Silvano Fausti. Commento esegetico a Gv. 21


Messaggio nel contesto

«Mi ami?». Sono le parole di Gesù, morto e risorto, a Pietro. Ogni lettore le sente rivolte a sé, come fine o, meglio, principio di tutto il Vangelo. Il racconto del quarto Vangelo è già perfettamente concluso con il c. 20. Ma il c. 21 non è un'aggiunta, più o meno superflua. È come il ripetersi successivo di quell'ondata che Gesù ha messo in moto; ora essa si ripercuote nei discepoli e, tramite loro, si allarga all'infinito, vivificando del suo Spirito il mondo intero. Questo capitolo si può chiamare un «epilogo» del Vangelo, iniziato con un «prologo». Il prologo ci ha presentato «la preistoria di Gesù»: il Verbo eterno di Dio, vita e luce del mondo, è diventato carne. Il racconto del Vangelo ci ha presentato «la storia di Gesù»: la sua carne ci ha rivelato il Padre e ci ha donato di diventare suoi figli. L'epilogo ci presenta «la storia dopo Gesù»: i discepoli continuano la sua opera e lo testimoniano al mondo. Nel c. 20 i discepoli hanno visto il Risorto, accolto il suo Spirito, ricevuto la sua missione e creduto in lui, Signore e Dio, per avere vita. Ora vediamo come Gesù si «manifesta» loro mentre continuano la missione loro affidata. Egli è presente nella «pesca» (vv. 1-8), che raffigura la loro attività apostolica rivolta ai fratelli, e nel «banchetto» (vv. 9-14), che richiama l'eucaristia, principio e fine di ogni missione. Particolare attenzione è rivolta ai due aspetti essenziali della comunità, ambedue fondati sull'amore e sulla sequela: la dimensione «istituzionale», rappresentata da Pietro (vv. 15-19), e quella «carismatica», rappresentata dal discepolo che Gesù amava (vv. 20-23). Sono due istanze diverse, una pastorale, più attenta alla struttura e conservatrice, l'altra creativa, più attenta alle persone e libera. Il conflitto inevitabile tra i due aspetti trova qui una soluzione ideale, legittimando ambedue e dando la priorità all'amore e alla libertà. Alla fine il redattore conclude indicando nel di-scepolo che Gesù amava l'autore del Vangelo (vv. 24-25). Troviamo parte di questo materiale anche nei sinottici: la pesca (cf. Le 5,1-11; cf. Mc 1,16-20p), il pasto con il Risorto (Le 24,30s.41-43), il ruolo di Pietro (Mt 16,18) e l'invito alla sequela. Tutto è liberamente rielaborato e intrecciato sul tema dell'amore. Probabilmente è materiale giovanneo, redatto da altri e posto nel finale, con somiglianze e differenze di vocabolario, di stile e di temi rispetto al resto del Vangelo. Il e. 21 sta al Vangelo di Giovanni come gli Atti degli Apostoli al Vangelo di Luca. Dopo il racconto di ciò che Gesù ha fatto e detto (At 1,1), si narra in modo sintetico e paradigmatico ciò che i suoi discepoli fanno e dicono. Nel Figlio dell'uo-mo innalzato tutto è compiuto: la «cristologia» dei cc. 1-19 culmina sulla croce, do-ve Gesù rivela l'amore estremo e consegna lo Spirito. Nel c. 20 la cristologia diven-ta «pneumatologia»: i discepoli vedono il Risorto, accolgono lo Spirito e sono invia-ti al mondo. Nel c. 21 cristologia e pneumatologia diventano «ecclesiologia»: chi ha visto la carne di Gesù e accolto il suo Spirito, diventa figlio e continua nel mondo la missione di rivelare il Padre. Ora i discepoli sono all'opera. Non sono più di sera e al chiuso in Gerusalemme (20,19), ma di mattina e all'aperto sul lago di Tiberiade, luogo della vita quotidiana, loro e di Gesù. Il tempo e il luogo sono significativi: l'alba è il limite tra notte e giorno, il litorale è il limite tra mare e terra. Alba e litorale sono il tempo e il luogo tipico dell'uomo, posto tra due realtà contrarie, chiamato a varcare la soglia dalla tenebra alla luce, dalla morte alla vita. I discepoli sono usciti da dove il Signore ha lavato loro i piedi (cf.14,31) e affrontano con lui e come lui il mondo. Dopo il dono di Gesù, che li ha amati fino a dare se stesso ed è tornato mostrandosi vincitore della morte e principe della vita, inizia il giorno del Signore: è ogni giorno, da vivere ormai nell'amore del Padre e dei fratelli.

