Lapidazione di S. Stefano Protomartire, Breviario di Martino d'Aragona
La carità che fece scendere Cristo dal cielo sulla terra,
innalzò Stefano dalla terra al cielo.
La carità che fu prima nel Re, rifulse poi nel soldato.
Stefano quindi per meritare la corona che il suo nome significa,
aveva per armi la carità e con essa vinceva dovunque.
Per mezzo della carità non cedette ai Giudei
che infierivano contro di lui;
per la carità verso il prossimo pregò per quanti lo lapidavano.
Con la carità confutava gli erranti perché si ravvedessero;
con la carità pregava per i lapidatori perché non fossero puniti.
Sostenuto dalla forza della carità vinse Saulo che infieriva crudelmente,
e meritò di avere compagno in cielo
colui che ebbe in terra persecutore.
San Fulgenzio di Ruspe
Beato Martín Martínez Pascual
La foto-agenzia EFE, riflette il volto di un sacerdote spagnolo, catturato dai miliziani repubblicani durante la guerra civile spagnola, alcuni momenti prima di essere fucilato il 18 di agosto del 1936. L'autore dell'istantanea è il fotografo tedesco Hans Gutmann. Il sacerdote dell'immagine è il beato Martín Martínez Pascual presbitero e martire, membro della Società di Sacerdoti Operai Diocesani. La fotografia l'aveva nel suo ufficio il Decano della Facoltà di Teologia di Madrid San Dámaso, Pablo Dominguez, morto qualche tempo fa in un incidente di montagna. Su questa fotografio, Pablo affermò: "La ottenni a Mosca, in un congresso. Mi piacque e, leggendo le frasi del riquadro, mi interessai alla cosa ancora di più. È la fotografia - mentre lo spiegava gli brillavano gli occhi, si sentiva emozionato e con voglia di imitarlo; sembrava che parlasse di sé - di un sacerdote spagnolo, il Beato Martín Martínez, operaio diocesano, naturale di Valdealgorfa (Teruel), diocesi di Saragozza. Fissatevi bene sul suo sguardo fermo, le braccia, sicuro e coraggioso..."
Uomini di Dio (non letterale, e questo ha suscitato qualche polemica: la traduzione letterale sarebbe "Uomini e dei", a sottolineare il rapporto tra diverse religioni e non la focalizzazione solo su "questi" uomini di Dio), il film di Xavier Beauvois racconta la vita e la morte di un gruppo di monaci cistercensi francesi nell’Algeria degli anni ’90, insanguinata dalla guerra tra i terroristi del Fronte Islamico di Salvezza e il regime militare corrotto dell’epoca. I sette vivono nel convento di Thibirine nell’amore, ricambiato, per la popolazione musulmana dei dintorni, che vede nei monaci cattolici un punto di riferimento e di sicurezza. E anche di aiuto concreto soprattutto per le cure mediche che uno dei religiosi (frère Luc) riesce ad assicurare a tutti, senza distinzioni, ma con particolare riguardo a donne e bambini. Le cose, si avverte, non sono però così idilliache – e infatti i fondamentalisti della GIA erano in azione già da anni – ma è la strage di un gruppo di operai croati cristiani, in un cantiere nei dintorni, da parte dei rivoluzionari islamici a far capire ai monaci che sono in pericolo. Di lì a poco un’irruzione nel convento farà temere il peggio, ma non avrà conseguenze; anzi, instilla nel capo dei terroristi una forma di rispetto per frère Christian de Chergé, priore del convento, fermo nella sua fede (i terroristi, fra l’altro, irrompono, la notte di Natale) e mite al tempo stesso. Ma nel gruppo di religiosi serpeggia la paura, non tutti sono disposti ad aspettare una morte, possibile se non probabile. Passeranno lunghi mesi, tra la tentazione di scappare e tornare in Francia e la convinzione di assolvere a un compito più grande, nella fede profonda in Cristo e nell’amicizia reciproca tra di loro, confortando un’ancor più impaurita popolazione misera e bisognosa del loro aiuto. Finché il momento del martirio, per sette di loro, si compirà. Importa sapere se furono davvero i terroristi che li rapirono o l’esercito che li inseguiva per far ricadere su di loro il sangue dei monaci?
Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe;
e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani.
