Raniero Cantalamessa. Venne a Gesù un lebbroso


Nelle letture di oggi risuona più volte la parola che, al solo sentirla nominare, ha suscitato per millenni, angoscia e spavento: lebbra! Due fattori estranei hanno contribuito ad accrescere il terrore di fronte a questa malattia, fino a farne il simbolo della massima sventura che possa toccare a una creatura umana e isolare i poveri disgraziati nei modi più disumani. Il primo era la convinzione che questa malattia fosse talmente contagiosa da infettare chiunque fosse venuto in contatto con il malato; il secondo, anch’esso privo di ogni fondamento, era che la lebbra fosse una punizione per il peccato.
Chi ha contribuito più di ogni altro a far cambiare atteggiamento e legislazione verso i lebbrosi è stato Raoul Follereau, morto nel 1977. Ha fatto istituire, nel 1954, la giornata mondiale dei lebbrosi, promosso congressi scientifici e infine, nel 1975, è riuscito a fare revocare la legislazione sulla segregazione dei lebbrosi.
Sul fenomeno della lebbra le letture di questa Domenica ci permettono di conoscere l’atteggiamento prima della Legge mosaica e poi del Vangelo di Cristo. Nella prima lettura tratta dal Levitico si dice che la persona sospettata di lebbra deve essere condotta dal sacerdote il quale, accertata la cosa, “dichiarerà quell’uomo immondo”. Il povero lebbroso, scacciato dal consorzio umano, deve lui stesso, per giunta, tenere lontane le persone avvertendole da lontano del pericolo. L’unica preoccupazione della società è di proteggere se stessa.
Ora vediamo come si comporta Gesù nel vangelo: “Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi guarirmi! Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, guarisci! Subito la lebbra scomparve ed egli guarì”.
Gesù non ha paura di contrarre il contagio; permette al lebbroso di arrivare fino a lui e gettarglisi in ginocchio davanti. Di più, in un’epoca in cui si riteneva che la sola vicinanza di un lebbroso trasmettesse il contagio, egli “stende la mano e lo tocca”. Non dobbiamo pensare che tutto questo venisse spontaneo e non costasse nulla a Gesù. Come uomo egli condivideva, su questo come su tanti altri punti, le convinzioni del suo tempo e della società in cui viveva. Ma la compassione per il lebbroso è più forte in lui che la paura della lebbra.
Gesù pronuncia in questa circostanza una frase semplice e sublime: “Lo voglio, guarisci”. “Se vuoi, puoi”, aveva detto il lebbroso, manifestando così la sua fede nella potenza di Cristo. Gesù dimostra di potere fare, facendolo.
Questo confronto tra la legge mosaica e il Vangelo sul caso della lebbra ci costringe a porci la domanda: Io a quale dei due atteggiamenti mi ispiro? È vero che la lebbra non è ormai la malattia che fa più paura (anche se vi sono tuttora milioni di lebbrosi nel mondo), che da essa, se presa in tempo, si può guarire completamente e nella maggioranza dei paesi essa è ormai del tutto debellata; ma altre malattie hanno preso il suo posto. Si parla da tempo di “nuove lebbre” e “nuovi lebbrosi”. Con questi termini non si intendono tanto le malattie inguaribili di oggi, quanto le malattie (AIDS e droga), dalle quali la società si difende, come faceva con la lebbra, isolando il malato e respingendolo ai margini di se stessa.
Quello che Raul Follereau ha suggerito di fare verso i lebbrosi tradizionali, e che tanto ha contribuito ad alleviare il loro isolamento e sofferenza, si dovrebbe fare (e, grazie a Dio, molti lo fanno) nei confronti dei nuovi lebbrosi. Spesso un gesto del genere, specie se fatto dovendo vincere se stessi, segna l’inizio di una vera conversione per chi lo fa. Il caso più celebre è quello di Francesco d’Assisi che fa risalire all’incontro con un lebbroso l’inizio della sua nuova vita.

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