Per questo i sette vanno a «pescare uomini per la vita» (cf. Lc 5,10). Come ha fatto Gesù, anch'essi strappano i fratelli dall'acqua dove annegano, per comunicare loro la sorgente d'acqua viva. Questa pesca è il «molto frutto» (15,5) che Gesù aveva promesso a chi è unito a lui, obbedendo alla sua parola e osservando il suo comando di amarci come lui ci ha amati (15,1-17). Chi non è unito a lui, rimane nella notte, come Giuda. Ogni sua fatica è infeconda e mortifera. Comunque ormai la tenebra è sconfitta e la luce è venuta: il Signore già ha fatto dono della propria vita e ha preparato il suo banchetto. Non a caso la scena si svolge sul lago di Tiberiade, dove la Parola era diventata Pane (cf. c. 6). Anche qui la missione culmina nel pasto comune (cf. Mc 6,7-13.30-44p), al quale i discepoli danno il loro contributo. Chi mangia il corpo del Signore, vive di lui e in lui: riceve il suo Spirito, che gli fa riconoscere il Risorto e lo rende capace di testimoniarlo (cf. 15,26-27). Uniti a lui e ascoltando la sua parola questa è la sottolineatura del testo la nostra pesca diventa feconda, anche più della sua (cf. 14,12). Il centro di tutto, come si vede nella triplice domanda rivolta a Pietro, è l'amore per Gesù, che lo fa dimorare in noi. Ma l'origine permanente del nostro amore per lui è il suo amore per noi, come ci testimonia il discepolo prediletto, che ha contemplato il Trafitto. Questo capitolo, posto alla fine del Vangelo, più che una conclusione è un'apertura. Dischiude infatti al mondo intero l'orizzonte della vita nuova che il Figlio offre ai fratelli. Alla luce di quanto abbiamo già visto nel Vangelo, la ricchezza di questo breve capitolo è inesauribile: si potrebbero scrivere tante cose che non basterebbe il mondo intero per contenerle (cf. v. 25). Trasformando il versetto finale del Vangelo, possiamo dire che ormai il mondo intero altro non è che la riscrittura, anzi il diventare carne della Parola, mediante la testimonianza dell'amore dato/ricevuto e corrisposto nella «pesca», che alimenta di nuovo cibo il banchetto imbandito dal Figlio. La storia del mondo è ormai storia di Dio, manifestazione progressiva della Gloria. Dio è entrato nel creato perché ogni creatura entri in Dio: il Verbo di vita è diventato carne perché ogni carne partecipi alla vita del Verbo.
La Chiesa, chiamata da Paolo «corpo di Cristo», ne è la pienezza anticipata (cf. Ef 1,1-23); come la carne di Gesù, dove tutto è compiuto. Attraverso di essa si rivela e, rivelandosi, si comunica a tutti il dono di Dio (cf. 17,22s): «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Il c. 21 è composto di due parti principali, a loro volta molto articolate, dove si riprendono i temi fondamentali della vita di Gesù, che risuonano ormai in quel-la dei discepoli. La prima parte mostra i discepoli nella loro missione, con la presenza del Signore in mezzo a loro, e culmina nell'eucaristia (vv. 1-14); la seconda riabilita Pietro e il suo ruolo pastorale, fondato sull'amore e sulla sequela (vv. 15-19), armonizzandolo con il ruolo del discepolo amato, testimone dell'amore (vv. 20-23). La conclusione finale (vv.24-25) riprende 20,30s, identificando il discepolo amato con l'autore del Vangelo. Attraverso questa aggiunta, il Vangelo, come tut-ta la Scrittura, si dichiara esplicitamente come uno «scritto aperto», da riscrivere all'infinito. Gesù ha compiuto l'opera del Figlio: amare i fratelli con lo stesso amore del Padre. Ora, salito a lui, torna a noi, anzi in noi, con il suo Spirito perché portiamo avanti la sua opera. La Chiesa, attraverso la testimonianza apostolica vitalmente ricevuta e trasmessa, diventa una «riscrittura» progressiva del Vangelo eterno di Dio nel mondo: è realmente «il quinto» Vangelo, il Vangelo vivo. Così dice Paolo alla comunità di Corinto: «Voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con l'inchio-stro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,3). Nell'ascolto di quanto Gesù ha vissuto e il Vangelo ha raccontato, la nostra storia diventa storia di Dio, rivelazione della Gloria.



