Il Sovrano è oltraggiato, Dio è assassinato... dalla mano di Israele>> (Sulla Pasqua, 73-96: SCh 123, pp.102-116).


È nel contesto di questa polemica antigiudaica, che viene formandosi, già in Melitone, il genere degli Improperia, o Rimproveri, entrato più tardi anche nella liturgia latina dell’adorazione della croce. Si elencano uno ad uno i benefici di Dio per Israele e a ognuno si oppone l’ingratitudine del popolo. <<Lui ti ha fatto uscire dall’Egitto... Tu invece... Lui ti ha nutrito di manna nel deserto...Tu invece...>>.


È vero che in questo ed altri testi simili bisogna fare una larga parte alla retorica, in particolare al genere della diatriba allora in voga. Ma il seme era gettato e lascerà il suo segno nella liturgia (si pensi al famoso aggettivo usato nella preghiera per gli ebrei e ora soppresso), nell’arte e nello stesso folclore, contribuendo a diffondere lo stereotipo negativo dell’Ebreo.


L’icona bizantina della crocifissione quasi sempre mostra ai lati della croce di Cristo due figure femminili. In alcuni casi, tutte e due sono rivolte verso la croce, ma più spesso una guarda la croce, l’altra le volta le spalle, o è addirittura spinta da un angelo ad allontanarsi dalla croce. Sono la Chiesa e la Sinagoga. Si è persa di vista l’affermazione di Paolo che Cristo è morto sulla croce per unire le due realtà, non per dividerle.


Tutto ciò, come notava il Santo Padre, ha reso meno vigilanti i cristiani quando, nel nostro secolo, si è scatenato contro gli ebrei il furore nazista. Ha favorito, insomma, indirettamente, la Shoah, l’Olocausto. Ma già ben prima di questo epilogo fatale, la polemica è servita a giustificare molteplici vessazioni e ha causato al popolo ebraico non poca sofferenza da parte delle popolazioni cristiane e delle stesse istituzioni della Chiesa.


Ma vengo alla cosa che mi sembra più urgente chiarire. In occasione al recente dibattito seguito alla pubblicazione del documento del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani <<We remember>>, un autorevole uomo di cultura ha formulato un giudizio radicale su tutta la questione: <<La fonte di ogni antigiudaismo - ha scritto sulla prima pagina di un grande quotidiano - sta nel Nuovo Testamento: specie nelle lettere di San Paolo e nell’Apocalisse. Un figlio d’Israele non può dimenticare che l’epoca dei Patriarchi, nei quali egli è abituato a vedere l’instaurazione della legge e il culmine del fiducioso rapporto con Dio, venga giudicata da Paolo come un tempo dominato dal Peccato e dalla Morte. E non può tollerare che Gerusalemme, il luogo sacro per eccellenza, venga considerata dall’autore dell’Apocalisse come la concentrazione del male fisico e metafisico, dove regnano il Dragone e la Bestia>>.


L’unico rimedio - prosegue l’autore - sarebbe <<censurare san Paolo, censurare l’Apocalisse, e quei brani del Vangelo dove il sentimento antiebraico si esprime più intensamente>>. Siccome, però, non si può chiedere ai cristiani di fare questo (e sarebbe anzi una perdita se lo facessero), non resta che coltivare ognuno le proprie radici religiose, in spirito di tolleranza, tendendo a quei valori universali che sono al di là di ogni religione e che tutte le accomuna (P. Citati, <<Le radici dell’odio contro gli ebrei>>, in <<Repubblica>>, 18 marzo 1998).


Un discorso, come si vede, di grande pacatezza. Ma a me sembra di scorgere in esso un equivoco fondamentale. Paolo non considera <<un tempo dominato dal peccato e dalla morte>> solo quello dei Patriarchi, ma quello di tutta l’umanità prima di Cristo. <<Giudei e Greci - afferma nella lettera ai Romani - tutti, sono sotto il dominio del peccato (Rm 3,9). All’interno di questa comune situazione di peccato e di morte, viene anzi riconosciuta al popolo ebraico una chiara superiorità. <<Qual è dunque la superiorità del giudeo? O quale l’utilità della circoncisione? Grande, sotto ogni aspetto. Anzitutto perché a loro sono affidate le rivelazioni di Dio>> (Rm 3,1-2).


Come si può accusare Paolo di non riconoscere in Abramo il <<culmine del fiducioso rapporto con Dio>>, se proprio per questo egli è definito da lui <<padre di tutti i credenti>>? (cfr Rm 4,16). Molta confusione, a proposito di S. Paolo, deriva dall’aver scambiato per polemica <<contro i giudei>>, quella che è, in realtà, polemica contro <<i giudei cristiani>>.