E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Il fratello darà a morte il fratello e il padre il figlio, e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire. E sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato.
IL COMMENTO
"Guardatevi dagli uomini" ma non smettete di guardare ogni uomo con gli occhi di Cristo, perchè essi, fissando gli occhi su di voi, vedranno il vostro volto come quello di un angelo (cfr. Atti 6,15). Nei vostri occhi vedranno il Cielo aperto ed il Figlio di Dio vittorioso sulla morte e il peccato intercedere alla destra del Padre per ciascun uomo, anche per l'ultimo e peggior peccatore. Oggi, il primo giorno di vita del Signore appena concluso, ci consegna il primo frutto della sua venuta nella carne. Carne offerta in una mangiatoia, carne inerme, carne mangiata. Stefano, carne perfetta di Colui che ne ha preso la carne per farne un'offerta gradita e santa, carne martire a corona di uno sguardo di misericordia. Stefano, parole di fuoco e volto d'angelo, Verità e Misericordia abbracciate per salvare un mondo di aguzzini, perduti nell'irragionevolezza del peccato. Stefano, il primo di una moltitudine immensa, la schiera dei martiri che innervano da due millenni la Chiesa del sangue stesso di Cristo, Bambino sepolto in una mangiatoia perchè ogni adulto sepolto nella morte che è salario del peccato, possa ridiventare bambino ed entrare nel Paradiso.
"Apparvero la bontà di Dio e il suo amore per gli uomini... Nel bambino nella stalla di Betlemme, si può, per così dire, toccare Dio e accarezzarlo" (Benedetto XVI, Omelia nella Notte di Natale 2011). Ma in quel Bambino, Dio può essere anche ferito, violato, lapidato, ucciso. Dio può morire nella carne di suo Figlio. Dio ha gettato se stesso nel gelo e nel buio del mondo, attraverso l'unica carne santa e immacolata di Maria; vi è entrato dalla porta di servizio, quella di una stalla lercia e maleodorante, senza difese, esposto ad ogni ingiustizia, ai sassi e agli sputi, al vilipendio e alla menzogna, alla calunnia e all'ira, alla concupiscenza e all'idolatria, all'odio cieco e sordo, all'avidità insaziabile e all'orgoglio smisurato. Dio ha dimenticato d'essere Dio, non ha difeso gelosamente la sua dignità, si è confuso tra le carni olezzanti di peccato, celando l'immacolatezza della sua ed esponendo perfino quella di sua Madre al sospetto e all'ingiuria calunniosa, per puro, unico e incredibile amore. Dio s'è fatto il più piccolo tra i piccoli, un granello di senape, perchè le fauci del male e del maligno ne avessero più facilmente ragione; gli uomini avevano reso semplice il copione al demonio, Dio lo ha reso ancor più facile per spingerlo alla disfatta: si è fatto uomo come tutti, e di più, si è fatto servo e peccato, preda succulenta per attirare il predatore e farne la preda da consegnare al Padre, ormai smascherata e vinta per sempre. Dio ha cercato il limite estremo della libertà dell'uomo, laddove egli ha toccato e mangiato del frutto che gli era stato escluso, il confine oltrepassato disgraziatamente, quello entro cui sarebbe dovuto permanere quale creatura obbediente, per vivere nella comunione perfetta con il Creatore. Attraverso le mani pure e sante di Maria, Dio sì è fatto deporre su quel fronte insanguinato che ha visto l'uomo cedere alla menzogna e perdere l'innocenza, la soglia della libertà toccata e dischiusa sulla tenebra della morte. Nudo tra i denudati, piccolo tra gli umiliati, indifeso tra i disarmati, peccato tra i peccatori, schiavo tra gli schiavi: Dio si è fatto carne da toccare come quel frutto, azzannato da un cuore iniettato d'orgoglio, saturo di superbia, accecato di menzogna. Si è fatto uccidere, e dalla sua morte si è sprigionata la Grazia del perdono, della Vita stupefacente ed eterna, vittoriosa su ogni peccato.