Lettura del testo

v. 1: Dopo queste cose. L'espressione richiama Gesù che dona il pane (cf. 6,1) e lava i piedi a Pietro (cf. 13,7). È un'indicazione di tempo che rimanda a un prima. Il tempo successivo viene «dopo queste cose» accadute «quel giorno»: è il «giorno uno» (cf. 20,1.19), da cui tutto fluisce, come l'acqua dalla sua sorgente. È un tempo senza tempo, perché è ormai ogni tempo. 

si manifestò ancora Gesù ai discepoli. È un'ulteriore manifestazione di Gesù, diversa dalle precedenti. La parola «manifestarsi», usata da Giovanni 9 volte, è ap-plicata 3 volte agli incontri con il Risorto e tutte in questo racconto (vv. lbis.14). Manifestare (phaneróo) significa rendere chiaro. Suggerisce un uscire dall'oscurità per venire alla luce: egli è ormai sempre presente e «si manifesta così». Questo sarà d'ora innanzi il suo modo di essere con i suoi discepoli. Mentre noi siamo nel mare del mondo a compiere l'opera che ci ha affidato, lui è già a riva, sulla «terra». Da lì ci assiste e si manifesta nella Parola che rende fruttuosa la nostra pesca e nel banchetto che condivide con noi. In altre parole il Signore Risorto è sperimentato nella Parola-missione e nell'eucaristia, che ci fanno partecipare alla sua fecondità di vita. 

sul mare di Tiberiade. Il dono del pane avvenne al di là del «mare di Galilea, di Tiberiade» (6,1). Qui è chiamato solo «Tiberiade», evidenziando il nome pagano della capitale della Galilea, costruita in nome dell'imperatore Tiberio. Questo incontro con il Risorto non è nel cenacolo, dove i discepoli hanno ri-cevuto il pane, lo Spirito e la missione. Avviene all'aperto, tra i pagani. L'eucaristia che seguirà (v. 13s) è una «messa sul mondo», all'alba e in riva al mare, dove si arriva alla fine di una notte di fatica. 

si manifestò così (cf. v. 14). Questo incontro con il Risorto, diverso dai precedenti, avviene sulla soglia tra mare e terra. Su questa riva, luogo di partenza e di ap-prodo di ogni missione, il discepolo fa una spola continua tra il mondo da salvare e il Salvatore del mondo. Si dice inoltre che Gesù «manifestò se stesso», non che i discepoli lo «videro». Lo incontrano ormai come colui che si rivela attraverso l'ascolto della Parola ed è riconosciuto attraverso l'amore del discepolo prediletto e il dono del pane. Queste parole, riprese al v. 14, fanno da inclusione alla prima parte del testo e sottolineano il «così», che è il modo nuovo di presentarsi del Signore, ancora e sempre, ai discepoli. 

v. 2: erano insieme. Dopo il dono di Pasqua, i discepoli sono «insieme». Si parla di sette discepoli. Non sono i Dodici (cf. 6,70), che rappresentano le tribù d'Israele. Sono sette, numero di totalità, che rappresenta le nazioni pagane. È ormai la comunità delle sette chiese (cf. Ap 2-3), aperta al mondo. 

Simon Pietro. Gesù gli aveva promesso che, «dopo queste cose», avrebbe capito il suo gesto di lavargli i piedi (13,7). Simone, fratello di Andrea, è uno dei primi che lo ha incontrato, ricevendo il nome di Pietro (1,42). È lui che, dopo il dis-corso sul pane di vita, dice a nome di tutti: «Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68s). Lo ritroviamo nell'ultima cena a più riprese: non vuo-le che Gesù gli lavi i piedi (13,6-9), chiede all'altro discepolo di domandare chi è il traditore (13,24) e dichiara di essere disposto a seguire il Signore fino a morire per lui (13,36-38). Nel giardino estrae la spada per difenderlo (18,10s) e nel cortile, dove l'ha introdotto il discepolo amato, lo rinnega (18,15-27). Lo incontriamo, ancora insieme a lui, nella corsa mattutina al sepolcro (20,2-10). L'intreccio del loro cam-mino continua anche in questo racconto (cf. vv.1-14) e trova nel finale - come sintesi di tutto il Vangelo - la sua spiegazione (cf. vv. 15-24). 

Tommaso, detto Didimo. Tommaso si dichiara disposto a morire accanto a Gesù (11,16). Nell'ultima cena gli chiede inoltre dove va; e ottiene la risposta: «Io-Sono la via, la verità e la vita» (14,5s). Riappare nel racconto precedente come l'incredulo che raggiunge la piena fede, esclamando: «II mio Signore e il mio Dio» (20,28). 