D’altra parte, le cose, del resto, che Paolo e Giovanni dicono degli ebrei sono un niente, in confronto a quello che dicono dei pagani. Essi sono definiti <<senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei alle promesse, senza speranza e senza Dio in questo mondo>> (Ef 2,11). La stessa <<Babilonia>> dell’Apocalisse, sede della Bestia e del Dragone, sappiamo che non è da identificarsi primariamente con Gerusalemme, ma con la Roma pagana, la città <<dei sette colli>> (Ap 17,9).


La risposta giusta al problema sollevato, credo sia nelle parole del Papa ricordate sopra: "Nel mondo cristiano sono troppo a lungo circolate interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico>>. L’antisemitismo non nasce da fedeltà alle Scritture cristiane, ma da infedeltà ad esse. In questo senso, la situazione nuova che si è creata nel dialogo tra ebrei e cristiani si rivela utile per capire meglio le stesse nostre Scritture. È anch’essa un segno dei tempi. E vediamo in che senso.


Rifacciamoci alla più antica formulazione del mistero pasquale, al kerigma. Esso non menziona mai gli ebrei come causa della morte di Cristo, ma <<i nostri peccati>>: <<Cristo è morto per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione>> (Rm 4,25; 1Cor 15,3). Gli stessi simboli di fede, che pure fanno il nome di Ponzio Pilato, mai menzionano gli Ebrei, parlando della crocifissione e morte di Cristo.


Certo, alcuni capi giudei hanno svolto un ruolo attivo nella condanna di Gesù. Ce lo ha ricordato il racconto della passione che abbiamo appena ascoltato. Ma sono state cause materiali. Nella misura in cui si insiste su queste circostanze concrete, dando loro un valore teologico, oltre che storico, si perde di vista la portata universale e cosmica della morte di Cristo. Si banalizza il dramma della redenzione, facendone il risultato di circostanze contingenti. <<Egli - scrive Giovanni - è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo>> (1 Gv 2,2). Di tutto il mondo: anche di chi non lo sa, o non lo crede!


Un altro fatto viene dimenticato nella polemica contro gli Ebrei: essi hanno agito per ignoranza (anche se questo non vuole dire senza colpa). Lo dice Cristo sulla croce: <<Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno>> (Lc 23,34). <<Ora, fratelli, io so che avete agito per ignoranza, così come i vostri capi>>, dice Pietro dopo la Pentecoste (At 3,17; cfr At 13,27). <<Se l’avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria>>, dice Paolo (1Cor 2,8).


Vogliamo dunque continuare a parlare di deicidio? Facciamolo pure, dal momento che un deicidio, secondo le Scritture e la nostra dogmatica, c’è stato. Ma sappiamo che a commetterlo non sono stati solo gli ebrei: siamo stati tutti noi.


Ma se <<le radici dell’odio contro gli Ebrei>> non sono nel Nuovo Testamento, dove sono? Come e quando si è prodotta la frattura? Io credo che non sia difficile scoprirlo. Gesù, gli apostoli, il diacono Stefano (cfr At 7) hanno polemizzato contro i capi giudei, usando, a volte, toni durissimi. Ma con che animo lo facevano? Gesù, quando annunciava la distruzione di Gerusalemme, piangeva, come sulla morte dell’amico Lazzaro. Stefano moriva gridando: <<Signore, non imputare ad essi questo peccato!>>.


Paolo, il principale imputato in tutta questa vicenda, arriva a dire parole che vanno venire i brividi: <<Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne>> (Rm 9,1-3). Paolo, per il quale Cristo è <<il vivere stesso>> (<<mihi vivere Christus est>>), accetterebbe di essere separato da lui, scomunicato, se questo potesse servire a fare accettare il Messia dai suoi consanguinei secondo la carne!


Questi uomini parlavano dall’interno del popolo ebraico, sentendosi solidali con esso, appartenenti alla stessa realtà religiosa e umana. Potevano dire: <<Sono ebrei? Anch’io!>>. Quando si ama si può parlare anche così. I profeti, Mosè stesso, erano stati forse meno severi nei confronti di Israele? A volte lo erano stati assai di più! E’ da essi che sono mutuate le espressioni più severe del Nuovo Testamento. Gli stessi <<Improperi>>, dove hanno la loro fonte ultima, se non nel genere letterario del processo sacrale (il rib) che Dio intenta, nell’Antico Testamento, nei confronti del suo popolo? (cfr Dt 32; Michea 6, 3-4; i Salmi 77 e 105).