Una mangiatoia, un Bambino e una Madre. Come al Principio, un nuovo ed eterno Principio: un albero, un frutto e una donna. In Gesù il destino di morte è trasformato in un'alba di Vita. Toccare, mangiare e nascere, invece di toccare, mangiare e morire. Il Mistero del Natale, come raccontano le icone dell'Oriente, si svela nel Mistero di Pasqua. Il segno, l'unico, annunciato dagli angeli, l'unica ragione della gioia e della pace: un bimbo adagiato nella morte per seminarvi la Vita. Era notte a Betlemme, era notte a Gerusalemme, è notte quella che avvolge l'umanità con il potere mondano e perciò effimero del grande drago, il seduttore di tutta la terra, il diavolo o satana; è la notte di Erode, il drago infuriato contro la donna, Maria, la Nuova Eva madre di ogni vivente, la Chiesa che depone ancora una volta, ogni giorno su ogni centimetro della terra, il suo Bambino indifeso, perchè sia toccato e mangiato, e offrire così, senza stancarsi, il frutto squisito del perdono. E' la notte che ha ingoiato Stefano, carne bambina appena nata, deposta nella mangiatoia della storia della Chiesa e del mondo; Stefano, Cristo vivo e risorto in Lui, amore puro e gratuito che risplende come un angelo nella notte dei pastori, annuncio e profezia di gioia vera e pace autentica; Stefano, diacono e servo, immagine pura del Servo di Yahwè, agnello di Dio condotto al sacrificio, nella sua carne è nascosto un frammento della passione di Gesù, perchè essa giunga, viva, visibile, toccabile, afferrabile per quegli assassini lì di fronte, così libera da essere di nuovo uccisa e diventare ancora viscere di misericordia nelle quali rinascere in una vita nuova. Stefano, che il drago cerca per uccidere, come il resto della sua discendenza, pieno di ira "contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù".
Una mangiatoia, un Bambino e una Madre, il segno del martirio d'amore, il segno di Giona, unico segno per l'unica salvezza. Essa passa per la via dolorosa del Calvario, la Betlemme compiuta: una Croce e una tomba come un presepe; un Uomo fatto bambino dalle percosse, dagli insulti, dai chiodi; e una Madre attonita e stupita, dolore di una spada a trapassarle l'anima, laddove alberga la sua fede indistruttibile. Il Golgota, il passaggio angusto al Paradiso perduto da ogni uomo, e il Figlio accompagnato da sua Madre, ancora una volta su quella soglia, a decidere il bene per chi ha compiuto il male. Il Figlio in ogni suo fratello, in Stefano, il primo, e via via in ogni altro, sino al beato Martín Martínez Pascual (il sacerdote martire ritratto nella foto pochi istanti prima di essere fucilato durante la guerra civile spagnola), gli occhi d'angelo fissi sui suoi assassini. Guardava la morte, come Stefano, come ogni martire, fissava gli uomini e li vedeva salvi, le vesti bianche nel sangue del suo Signore, quello che, per loro, era in procinto di versare. Un prete, un uomo, un bambino. Un agnello muto consegnato ai tribunali delle ideologie e dei criteri mondani, flagellato nell'anima dai giudizi, dalle gelosie, dai rancori e dalle invidie. Odiato da tutti, senza esclusione, perchè in tutti - padre o fratello, amico o fidanzata, figlio o collega che siano poco importa - è vivo il veleno del serpente antico. Esso cerca avido la carne di Cristo dove sciogliersi, ignaro che questo si tradurrà nella sua fine. L'ha cercata in Stefano, in Pietro, in Martin, in ciascuno di noi oggi. Per quest'ora siamo venuti al mondo, la stessa del Figlio che ci ha amati e riscattati: l'ora nella quale guardarsi da compromessi e legami carnali, e fissare ogni uomo con gli occhi di Cristo. Lo Spirito parlerà nel nostro sguardo, nelle nostre parole - ove esse fossero necessarie - nei nostri gemiti sotto la pioggia di sassi e spari e flagelli: "Padre perdonali, non imputare loro questo peccato". Parole di un angelo, martire e apostolo mite dell'amore che vince il peccato.