Natanaele, quello di Cana di Galilea. È il vero israelita che, superando i suoi dubbi (1,46), per primo riconosce Gesù come Figlio di Dio e re d'Israele (1,49). Si precisa che è di Cana di Galilea, dove Gesù fece il primo segno e «manifestò la sua gloria» (2,11). 

quelli di Zebedeo. È l'unica volta che nel quarto Vangelo ricorre quest'espressione. Sappiamo dagli altri Vangeli che sono Giacomo e Giovanni (cf. Mc 1,19p), coloro che, con Pietro, partecipano alla pesca di Le 5,1ss. Nella tradizione il secondo di questi fratelli è stato identificato con il compagno anonimo di Andrea (cf. 1,35-40), «l'altro discepolo», quello che Gesù amava, autore del quarto Vangelo.

altri due dei suoi discepoli.
 Chi sono questi due altri discepoli? Inutile chiederselo, perché sono anonimi. Sappiamo che sono due, principio di molti. Rappresentano i discepoli che verranno in seguito, chiamati «altri», come l'«altro discepolo», quello che Gesù amava. 

v. 3: dice loro Simon Pietro. Nel c. 21 Simon Pietro ha un ruolo di preminenza: prende l'iniziativa della pesca (v. 3), si butta nel mare (v. 7b) e tira a riva la rete piena di pesci, senza che si rompa (v. 11). A lui, dopo il pasto, Gesù si rivolge direttamente per affidargli la sua missione di Pastore bello (vv. l5ss). Però è l'«altro discepolo» che per primo riconosce il Signore (v. 7a; cf. 20,8) e resta come testimone perenne di colui che viene (vv. 22-24). 

me ne vado a pescare. Simon Pietro non ordina agli altri di pescare. L'autorità non è comando - «armiamoci e partite!» -, ma un modello da imitare. L'imitazione dell'altro, il cui esempio dà corpo ai desideri di ognuno, è principio di ogni agire umano, nel bene e nel male. Come Gesù se ne va al Padre, Simon Pietro se ne va verso i fratelli. I discepoli sono scelti e inviati a portare avanti la missione del Figlio: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto» (15,16). C'è una stretta parentela, con numerosi punti in comune, tra questo racconto e la pesca di Lc 5,1-11, dove Pietro riceve la promessa: «Da ora uomini pescherai per la vita» (Lc 5,10; cf. Mc 1,17; Mt 4,19). 

veniamo anche noi con te. Gli altri decidono spontaneamente di andare con lui. Non sono dei subordinati, più o meno insubordinati, ma persone in comunione, per libera decisione dello Spirito. Questa comunione tra di loro resta però sterile fino a quando non è comunione con Gesù, obbedienza alla sua parola. La preposizione «con» (= syn), che indica appunto comunione, appare solo al-tre due volte in Giovanni. Si parla di Lazzaro, risorto, che giace a mensa «con» Gesù (12,2) e di Gesù che entra nel giardino «con» i suoi discepoli (18,1). Per Tommaso, che dice di essere disposto a morire accanto a Gesù, si usa la preposizione greca «metà», che indica piuttosto l'essere a fianco (cf. 11,16). 

uscirono ed entrarono nella barca. Gesù è uscito dal Padre per venire nel mondo incontro ai fratelli. I discepoli escono dal luogo dove si trovano ed entrano nella barca, in mezzo al mare. La loro è la stessa missione del Figlio: pescare uomini perché vivano. Nell'acqua infatti muoiono. 

quella notte. Finora si è parlato di «quel giorno» (cf. 19,31; 20,1.19). Ma qua-lunque giorno rimane notte fino a che non si manifesta la luce del mondo: «Noi bisogna che operiamo le opere di chi mi inviò mentre è giorno; viene la notte, quando nessuno può operare. Finché sono nel mondo, sono luce del mondo» (9,4s; cf. 11,9s). Lui è ormai sempre nel mondo, ma non lo vediamo fino a quando la Parola ascoltata e il Pane condiviso non ci aprono orecchi e occhi. 

