J. Ratzinger - Benedetto XVI. Profezia e apocalisse nel discorso escatologico


Prima di dedicarci a quella che, nel senso più
stretto, è la parte apocalittica del discorso di Gesù,
cerchiamo di raggiungere una visione d'insieme
di tutto ciò che finora abbiamo incontrato.
Come prima cosa troviamo l'annuncio della distruzione
del tempio e, in Luca esplicitamente, anche
della distruzione di Gerusalemme. Si è, tuttavia,
reso evidente che il nucleo del preannuncio di
Gesù non ha di mira le azioni esteriori della guerra
e della distruzione, ma la fine nel senso storicosalvifico
del tempio, che diventa la « casa lasciata
deserta »: cessa di essere il luogo della presenza di
Dio e dell'espiazione per Israele, anzi per il mondo.
È passato il tempo dei sacrifici secondo la legge
di Mose.
Abbiamo visto che la Chiesa nascente, molto
prima della fine materiale del tempio, era consapevole
di questa profonda svolta della storia; con
tutte le discussioni difficili su ciò che dei costumi
giudaici avrebbe dovuto essere conservato e dichiarato
obbligatorio anche per i pagani, su questo
punto ovviamente non c'era alcun dissenso:
con la croce di Cristo l'epoca dei sacrifici era giunta
a termine.
Inoltre abbiamo visto che fa parte del nucleo del
messaggio escatologico di Gesù l'annuncio di un
tempo dei gentili, durante il quale il Vangelo deve
essere portato in tutto il mondo e a tutti gli
uomini: solo dopo, la storia può raggiungere la
sua meta.
Nel frattempo Israele conserva la propria missione.
Sta nelle mani di Dio, che al tempo giusto lo
salverà «interamente», quando il numero dei pagani
sarà completo. E ovvio e neppure sorprendente
che non si potesse calcolare la durata storica
di questo periodo. Si rese invece sempre più chiaro
che l'evangelizzazione dei pagani ora era diventato
il compito per eccellenza dei discepoli - soprattutto
grazie all'incarico particolare che Paolo sapeva
aver assunto come peso e grazia insieme.
In base a ciò si capisce ora anche che questo
«tempo dei pagani» non è ancora vero tempo
messianico nel senso delle grandi promesse di salvezza,
ma, appunto, sempre tempo di questa storia
e delle sue sofferenze e, tuttavia,
in modo nuovo anche tempo di speranza: « La notte è avanzata,
il giorno è vicino » (Km 13,12).
Mi sembra ovvio che alcune parabole di Gesù -
la parabola della rete con i pesci buoni e cattivi
(Mt 13,47-50), la parabola della zizzania nel campo
(Mt 13,24-39) - parlino di questo tempo della
Chiesa. Nella pura prospettiva dell'escatologia
immediata non danno alcun senso.
Come tema secondario abbiamo trovato l'invito
rivolto ai cristiani di fuggire da Gerusalemme
nel momento di una non meglio specificata profanazione
del tempio. La storicità di questa fuga
nella città transgiordana di Pella non può essere
seriamente messa in dubbio. Questo dettaglio
per noi piuttosto marginale ha, tuttavia, un significato
teologico da non sottovalutare: il non
partecipare alla difesa armata del tempio, a
quell'impresa che rese lo stesso luogo sacro una
fortezza e uno scenario di crudeli azioni militari,
corrispondeva esattamente alla linea adottata
da Geremia durante l'assedio di Gerusalemme
da parte dei Babilonesi (cfr ad es. Ger 7,1-15;
38,14-28).
Joachim Gnilka fa però notare soprattutto la
connessione di questo atteggiamento con il nucleo
del messaggio di Gesù: «È altamente improbabile
che i credenti in Cristo residenti a Gerusalemme
partecipassero alla guerra. Il cristianesimo palestinese
ha tramandato il discorso della montagna.
Essi quindi devono aver conosciuto i comandamenti
di Gesù circa l'amore per i nemici e la rinuncia
alla violenza. Sappiamo, inoltre, che non
presero parte alla rivolta ai tempi dell'imperatore
Adriano...» (Nazarener, p. 69).
Un altro elemento essenziale del discorso escatologico
di Gesù è l'avvertimento contro gli pseudomessia
e contro le fantasticherie apocalittiche. Con
ciò si collega l'invito alla sobrietà e alla vigilanza,
che Gesù ha sviluppato ulteriormente in alcune
parabole, particolarmente in quella delle vergini
sagge e delle vergini stolte (Mt 25,1-13), come anche
nelle parole sul portiere vigilante (cfr Me
13,33-36). Proprio queste parole dimostrano chiaramente
che cosa s'intenda con l'espressione « vigilanza
»: non un uscire dal presente, uno speculare
sul futuro, un dimenticare il compito attuale
- tuffai contrario, vigilanza significa fare qui e ora
la cosa giusta, come si dovrebbe compierla sotto
gli occhi di Dio.
Matteo e Luca trasmettono la parabola del servo
che, constatando il ritardo del ritorno del padrone,
ora, sotto l'impressione della sua assenza,
erge se stesso a padrone, percuote i servi e le serve
e si dà alla baldoria. Il servo buono, invece, rimane
servo, sa di dover rendere conto. Egli dà a ciascuno
ciò che gli spetta e riceve lode dal padrone
perché agisce così: il praticare la giustizia è la vera
vigilanza (cfr Mt 24,45-51; Le 12,41-46). Essere vigilanti
significa: sapersi ora sotto gli occhi di Dio
ed agire come si suole fare sotto i suoi occhi.
Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, in modo
drastico e concreto Paolo ha spiegato ai destinatari
in che cosa consista la vigilanza: « Quando eravamo
presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola:
chi non vuole lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita
disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione.
A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo,
ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando
con tranquillità» (3,10ss).
Un ulteriore elemento importante del discorso
escatologico di Gesù è l'accenno alle future persecuzioni
dei suoi. Anche qui è presupposto il tempo
dei pagani, perché il Signore non dice soltanto
che i suoi discepoli verranno consegnati a tribunali
ed a sinagoghe, ma che verranno portati anche
davanti a governatori e re (cfr Me 13,9): l'annuncio
del Vangelo starà sempre sotto il segno della croce
- è ciò che i discepoli di Gesù in ogni generazione
devono imparare nuovamente. La croce è e resta il
segno del « Figlio dell'uomo »: la verità e l'amore,
nella lotta contro la menzogna e la violenza, non
hanno altra arma, in fin dei conti, che la testimonianza
della sofferenza.
Veniamo ora alla parte propriamente apocalittica
del discorso escatologico di Gesù: all'annuncio
della fine del mondo, del ritorno del Figlio dell'uomo
e del Giudizio universale (cfr Me 13,24-27).
Colpisce il fatto che questo testo in gran parte
sia intessuto di parole dell'Antico Testamento, in
particolare dal Libro di Daniele, ma anche da Ezechiele,
Isaia e da altri brani della Scrittura. Questi
testi, per parte loro, stanno in collegamento vicendevole:
in situazioni difficili, immagini antiche
vengono reinterpretate ed ulteriormente sviluppa
te; all'interno dello stesso Libro di Daniele si può
osservare un tale processo di rilettura delle medesime
parole nel proseguimento della storia. Gesù
si introduce in questo processo della «relecture», e
in base a ciò si può anche capire che la comunità
dei fedeli - come abbiamo già accennato brevemente
- a sua volta leggesse le parole di Gesù attualizzandole
secondo le proprie situazioni nuove,
naturalmente in modo da conservare il messaggio
di fondo. Il fatto, però, che Gesù non con
parole sue illustri le cose future, ma con antiche
parole profetiche le annunci in modo nuovo, ha
un significato più profondo.
Dapprima dobbiamo tuttavia far attenzione a
ciò che costituisce la novità: il futuro Figlio dell'uomo,
di cui Daniele (cfr 7,13s) aveva parlato
senza potergli dare caratteristiche personali, è ora
identico con il Figlio dell'uomo che adesso sta
parlando ai discepoli. Le antiche parole apocalittiche
ottengono un centro personalistico: nel loro
centro entra la persona stessa di Gesù, che connette
intimamente il presente vissuto con il futuro
misterioso. Il vero « avvenimento » è la persona in
cui, nonostante il passare del tempo, resta realmente
il presente. In questa persona l'avvenire è
ora presente. Il futuro, in fin dei conti, non ci
porrà in una situazione diversa da quella che
nell'incontro con Gesù è già realizzata.
Così, mediante il centrare le immagini cosmiche
in una persona, in una persona attualmente
presente e conosciuta, il contesto cosmico diventa
secondario e anche la questione cronologica perde
di importanza: la persona «è» nello svolgimento
delle cose fisicamente misurabili, ha un suo « tempo
» proprio, « rimane ».
Questa relativizzazione dell'elemento cosmico,
o meglio: la sua centratura nella sfera personale, si
mostra con particolare chiarezza nella parola finale
della parte apocalittica: « Il cielo e la terra passeranno,
ma le mie parole non passeranno » (Me
13,31). La parola, quasi un nulla a confronto col
potere enorme dell'immenso cosmo materiale, un
soffio del momento nella grandezza silenziosa
dell'universo - la parola è più reale e più durevole
che l'intero mondo materiale. E la realtà vera ed
affidabile: il terreno solido sul quale possiamo appoggiarci
e che regge anche nell'oscurarsi del sole
e nel crollo del firmamento. Gli elementi cosmici
passano; la parola di Gesù è il vero « firmamento
», sotto il quale l'uomo può stare e restare.
Questa centratura personalistica, anzi, questa trasformazione
delle visioni apocalittiche, che tuttavia
corrisponde all'orientamento interiore delle
immagini veterotestamentarie, è la vera specificità
nelle parole di Gesù sulla fine del mondo: è ciò
che al riguardo conta.
In base a questo possiamo anche capire il significato
del fatto che Gesù non descrive la fine del
mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti dell'Antico
Testamento. Il parlare dell'avvenire con
parole del passato sottrae questo discorso ad ogni
connessione cronologica. Non si tratta di una nuova
formulazione della descrizione dell'avvenire,
come sarebbe da aspettarsi da veggenti, ma si tratta
di inserire la visione dell'avvenire nella parola
di Dio ormai donata, la cui stabilità, da un lato, e
le cui aperte potenzialità, dall'altro, in questo modo
si rendono evidenti. Diventa chiaro che la parola
di Dio di allora illumina il futuro nel suo significato
essenziale. Non dà, però, una descrizione
dell'avvenire, ma ci mostra soltanto oggi la via
giusta per ora e per domani.
Le parole apocalittiche di Gesù non hanno nulla
a che fare con la chiaroveggenza. Esse vogliono
proprio distoglierci dalla curiosità superficiale per
le cose visibili (cfr Le 17,20) e condurci all'essenziale:
alla vita sul fondamento della parola di Dio,
che Gesù ci dona; all'incontro con Lui, la Parola
vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei
vivi e dei morti.


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