San Giovanni Crisostomo (c. 345-407), sacerdote ad Antiochia poi vescovo di Costantinopoli, dottore della Chiesa
Omelia per il venerdì santo «La Croce e il ladrone»
«Signore, non imputar loro questo peccato»
Imitiamo il Signore e preghiamo per i nostri nemici... Egli era crocifisso eppure pregava il Padre suo per coloro che lo mettevano in croce. Ma come potrei imitare il Signore, ci si può domandare? Se tu vuoi, lo puoi fare. Se tu non fossi capace di farlo, come avrebbe potuto dire: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore»? (Mt 11,29)...
Se fai fatica a imitare il Signore, imita almeno colui che è suo servo, suo diacono. Parlo di Stefano. Egli infatti ha imitato il Signore. Come Cristo fra coloro che lo crocifiggevano, senza tener conto della croce e del suo stato, implorava il Padre in favore dei suoi torturatori (Lc23,34), così il suo servo, circondato da coloro che lo lapidavano, aggredito da ogni parte, colpito dalle pietre che gli scagliavano contro, senza tener conto del dolore che gli procuravano, diceva: «Signore, non imputar loro questo peccato» (At 7,60). Vedi come parlava il Figlio e come prega il servo? Il primo dice: «Padre, perdona loro questa colpa: non sanno quello che fanno» e il secondo dice: «Signore, non imputare loro questa colpa». Del resto, affinché possiamo capire meglio con quale ardore pregava, notiamo che egli non pregava soltanto in piedi, sotto i colpi delle pietre, ma inginocchiatosi parlava con convinzione e compassione...
Cristo dice: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Stefano esclama: «Signore, non imputar loro questo peccato». A sua volta Paolo dice: «Offro questo sacrificio a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne» (cf Rm 9,3). Mosé dice: « Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!». Davide dice : «La tua mano venga contro di me e contro la casa di mio padre!» (2 Sam 24,17). ... Quale perdono possiamo ottenere se facciamo il contrario di quanto ci è richiesto e preghiamo contro i nemici, mentre il Signore stesso ed i suoi servi dell'Antico e del Nuovo Testamento ci esortano a pregare in favore di essi?
Dai «Discorsi» di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo
(Disc. 3, 1-3. 5-6; CCL 91 A, 905-909)
Le armi della carità
Ieri abbiamo celebrato la nascita nel tempo del nostro Re eterno, oggi celebriamo la passione trionfale del soldato.
Ieri infatti il nostro Re, rivestito della nostra carne e uscendo dal seno della Vergine, si è degnato di visitare il mondo; oggi il soldato, uscendo dalla tenda del corpo, è entrato trionfante nel cielo.
Il nostro Re, l'Altissimo, venne per noi umile, ma non poté venire a mani vuote; infatti portò un grande dono ai suoi soldati, con cui non solo li arricchì abbondantemente, ma nello stesso tempo li ha rinvigoriti perché combattessero con forza invitta. Portò il dono della carità, che conduce gli uomini alla comunione con Dio.
Quel che ha portato, lo ha distribuito, senza subire menomazioni; arricchì invece mirabilmente la miseria dei suoi fedeli, ed egli rimase pieno di tesori inesauribili.
La carità, dunque, che fece scendere Cristo dal cielo sulla terra, innalzò Stefano dalla terra al cielo. La carità che fu prima nel Re, rifulse poi nel soldato.
Stefano quindi per meritare la corona che il suo nome significa, aveva per armi la carità e con essa vinceva dovunque. Per mezzo della carità non cedette ai Giudei che infierivano contro di lui; per la carità verso il prossimo pregò per quanti lo lapidavano. Con la carità confutava gli erranti perché si ravvedessero; con la carità pregava per i lapidatori perché non fossero puniti.
Sostenuto dalla forza della carità vinse Saulo che infieriva crudelmente, e meritò di avere compagno in cielo colui che ebbe in terra persecutore.
La stessa carità santa e instancabile desiderava di conquistare con la preghiera coloro che non poté convertire con le parole.
Ed ecco che ora Paolo è felice con Stefano, con Stefano gode della gloria di Cristo, con Stefano esulta, con Stefano regna. Dove Stefano, ucciso dalle pietre di Paolo, lo ha preceduto, là Paolo lo ha seguito per le preghiere di Stefano.
Quanto è verace quella vita, fratelli, dove Paolo non resta confuso per l’uccisione di Stefano, ma Stefano si rallegra della compagnia di Paolo, perché la carità esulta in tutt’e due. Sì, la carità di Stefano ha superato la crudeltà dei Giudei, la carità di Paolo ha coperto la moltitudine dei peccati, per la carità entrambi hanno meritato di possedere insieme il regno dei cieli.