non catturarono nulla. L'iniziativa comune di Pietro e degli altri è senza risultato: «Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla» (Lc 5,5a). Infatti «il tralcio non può portare frutto da se stesso se non dimora nella vite, così anche voi, se non dimorate in me [...]. Chi dimora in me e io in lui fa molto frutto» (15,4s). Lui dimora in noi come noi in lui, se ascoltiamo la sua parola: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui» (14,23). Gesù può manifestarsi perché l'amore, che è concreta osser-vanza della sua parola, ce lo rende presente: «Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e io amerò lui e a lui mi manifesterò» (14,21). Ogni iniziativa apostolica, con tutte le reti e le perizie del mondo, se non sca-turisce dalla comunione con il Signore, resta infruttuosa. Senza l'amore, tutto è nulla (cf.iCor 13,1-3). 

v. 4: venendo già l'alba. È preferibile leggere, con molti codici, «venendo» invece che «venuta» l'alba. Infatti la notte finisce e viene l'alba con la presenza di Gesù. Con lui inizia il giorno nuovo (20,1), che dissolve la tenebra in cui si trovano i discepoli.

Gesù stette (in piedi) sul litorale. Gesù è ritto in piedi sulla riva, come prima nel cenacolo (20,19.26). Al v. 13, descrivendo il gesto eucaristico, si dirà che «viene», come in 20,26. 

non sapevano i discepoli che è Gesù.
 Gesù, compiuta la sua missione, è già arrivato a riva. Da lì è presente ai discepoli che continuano la sua missione. Ma questa rimane sterile, e lui non riconosciuto, fino a quando non osservano la sua parola.

v. 5: dice loro Gesù: Figlioli. È un appellativo affettuoso, usato per il figlio del funzionario regio che sta per morire (4,49) e per l'uomo nuovo che viene al mondo (16,21). In questo racconto è salvata da sicura morte la comunità nascente ed è generata l'umanità nuova.

avete qualcosa di companatico?
 Gesù interroga i discepoli sulla fatica notturna: chiede loro del «companatico». Il «pane» c'è già: è lui, che ha dato se stes-so per la vita del mondo. Manca il «companatico» da aggiungere a questo pane: è la risposta al suo amore, che solo noi possiamo dare. Essa consiste nel nostro andare verso i fratelli in obbedienza alla sua parola. Il nostro cibo è il medesimo del Figlio: compiere l'opera del Padre (4,34), che vuol salvare tutti i suoi figli, con l'ultimo dei quali Gesù si è identificato. Nell'ultimo dei fratelli infatti vediamo il Figlio da amare. 

gli risposero: no!
 Gesù aveva promesso ai discepoli che avrebbero compiuto le sue opere e anche di più grandi (14,12). La loro risposta è un secco «no», pieno di delusione. Quante volte, nonostante il nostro darci da fare con perizia e impegno, brancoliamo nella notte e non peschiamo nulla (cf. Lc 5,5). Se la missione è senza frutto, significa che non siamo uniti a lui, che non ascoltiamo la sua parola. 

v. 6: gettate la rete dalla parte destra, ecc. Gesù ordina di gettare la rete da una parte precisa, l'unica che può essere feconda di vita. Per questo ci ha dato un preciso comando, il «suo», offrendoci il potere divino (richiamato dall'espressione «la parte destra») di amarci a vicenda con lo stesso amore con il quale lui ci ha amati. Solo l'obbedienza a questo comando fa dimorare lui in noi e ci dona la sua vita. Come Maria disse: «Avvenga a me secondo la tua parola» (Lc 1,38), anche il discepolo dice: «Sulla tua parola, getterò le reti» (Lc 5,5b).

e non riuscivano più a tirarla per la moltitudine dei pesci.
 In obbedienza al «comando» del Signore la loro pesca è abbondante: si può «catturare» alla vita solo mediante l'amore. Il termine «moltitudine», che in greco indica «pienezza» (plèthos), ricorre a proposito degli infermi ai bordi della piscina che attendono salvezza (5,3). Nella rete tirata a terra c'è una «moltitudine» di uomini salvati dalle acque, una «pienezza» che abbraccia l'umanità intera. È il molto frutto del tralcio unito alla vite (15,5). La missione non è opera nostra, ma dello Spirito che Gesù ci ha donato (cf. 20,22s). Dal frutto si riconosce l'albero (cf. Mt 7,20).

v. 7: allora quel discepolo che Gesù amava. È colui che conosce l'amore di Gesù: posava il capo sul suo grembo e sul suo petto quando Pietro gli chiese di informarsi sul traditore (13,23ss). Egli introdusse Pietro nel luogo in cui Gesù dava testimonianza (18,15s) e corse con lui, precedendolo, al sepolcro (20,2ss). Egli inoltre stava con la Madre ai piedi della croce (19,26) e contemplò il Trafitto, che testimoniò a noi nel Vangelo (19,35).

dice a Pietro.
 Questo discepolo, come già detto, appare sempre vicino e in contrappunto a Pietro. 