Ma forse che gli Ebrei si sono sentiti offesi da Mosè e dai profeti e li hanno accusati , per questo, di antisemitismo? Sanno bene che, all’occorrenza, Mosè è pronto a farsi radiare lui stesso dal libro della vita, piuttosto che salvarsi da solo, senza il suo popolo. In fondo, non è diverso di quello che avviene anche tra noi. Dante Alighieri rivolge agli italiani invettive tali che, se uno straniero si azzardasse a farne propria una minima parte, ne faremmo una tragedia. Da lui le accettiamo; sentiamo che è dei nostri, che parla con amore, non con disprezzo.


Cosa è successo, invece, nel passaggio dalla primitiva Chiesa Giudeo-cristiana alla Chiesa dei gentili? I gentili hanno raccolto la polemica di Gesù e degli apostoli contro il giudaismo, ma non il loro amore per i Giudei! La polemica si è trasmessa, l’amore no. Quando parleranno dell’avvenuta distruzione di Gerusalemme, i Padri della Chiesa non lo fanno piangendo. Tutt’altro!


La radice del problema è tutta qui: mancanza d’amore, cioè infedeltà al precetto centrale del Vangelo: Noi cristiani abbiamo continuato a lagnarci fino alla vigilia della Shoah, dell’odio anticristiano degli Ebrei, della loro opposizione alla diffusione del Vangelo (ciò che, specie agli inizi, fu certamente vero), ma non ci accorgevamo della trave che c’era nel nostro cuore!


Non si tratta di fare un processo sommario al passato. <<Un corretto giudizio storico - scrive il Papa nella Tertio Millennio Adveniente - non può prescindere da un’attenta considerazione dei condizionamenti culturali del momento>>. Si riteneva infatti unanimemente, allora, che i diritti della verità venissero prima di quelli della persona.


Non si tratta dunque di intentare un processo al passato. E tuttavia, prosegue la lettera del Papa, <<la considerazione delle circostanze attenuanti non esonera la Chiesa dal dovere rammaricarsi profondamente per le debolezze di tanti suoi figli, che ne hanno deturpato il volto, impedendole di riflettere pienamente l’immagine del suo Signore crocifisso, testimone insuperabile di amore paziente e di umile mitezza>> (TMA, 35). (Quando la Chiesa parla dei suoi <<figli>>, sappiamo che include in essi anche i suoi <<padri>>!).


Quando io parlo della colpa contro i fratelli Ebrei, non penso solo a quella degli altri, delle generazioni che mi hanno preceduto. Penso anche alla mia. Ricorderò sempre il momento in cui iniziò la mia conversione su questo punto. Ero sull’aereo di ritorno dal mio primo viaggio in Terra Santa. Leggevo la Bibbia e mi cadde sotto gli occhi la frase della Lettera agli Efesini: <<Nessuno ha mai preso in odio la propria carne>> (Ef 5,29). Capii che essa si applica anche al rapporto di Gesù con il suo popolo. E di colpo i miei pregiudizi, se non proprio ostilità, nei confronti degli Ebrei, assorbiti insensibilmente negli anni di formazione, mi apparvero una offesa recata a Gesù stesso.


Egli ha assunto tutto di noi, eccetto il peccato. Ma l’amore della propria patria e la solidarietà con la propria gente non è un peccato, è un valore. Dunque, in forza della stessa incarnazione, Gesù - chiamiamolo ormai con il suo nome ebraico Yeshua - ama il popolo d’Israele. Di un amore così forte e puro quale nessun patriota al mondo ha mai avuto per la sua patria. Il peccato contro gli ebrei è anche un peccato contro l’umanità di Cristo.


Ho capito che dovevo convertirmi a Israele, <<l’Israele di Dio>>, come lo chiama l’Apostolo, che non coincide necessariamente e in tutto con l’Israele politico, anche se non si può neppure separare da esso. Ho capito che questo amore non è una minaccia per nessun altro popolo, non forma alleanze e blocchi contro nessuno, perché Gesù ci ha insegnato che il nostro cuore cristiano deve aprirsi all’universalità e aiutare Israele stesso a farlo. <<Forse Dio, è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche di tutti gli altri?>> (cfr Rm 3,29).