La carità dunque è la sorgente e l’origine di tutti i beni, ottima difesa, via che conduce al cielo. Colui che cammina nella carità non può errare, né aver timore. Essa guida, essa protegge, essa fa arrivare al termine.
Perciò, fratelli, poiché Cristo ci ha dato la scala della carità, per mezzo della quale ogni cristiano può giungere al cielo, conservate vigorosamente integra la carità, dimostratevela a vicenda e crescete continuamente in essa.
Benedetto XVI - Santo Stefano Protomartire.
Udienza Generale, Mercoledì, 10 gennaio 2007
Cari fratelli e sorelle,
...Santo Stefano è il più rappresentativo di un gruppo di sette compagni. La tradizione vede in questo gruppo il germe del futuro ministero dei ‘diaconi’, anche se bisogna rilevare che questa denominazione è assente nel Libro degli Atti. L’importanza di Stefano risulta in ogni caso dal fatto che Luca, in questo suo importante libro, gli dedica due interi capitoli.
Il racconto lucano parte dalla constatazione di una suddivisione invalsa all’interno della primitiva Chiesa di Gerusalemme: questa era, sì, interamente composta da cristiani di origine ebraica, ma di questi alcuni erano originari della terra d'Israele ed erano detti «ebrei», mentre altri di fede ebraica veterotestamentaria provenivano dalla diaspora di lingua greca ed erano detti «ellenisti». Ecco il problema che si stava profilando: i più bisognosi tra gli ellenisti, specialmente le vedove sprovviste di ogni appoggio sociale, correvano il rischio di essere trascurati nell'assistenza per il sostentamento quotidiano. Per ovviare a questa difficoltà gli Apostoli, riservando a se stessi la preghiera e il ministero della Parola come loro centrale compito decisero di incaricare «sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza» perché espletassero l'incarico dell’assistenza (At 6, 2-4), vale a dire del servizio sociale caritativo. A questo scopo, come scrive Luca, su invito degli Apostoli i discepoli elessero sette uomini. Ne abbiamo anche i nomi. Essi sono: «Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timone, Parmenàs e Nicola. Li presentarono agli Apostoli, i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani» (At 6,5-6).
...La cosa più importante da notare è che, oltre ai servizi caritativi, Stefano svolge pure un compito di evangelizzazione nei confronti dei connazionali, dei cosiddetti “ellenisti”, Luca infatti insiste sul fatto che egli, «pieno di grazia e di fortezza» (At 6,8), presenta nel nome di Gesù una nuova interpretazione di Mosè e della stessa Legge di Dio, rilegge l’Antico Testamento nella luce dell’annuncio della morte e della risurrezione di Gesù. Questa rilettura dell’Antico Testamento, rilettura cristologica, provoca le reazioni dei Giudei che percepiscono le sue parole come una bestemmia (cfr At 6,11-14). Per questa ragione egli viene condannato alla lapidazione. E san Luca ci trasmette l'ultimo discorso del santo, una sintesi della sua predicazione. Come Gesù aveva mostrato ai discepoli di Emmaus che tutto l'Antico Testamento parla di lui, della sua croce e della sua risurrezione, così santo Stefano, seguendo l'insegnamento di Gesù, legge tutto l'Antico Testamento in chiave cristologica. Dimostra che il mistero della Croce sta al centro della storia della salvezza raccontata nell'Antico Testamento, mostra che realmente Gesù, il crocifisso e il risorto, è il punto di arrivo di tutta questa storia. E dimostra quindi anche che il culto del tempio è finito e che Gesù, il risorto, è il nuovo e vero “tempio”. Proprio questo “no” al tempio e al suo culto provoca la condanna di santo Stefano, il quale, in questo momento — ci dice san Luca— fissando gli occhi al cielo vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra. E vedendo il cielo, Dio e Gesù, santo Stefano disse: «Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio» (At 7,56). Segue il suo martirio, che di fatto è modellato sulla passione di Gesù stesso: “E così lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: "Signore Gesù, accogli il mio spirito". Poi piegò le ginocchia e gridò forte: "Signore, non imputar loro questo peccato". Detto questo, morì”. (cfr At 7,59-60).