è il Signore. È lui che notifica a Pietro la presenza del Signore. Solo l'amore vede (cf. 20,8) e segnala, a Pietro come a tutti, la via migliore (cf. 1Cor 12,31-13,13): quella di Gesù, verità della vita, che è l'amore

Simon Pietro, udito che è il Signore, si cinse la veste, ecc.
 Questo versetto contiene vocaboli altamente evocativi. Saranno ripresi nei vv. 18-19, quando si dirà che anche Pietro, finalmente, può seguire Gesù e diventare come lui. Simon Pietro si cinge la veste e si butta nel mare, come prima era entrato nel sepolcro (20,6). Gettarsi in acqua e risalire, nudità e veste sono allusioni al battesimo. Simon Pietro seppellisce il suo passato, affogando presunzioni e colpe, per risalire a riva e incontrare Gesù. La parola «cingersi» esce nella lavanda dei piedi, quando Gesù si cinge il panno del servo (13,4s). Qui la veste di Pietro è chiamata «sopraveste», che egli mette sopra la sua nudità. È la veste del Signore stesso, che lo avvolge nel suo amore e gli permette di affrontare il mare. Proprio qui, «dopo queste cose», anche lui riconosce chi è il Signore e Maestro (13,7.13). Sembra strano cingersi la veste per gettarsi in acqua; ma quando si pesca di notte, per proteggersi dal freddo, si indossa sulla pelle un camiciotto che di giorno si toglie. Pietro si cinge di questo indumento, che ha un profondo significato: la veste con la quale si battezza nel mare per risalire a terra richiama l'eredità che il Crocifisso lasciò ai suoi crocìfissori (19,23). 

v. 8: gli altri discepoli vennero con la barchetta. Mentre Simon Pietro scompare nell'acqua, gli altri vengono con la barchetta, portando la moltitudine di pesci. Le due barche di Lc 5,7 sono diventate una e, per giunta, piccola. La Chiesa è una sola e abbraccia tutti; rimane però sempre una barchetta e non diventa mai un transatlantico.

non erano lontani dalla terra.
 «La terra», per antonomasia, è la terra promessa, dove Gesù è già arrivato e i discepoli approdano con il frutto della loro missione.

circa duecento cubiti.
 1200 cubiti richiamano i 200 denari necessari per sfamare la folla (6,7). La distanza dal mare alla terra ha un costo: quello del pane che Gesù ha offerto gratuitamente. La gratuità è l'unico prezzo della vita.

trascinando la rete dei pesci.
 Come la barchetta, anche la rete è unica: i vari di-scepoli compiono la stessa missione, in obbedienza al comando dell'amore. La rete - nominata 4 volte (cf. vv. 6.8.1 Ibis), numero di totalità - è ciò che raccoglie in «uno» gli uomini, per portarli a salvezza: tutti gli uomini sono uniti, in libera comunione tra di loro.

v. 9: quando discesero sulla terra. «La terra» è dove ormai Gesù sta e si mani-festa: è da dove si parte per la missione e dove si torna portando nuovi fratelli. È il luogo dell'eucaristia, vera terra promessa, dove si vive da figli e da fratelli.

guardano brace distesa e pesce sopra e pane. Non si dice che vedono Gesù, ma brace con pesce e pane. La brace, evocando il rinnegamento di Pietro (cf. 18,18), prepara il seguito della scena. Pesce e pane - c'è una sovrimpressione tra Gesù e i doni eucaristici - richiamano il fatto dei pani e dei pesci, quando Gesù anticipò la sua Pasqua (6,9-11). Ora i discepoli capiscono il suo discorso fatto nella sinagoga di Cafarnao sul pane di vita (6,26-59): Gesù è il pane offerto. Anche il pesce, che vive nell'abisso e viene sulla terra per essere cotto e diventare cibo, è lui: «Il pesce arro-stito sul fuoco rappresenta Cristo nella passione» (sant'Agostino). Infatti il pesce vive nella morte (= mare) e, morendo sulla terra, si dona come vita per gli altri. Piscis assus, Christus passus: Gesù, proprio in quanto rinnegato e ucciso, è cibo per tutti. Ora che lui ci ha amati fino al dono di sé, anche noi abbiamo il suo Spirito e possiamo fare come lui. Dall'eucaristia del Figlio, celebrata in solitudine sulla cro-ce, scaturisce la nostra eucaristia di fratelli, partecipi della sua missione e del suo frutto. Dall'eucaristia si parte da figli verso i fratelli, all'eucaristia si torna con nuo-vi fratelli che diventano figli, capaci di andare a loro volta verso altri fratelli. E così via, finché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28). Allora i figli di Dio, dispersi, saranno raccolti in unità nel Figlio (cf. 11,51s). E il Padre suo diventerà Padre nostro, di tutti (cf. 20,17).

