Benedetto XVI. Vanagloria e umiltà


Lectio divina all'Incontro con il clero di Roma, Aula Paolo VI, Giovedì 23 febbraio 2012

«Con ogni umiltà» (Ef 4,2). Vorrei soffermarmi un po’ di più su questa perché è una virtù che nel catalogo delle virtù precristiane non appare; è una virtù nuova, la virtù della sequela di Cristo. Pensiamo alla Lettera ai Filippesi, al capitolo due: Cristo, essendo uguale a Dio, si è umiliato, accettando forma di servo e obbedendo fino alla croce (cfr Fil 2,6-8). Questo è il cammino dell’umiltà del Figlio che noi dobbiamo imitare. Seguire Cristo vuol dire entrare in questo cammino dell’umiltà. Il testo greco dice tapeinophrosyne (cfr Ef 4,2): non pensare in grande di se stessi, avere la misura giusta. Umiltà. Il contrario dell’umiltà è la superbia, come la radice di tutti i peccati. La superbia che è arroganza, che vuole soprattutto potere, apparenza, apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, non ha l’intenzione di piacere a Dio, ma di piacere a se stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri. L’«io» al centro del mondo: si tratta del mio io superbo, che sa tutto. Essere cristiano vuol dire superare questa tentazione originaria, che è anche il nucleo del peccato originale: essere come Dio, ma senza Dio; essere cristiano è essere vero, sincero, realista. L’umiltà è soprattutto verità, vivere nella verità, imparare la verità, imparare che la mia piccolezza è proprio la grandezza, perché così sono importante per il grande tessuto della storia di Dio con l’umanità. Proprio riconoscendo che io sono un pensiero di Dio, della costruzione del suo mondo, e sono insostituibile, proprio così, nella mia piccolezza, e solo in questo modo, sono grande. Questo è l’inizio dell’essere cristiano: è vivere la verità. E solo vivendo la verità, il realismo della mia vocazione per gli altri, con gli altri, nel corpo di Cristo, vivo bene. Vivere contro la verità è sempre vivere male. Viviamo la verità! Impariamo questo realismo: non voler apparire, ma voler piacere a Dio e fare quanto Dio ha pensato di me e per me, e così accettare anche l’altro. L’accettare l’altro, che forse è più grande di me, suppone proprio questo realismo e l’amore della verità; suppone accettare me stesso come «pensiero di Dio», così come sono, nei miei limiti e, in questo modo, nella mia grandezza. Accettare me stesso e accettare l’altro vanno insieme: solo accettando me stesso nel grande tessuto divino posso accettare anche gli altri, che formano con me la grande sinfonia della Chiesa e della creazione. Io penso che le piccole umiliazioni, che giorno per giorno dobbiamo vivere, sono salubri, perché aiutano ognuno a riconoscere la propria verità ed essere così liberi da questa vanagloria che è contro la verità e non mi può rendere felice e buono. Accettare e imparare questo, e così imparare ad accettare la mia posizione nella Chiesa, il mio piccolo servizio come grande agli occhi di Dio. E proprio questa umiltà, questo realismo, rende liberi. Se sono arrogante, se sono superbo, vorrei sempre piacere e se non ci riesco sono misero, sono infelice e devo sempre cercare questo piacere. Quando invece sono umile ho la libertà anche di essere in contrasto con un’opinione prevalente, con pensieri di altri, perché l’umiltà mi dà la capacità, la libertà della verità. E così, direi, preghiamo il Signore perché ci aiuti, ci aiuti ad essere realmente costruttori della comunità della Chiesa; che cresca, che noi stessi cresciamo nella grande visione di Dio, del «noi», e siamo membra del Corpo di Cristo, appartenente così, in unità, al Figlio di Dio.

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