Il luogo del martirio di Stefano a Gerusalemme è tradizionalmente collocato poco fuori della Porta di Damasco, a nord, dove ora sorge appunto la chiesa di Saint-Étienne accanto alla nota École Biblique dei Domenicani. L'uccisione di Stefano, primo martire di Cristo, fu seguita da una persecuzione locale contro i discepoli di Gesù (cfr At 8,1), la prima verificatasi nella storia della Chiesa. Essa costituì l'occasione concreta che spinse il gruppo dei cristiani giudeo-ellenisti a fuggire da Gerusalemme e a disperdersi. Cacciati da Gerusalemme, essi si trasformarono in missionari itineranti: «Quelli che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio» (At 8,4). La persecuzione e la conseguente dispersione diventano missione. Il Vangelo si propagò così nella Samaria, nella Fenicia e nella Siria fino alla grande città di Antiochia, dove secondo Luca esso fu annunciato per la prima volta anche ai pagani (cfr At 11,19-20) e dove pure risuonò per la prima volta il nome di «cristiani» (At 11,26)....
La storia di Stefano dice a noi molte cose. Per esempio, ci insegna che non bisogna mai disgiungere l'impegno sociale della carità dall'annuncio coraggioso della fede. Era uno dei sette incaricato soprattutto della carità. Ma non era possibile disgiungere carità e annuncio. Così, con la carità, annuncia Cristo crocifisso, fino al punto di accettare anche il martirio. Questa è la prima lezione che possiamo imparare dalla figura di santo Stefano: carità e annuncio vanno sempre insieme. Soprattutto, santo Stefano ci parla di Cristo, del Cristo crocifisso e risorto come centro della storia e della nostra vita. Possiamo comprendere che la Croce rimane sempre centrale nella vita della Chiesa e anche nella nostra vita personale. Nella storia della Chiesa non mancherà mai la passione, la persecuzione. E proprio la persecuzione diventa, secondo la celebre frase di Tertulliano, fonte di missione per i nuovi cristiani. Cito le sue parole: «Noi ci moltiplichiamo ogni volta che da voi siamo mietuti: è un seme il sangue dei cristiani» (Apologetico 50,13: Plures efficimur quoties metimur a vobis: semen est sanguis christianorum). Ma anche nella nostra vita la croce, che non mancherà mai, diventa benedizione. E accettando la croce, sapendo che essa diventa ed è benedizione, impariamo la gioia del cristiano anche nei momenti di difficoltà. Il valore della testimonianza è insostituibile, poiché ad essa conduce il Vangelo e di essa si nutre la Chiesa. Santo Stefano ci insegni a fare tesoro di queste lezioni, ci insegni ad amare la Croce, perché essa è la strada sulla quale Cristo arriva sempre di nuovo in mezzo a noi.
STORIA
Primo martire cristiano, e proprio per questo viene celebrato subito dopo la nascita di Gesù. Fu arrestato nel periodo dopo la Pentecoste, e morì lapidato. In lui si realizza in modo esemplare la figura del martire come imitatore di Cristo; egli contempla la gloria del Risorto, ne proclama la divinità, gli affida il suo spirito, perdona ai suoi uccisori. Saulo testimone della sua lapidazione ne raccoglierà l'eredità spirituale diventando Apostolo delle genti. (Mess. Rom.)
Patronato: Diaconi, Fornaciai, Mal di testa
Etimologia: Stefano = corona, incoronato, dal greco
Emblema: Palma, Pietre
Martirologio Romano: Festa di santo Stefano, protomartire, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, che, primo dei sette diaconi scelti dagli Apostoli come loro collaboratori nel ministero, fu anche il primo tra i discepoli del Signore a versare il suo sangue a Gerusalemme, dove, lapidato mentre pregava per i suoi persecutori, rese la sua testimonianza di fede in Cristo Gesù, affermando di vederlo seduto nella gloria alla destra del Padre.
La celebrazione liturgica di s. Stefano è stata da sempre fissata al 26 dicembre, subito dopo il Natale, perché nei giorni seguenti alla manifestazione del Figlio di Dio, furono posti i “comites Christi”, cioè i più vicini nel suo percorso terreno e primi a renderne testimonianza con il martirio.