v. 10: portate dei pesci che avete catturato adesso. La nostra pesca, prima infrut-tuosa (cf. v. 3), «adesso» è feconda perché abbiamo ascoltato il comando dell'amore. La parola «cattura» finora era riferita a Gesù, che si consegnò a chi voleva cat-turarlo (cf. 7,30.32.44; 8,20; 10,39; 11,57). Anche altri fratelli, «catturati» dall'amore grazie alla nostra testimonianza, sono diventati come lui, che si fa cibo per la vita del mondo. Questo è il frutto della missione, che trasforma gli uomini in figli che sanno amare i fratelli come il Figlio li ha amati. L'imperativo è al plurale, come nel v. 6: «Gettate le reti». Tutti i discepoli partecipano, per ordine diretto del Signore, alla fatica e al frutto. Pietro si distingue per la sua iniziativa di dare il buon esempio e di mantenere l'unità della rete (cf. v. 11). 

v. 11: Pietro salì. Pietro ora sale dall'acqua dove si è immerso, come Gesù nel suo battesimo (cf. Mc 1,10). Ora Simone diventerà Pietro, con il suo nome nuovo. 
tirò la rete sulla terra. Pietro non «tira» più la spada per uccidere (18,10), ma ti-ra verso la vita la grande moltitudine di uomini, perché anche lui, come tutti, è stato (at)tirato dall'amore del Crocifisso (cf. 12,32). La rete tiene unito il frutto della pesca, mentre è trascinato sulla «terra» dove sta il Figlio. Questi infatti aveva pregato il Padre affinché i fratelli fossero «uno» nell'amore (17,11.21-23).

piena di grandi pesci, centocinquantatré. Si sottolinea l'abbondanza della pesca. Questi pesci, attratti dal Figlio innalzato (12,32), sono assimilati a lui, pesce e pane offerto per la vita del mondo. La cifra ha certamente un significato. Ci sono varie interpretazioni, nuove e antiche, più o meno plausibili. Ne offriamo alcune per mostrarne l'infinita varietà. San Girolamo, commentando Ez 47,6-12, dice che gli zoologi contavano 153 specie di pesci. La cifra indicherebbe quindi la totalità degli uomini. Sant'Agostino nota che 153 è la somma dei numeri naturali da 1 a 17. Il numero 17 a sua volta è la somma di 10 e di 7, che rappresentano rispettivamente il Decalogo della legge e lo Spirito con i suoi doni. Il numero 153 indicherebbe tutti i salvati: essi, con la grazia dello Spirito, osservano la legge, che non è più per la morte, ma per la vita. Si può inoltre osservare che 10 è il numero della comunità e 7 il numero della moltitudine: la rete, simbolo della Chiesa, è la comunità che contiene la moltitudine degli uomini portati a salvezza. Un'ulteriore interpretazione richiama l'attenzione sul fatto che 17 è la somma di 5 e di 12, cifre che richiamano il dono del pane a Tiberiade, dove dei 5 pani sovrabbondarono 12 ceste (cf. 6,9.13): grazie alla missione, la moltitudine degli uomini diventa eucaristia, assimilata al corpo del Figlio. Ancora partendo dall'intuizione di sant'Agostino: tenendo presente che in ebraico ogni lettera dell'alfabeto corrisponde a un numero (a = 1, b = 2, c = 3, ecc.), 17 è il valore numerico della parola ebraica tov (= buono, bello); allora 153, che contiene tutti i numeri da 1 a 17, allude a quella bontà/bellezza che abbraccia in unità ogni singolarità. Un'altra interpretazione dice: «Il significato della cifra può chiarirsi prestando attenzione ai dati del Vangelo e al linguaggio di quella cultura. La cifra 153 è la somma di tre gruppi di 50, più un 3 che è appunto il moltiplicatore. Il numero 50, posto in relazione con i 5.000 dell'episodio dei pani, designa una comunità come profetica, la comunità dello Spirito (vedi commento a 6,10). Ciascun gruppo di 50 pesci "grandi" corrisponde perciò a una comunità di "uomini adulti" (6,10; Cf. 9,20-21), la creazione dei quali cioè è completata dallo Spirito. Il numero 3, che moltiplica la comunità, è il numero della divinità, e qui potrebbe rappresentare Gesù (20,28: "Signore mio e Dio mio!"). La cifra 153 indicherebbe pertanto che le comunità dello Spirito (il frutto) si moltiplicano esattamente in proporzione alla sua presenza» (J. Mateos - J. Barreto). Facendo calcoli più complessi, si possono dare altre interpretazioni: in ebraico 153 è il valore numerico delle espressioni «la Chiesa dell'amore», «il mondo che viene», «figli di Dio», ecc. Al di là di ogni possibile interpretazione, non sappiamo con precisione cosa l'autore intendesse. Sembra che voglia lasciare più che mai spazio alla fantasia: chi più ne ha, più ne metta, se gli giova. Certamente vuol indicare «il molto frutto» (Cf. 12,24; 15,5) della missione di colui che è il salvatore del mondo (4,42) e tutti vuol attrarre a sé (12,32). 

