Il brano evangelico di questa Domenica ci offre il resoconto fedele di una giornata-tipo di Gesù. Uscito dalla sinagoga, Gesù si recò dapprima nella casa di Pietro, dove guarì la suocera che era a letto con la febbre; venuta la sera, gli portarono tutti i malati ed egli ne guarì molti, afflitti da varie malattie; al mattino, si alzò quando era ancora buio e si ritirò in un luogo solitario a pregare; quindi partì per andare a predicare il Regno in altri villaggi.
Da questo resoconto deduciamo che la giornata di Gesù consisteva in un intreccio tra cura dei malati, preghiera e predicazione del regno. Dedichiamo la nostra riflessione all’amore di Gesù per i malati, anche perché fra pochi giorni, nella memoria della Madonna di Lourdes dell’11 Febbraio, ricorre la Giornata mondiale dell’ammalato.
Le trasformazioni sociali del nostro secolo hanno cambiato profondamente la condizione del malato. In molte situazioni, la scienza dà una speranza ragionevole di guarigione, o almeno allunga di molto i tempi di evoluzione del male, nel caso di mali incurabili. Ma la malattia, come la morte, non è ancora, e non sarà mai, del tutto debellata. Fa parte della condizione umana. La fede cristiana può alleviare questa condizione e dare anche ad essa un senso e un valore.
Bisogna fare due discorsi diversi: uno per i malati stessi e uno per chi deve prendersi cura dei malati. Prima di Cristo, la malattia era considerata come strettamente connessa con il peccato. Si era convinti, in altre parole, che la malattia fosse sempre conseguenza di qualche peccato personale da espiare.
Con Gesù, qualcosa è cambiato, a questo riguardo. Egli “ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Matteo 8, 17). Sulla croce ha dato un senso nuovo al dolore umano, compresa la malattia: non più di punizione, ma di redenzione. La malattia unisce a lui, santifica, affina l’anima, prepara il giorno in cui Dio asciugherà ogni lacrima e non ci sarà più né malattia né pianto né dolore.
Dopo la lunga degenza, seguita all’attentato in Piazza san Pietro, il papa Giovanni Paolo II scrisse una lettera sul dolore, in cui, tra le altre cose, diceva: “Soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente sensibili all’opera delle forze salvifiche di Dio offerte all’umanità in Cristo” (cfr. “Salvifici doloris”, n. 23., ndt). La malattia e la sofferenza aprono tra noi e Gesù sulla croce un canale di comunicazione tutto speciale. I malati non sono delle membra passive nella Chiesa, ma le membra più attive, più preziose. Agli occhi di Dio, un’ora della loro sofferenza, sopportata con pazienza, può valere più che tutte le attività del mondo, se fatte solo per se stessi.
Ora una parola a quelli che devono prendersi cura dei malati, in casa, o in strutture sanitarie. Il malato ha bisogno certamente di cura, di competenza scientifica, ma ha ancor più bisogno di speranza. Nessuna medicina solleva il malato quanto sentirsi dire dal medico: “Ho buone speranze per te”. Quando è possibile farlo senza ingannare, bisogna dare speranza. La speranza è la migliore “tenda ad ossigeno” per un malato. Non bisogna lasciare il malato nella sua solitudine. Una delle opere di misericordia è visitare i malati, e Gesù ci ha avvertito che uno dei punti del giudizio finale verterà proprio su questo: “Ero malato e mi avete visitato… Ero malato e non mi avete visitato” (Matteo 25, 36. 43).
Una cosa che possiamo fare tutti, per i malati, è pregare per loro. Quasi tutti i malati del Vangelo sono guariti perché qualcuno li ha presentati a Gesù e lo ha pregato per essi. La preghiera più semplice, e che tutti possiamo fare nostra, è quella che le sorelle Marta e Maria rivolsero a Gesù, in occasione della malattia del loro fratello Lazzaro: “Signore, colui che tu ami è malato!” (Giovanni, 11, 3, ndt.).
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