Così al 26 dicembre c’è s. Stefano primo martire della cristianità, segue al 27 s. Giovanni Evangelista, il prediletto da Gesù, autore del Vangelo dell’amore, poi il 28 i ss. Innocenti, bambini uccisi da Erode con la speranza di eliminare anche il Bambino di Betlemme; secoli addietro anche la celebrazione di s. Pietro e s. Paolo apostoli, capitava nella settimana dopo il Natale, venendo poi trasferita al 29 giugno.
Del grande e veneratissimo martire s. Stefano, si ignora la provenienza, si suppone che fosse greco, in quel tempo Gerusalemme era un crocevia di tante popolazioni, con lingue, costumi e religioni diverse; il nome Stefano in greco ha il significato di “coronato”.
Si è pensato anche che fosse un ebreo educato nella cultura ellenistica; certamente fu uno dei primi giudei a diventare cristiani e che prese a seguire gli Apostoli e visto la sua cultura, saggezza e fede genuina, divenne anche il primo dei diaconi di Gerusalemme.
Gli Atti degli Apostoli, ai capitoli 6 e 7 narrano gli ultimi suoi giorni; qualche tempo dopo la Pentecoste, il numero dei discepoli andò sempre più aumentando e sorsero anche dei dissidi fra gli ebrei di lingua greca e quelli di lingua ebraica, perché secondo i primi, nell’assistenza quotidiana, le loro vedove venivano trascurate.
Allora i dodici Apostoli, riunirono i discepoli dicendo loro che non era giusto che essi disperdessero il loro tempo nel “servizio delle mense”, trascurando così la predicazione della Parola di Dio e la preghiera, pertanto questo compito doveva essere affidato ad un gruppo di sette di loro, così gli Apostoli potevano dedicarsi di più alla preghiera e al ministero.
La proposta fu accettata e vennero eletti, Stefano uomo pieno di fede e Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas, Nicola di Antiochia; a tutti, gli Apostoli imposero le mani; la Chiesa ha visto in questo atto l’istituzione del ministero diaconale.
Nell’espletamento di questo compito, Stefano pieno di grazie e di fortezza, compiva grandi prodigi tra il popolo, non limitandosi al lavoro amministrativo ma attivo anche nella predicazione, soprattutto fra gli ebrei della diaspora, che passavano per la città santa di Gerusalemme e che egli convertiva alla fede in Gesù crocifisso e risorto.
Nel 33 o 34 ca., gli ebrei ellenistici vedendo il gran numero di convertiti, sobillarono il popolo e accusarono Stefano di “pronunziare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio”.
Gli anziani e gli scribi lo catturarono trascinandolo davanti al Sinedrio e con falsi testimoni fu accusato: “Costui non cessa di proferire parole contro questo luogo sacro e contro la legge. Lo abbiamo udito dichiarare che Gesù il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le usanze che Mosè ci ha tramandato”.
E alla domanda del Sommo Sacerdote “Le cose stanno proprio così?”, il diacono Stefano pronunziò un lungo discorso, il più lungo degli ‘Atti degli Apostoli’, in cui ripercorse la Sacra Scrittura dove si testimoniava che il Signore aveva preparato per mezzo dei patriarchi e profeti, l’avvento del Giusto, ma gli Ebrei avevano risposto sempre con durezza di cuore.
Rivolto direttamente ai sacerdoti del Sinedrio concluse: “O gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata”.
Mentre l’odio e il rancore dei presenti aumentava contro di lui, Stefano ispirato dallo Spirito, alzò gli occhi al cielo e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo, che sta alla destra di Dio”.
Fu il colmo, elevando grida altissime e turandosi gli orecchi, i presenti si scagliarono su di lui e a strattoni lo trascinarono fuori dalle mura della città e presero a lapidarlo con pietre, i loro mantelli furono deposti ai piedi di un giovane di nome Saulo (il futuro Apostolo delle Genti, s. Paolo), che assisteva all’esecuzione.
In realtà non fu un’esecuzione, in quanto il Sinedrio non aveva la facoltà di emettere condanne a morte, ma non fu in grado nemmeno di emettere una sentenza in quanto Stefano fu trascinato fuori dal furore del popolo, quindi si trattò di un linciaggio incontrollato.