Questo mi ha reso particolarmente cara la figura di Edith Stein, questa nuova Rebecca che ha portato nel suo grembo due nazioni e due popoli in lotta tra loro, la Chiesa e la Sinagoga, e le ha riconciliate, versando il suo sangue per l’una e per l’altra. Edith Stein è il modello del nuovo amore cristiano per Israele, che trova in Gesù di Nazareth, non un ostacolo, ma il suo più grande incentivo. <<Lei non può credere - scriveva a un sacerdote suo amico - cosa significhi per me essere figlia del popolo eletto, appartenere a Cristo, non solo per lo spirito, ma anche per il sangue>>.


Sentire scorrere nelle proprie vene lo stesso sangue di Cristo, la riempiva di commozione e di fierezza.


Sono diventate celebri le parole da lei scritte alle prime avvisaglie della persecuzione nazista contro gli Ebrei: <<Lì, sotto la croce, capii il destino del popolo di Dio. Pensai: coloro che sanno che questa è la croce di Cristo hanno il dovere di prenderla su di sé, in nome di tutti gli altri>>. Quando lei e sua sorella Rosa escono dalla porta della clausura tra due gendarmi, per essere deportate ad Auschwitz, qualcuno dei presenti vede Edith stringere forte la mano della sorella e sussurrarle: <<Vieni, noi andiamo a morire per il nostro popolo>>.


Ma abbiamo un modello più grande di Edith Stein, Maria - chiamiamo anche lei con il suo bel nome ebraico Miriam - , la Madre di Gesù. Ella è <<figura della Chiesa>> anche in questo. Modello di una Chiesa non ancora macchiata di alcuna colpa contro Israele, non sfiorata da alcuna ostilità. I sentimenti di Maria verso il suo popolo sono espressi nel Magnificat:


<<Ha soccorso Israele suo servo,
ricordandosi della sua misericordia.
Come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza per sempre>>.


<<Israele, Abramo, i nostri padri>>: stessa commozione di appartenere al popolo dell’alleanza. << Alla sua discendenza per sempre>>: stessa certezza, come in Paolo, della irrevocabilità della promessa fatta a Israele.






Ritorniamo, per finire, al passo della lettera agli Efesini. Il muro di inimicizia, abbattuto sulla croce, si è riformato e ispessito nei secoli. Dobbiamo abbatterlo di nuovo, mediante il pentimento e la richiesta di perdono a Dio e ai fratelli Ebrei. Bisogna che i gesti e le parole di riconciliazione posti ai vertici della Chiesa non restino nei documenti, ma arrivino al cuore di tutti i battezzati. Solo per questo ho osato parlarne qui. Un tempo, in occasione di grandi missioni, si faceva il falò delle vanità. Noi, in questo Venerdì Santo, facciamo il falò delle ostilità. <<Distruggiamo in noi stessi l’inimicizia>>. In noi stessi, non negli altri!


Quando, quando si realizzerà il desiderio di Gesù di riunire i figli del suo popolo, come la chioccia raccoglie sotto le ali i suoi pulcini? Noi cristiani possiamo affrettare o ritardare il giorno in cui, per le strade di Gerusalemme, si griderà di nuovo, come il giorno delle Palme: <<Benedetto colui che viene nel nome del Signore!>> (cfr Lc 13,34-35; 19, 38). Il giorno in cui Gesù di Nazareth potrà essere riconosciuto dal suo popolo, se non ancora il Messia atteso e il Figlio di Dio come da noi, almeno come uno dei suoi grandi profeti.


Quest’anno, per una rara coincidenza, la Pasqua ebraica cade alla stessa data della nostra. Celebriamo insieme, in questo giorno, il memoriale della salvezza. La Pasqua è il segno visibile e istituzionale della continuità tra Israele e la Chiesa.


C’è un testo che gli Ebrei recitavano - e recitano tuttora - durante il Seder pasquale. Melitone di Sardi lo ha fatto suo e lo ha introdotto nella liturgia cristiana, proprio nel brano dell’omelia che abbiamo letto ieri (segno che, nonostante la polemica verbale, c’era ancora, a quel tempo, una notevole conoscenza e osmosi tra le due comunità). Lo recitiamo insieme, in questo giorno, noi e loro, in spirito di comune lode e ringraziamento a Dio:


Egli ci ha fatti passare:
dalla schiavitù alla libertà,
dalla tristezza alla gioia,
dal lutto alla festa,
dalle tenebre alla luce,
dalla servitù alla redenzione


(Pesachim X, 5; cfr Melitone, Sulla Pasqua, 68; 
SCh 123, pp. 96-98).


Aggiungiamo: 
 Ci ha fatti passare dall’ostilità alla amicizia. 
 Ha abbattuto il muro di separazione che era frammezzo. 
 Possiamo prepararci a varcare, riconciliati, la soglia del nuovo millennio.

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