Mentre il giovane diacono protomartire crollava insanguinato sotto i colpi degli sfrenati aguzzini, pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”, “Signore non imputare loro questo peccato”.
Gli Atti degli Apostoli dicono che persone pie lo seppellirono, non lasciandolo in preda alle bestie selvagge, com’era consuetudine allora; mentre nella città di Gerusalemme si scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani, comandata da Saulo.
Tra la nascente Chiesa e la sinagoga ebraica, il distacco si fece sempre più evidente fino alla definitiva separazione; la Sinagoga si chiudeva in se stessa per difendere e portare avanti i propri valori tradizionali; la Chiesa, sempre più inserita nel mondo greco-romano, si espandeva iniziando la straordinaria opera di inculturazione del Vangelo.
Dopo la morte di Stefano, la storia delle sue reliquie entrò nella leggenda; il 3 dicembre 415 un sacerdote di nome Luciano di Kefar-Gamba, ebbe in sogno l’apparizione di un venerabile vecchio in abiti liturgici, con una lunga barba bianca e con in mano una bacchetta d’oro con la quale lo toccò chiamandolo tre volte per nome.
Gli svelò che lui e i suoi compagni erano dispiaciuti perché sepolti senza onore, che volevano essere sistemati in un luogo più decoroso e dato un culto alle loro reliquie e certamente Dio avrebbe salvato il mondo destinato alla distruzione per i troppi peccati commessi dagli uomini.
Il prete Luciano domandò chi fosse e il vecchio rispose di essere il dotto Gamaliele che istruì s. Paolo, i compagni erano il protomartire s. Stefano che lui aveva seppellito nel suo giardino, san Nicodemo suo discepolo, seppellito accanto a s. Stefano e s. Abiba suo figlio seppellito vicino a Nicodemo; anche lui si trovava seppellito nel giardino vicino ai tre santi, come da suo desiderio testamentario.
Infine indicò il luogo della sepoltura collettiva; con l’accordo del vescovo di Gerusalemme, si iniziò lo scavo con il ritrovamento delle reliquie. La notizia destò stupore nel mondo cristiano, ormai in piena affermazione, dopo la libertà di culto sancita dall’imperatore Costantino un secolo prima.
Da qui iniziò la diffusione delle reliquie di s. Stefano per il mondo conosciuto di allora, una piccola parte fu lasciata al prete Luciano, che a sua volta le regalò a vari amici, il resto fu traslato il 26 dicembre 415 nella chiesa di Sion a Gerusalemme.
Molti miracoli avvennero con il solo toccarle, addirittura con la polvere della sua tomba; poi la maggior parte delle reliquie furono razziate dai crociati nel XIII secolo, cosicché ne arrivarono effettivamente parecchie in Europa, sebbene non si sia riusciti a identificarle dai tanti falsi proliferati nel tempo, a Venezia, Costantinopoli, Napoli, Besançon, Ancona, Ravenna, ma soprattutto a Roma, dove si pensi, nel XVIII secolo si veneravano il cranio nella Basilica di S. Paolo fuori le Mura, un braccio a S. Ivo alla Sapienza, un secondo braccio a S. Luigi dei Francesi, un terzo braccio a Santa Cecilia; inoltre quasi un corpo intero nella basilica di S. Loernzo fuori le Mura.
La proliferazione delle reliquie, testimonia il grande culto tributato in tutta la cristianità al protomartire santo Stefano, già veneratissimo prima ancora del ritrovamento delle reliquie nel 415.
Chiese, basiliche e cappelle in suo onore sorsero dappertutto, solo a Roma se ne contavano una trentina, delle quali la più celebre è quella di S. Stefano Rotondo al Celio, costruita nel V secolo da papa Simplicio.
Ancora oggi in Italia vi sono ben 14 Comuni che portano il suo nome; nell’arte è stato sempre raffigurato indossando la ‘dalmatica’ la veste liturgica dei diaconi; suo attributo sono le pietre della lapidazione, per questo è invocato contro il mal di pietra, cioè i calcoli ed è il patrono dei tagliapietre e muratori.
Autore: Antonio Borrelli
Da Santiebeati.it
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