pur essendo così tanti.
 Tutti gli uomini - e sono «così tanti» -, sono «in rete», collegati in unità. La missione del Figlio è riunire in «uno» i fratelli (10,16; 11,52; 17,11.21-23). Questa unione, è utile ribadirlo, non è mai uniformità e omologazione, quasi un frullato indistinto di individui, ma libertà nella distinzione, propria delle persone che si amano.

non si squarciò la rete. Il verbo squarciare (skízo) richiama «scisma», la divisione all'interno della comunità. Quest'unità non si lacera, perché è nell'amore che accetta e mantiene ogni diversità. Non va squarciata, come la tunica inconsutile, tessuta dall'alto in basso, tutta di un pezzo (Cf 19,23). Dividersi tra fratelli è divi-dere il corpo del Figlio. Anche per questo le sue ferite resteranno aperte, fino a quando un solo uomo al mondo sarà escluso dalla comunità dei fratelli. Nell'ultima cena Gesù aveva pregato perché fossimo «uno» con lui e il Padre, «perfetti nell'unità», «perché il mondo sappia che tu mi amasti e li amasti come ami me» (cf. 17,20-23). Solo attraverso l'unione dei fratelli si conosce il Padre comune: la credibilità di Dio è affidata all'amore tra di noi. Le scissioni al nostro interno sono il grande peccato: oscurano al mondo la Gloria, unità perfetta tra Padre e Figlio nell'identico Spirito.

v. 12: venite, pranzate. Gesù invita al banchetto: è il pasto eucaristico che, unendoci al Figlio e al Padre nell'unico amore, ci fa entrare in seno alla Trinità. Contro ogni aspettativa (cf. Lc 17,7s), quando il servo torna dal lavoro, il suo Signore lo invita a tavola, si cinge la veste e si mette a servirlo. Colui che ci ha lavato i piedi è sempre in mezzo a noi come colui che serve (Lc 22,27). Il Signore non può essere che servo. Infatti, essendo tutto non ha bisogno di nulla, essendo amore dà tutto se stesso a servizio degli altri. La missione parte dall'eucaristia e porta all'eucaristia. In essa, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana», si mangia e si ringrazia di ciò che è stato donato, anticipo di ciò che sarà ulteriormente donato in forza di questo mangiare e ringraziare.

nessuno dei discepoli osava chiedergli.
 Per chi partecipa all'eucaristia, ricevendo e dando amore, è evidente «che è il Signore». Il riconoscimento di Gesù viene dalla comunione con lui, dal mangiare e vivere di lui. Allora lo vediamo, perché lui vive e noi viviamo (Cf. 14,19). Spezzare il pane, facendo memoria e vivendo del suo amore per noi, ci apre gli occhi e ce lo fa riconoscere (cf. Lc 24,30s.35). In quell'ora c'è una gioia che nessuno ci può togliere, perché attingiamo alla sorgente dell'amore. È giunto «quel giorno» nel quale non gli chiediamo più nulla (16,22s), perché ab-biamo tutto. La nostra gioia è completa, perché è la sua gioia (17,13).

tu, chi sei? Era la domanda rivolta al Battista (1,19) e poi a Gesù (8,25). Il Battista rispose: «Io-non-sono» (1,20) e Gesù rispose: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora conoscerete Io-Sono» (8,28). 

sapendo che è il Signore. Come il discepolo amato (v. 7), ora anche gli altri riconoscono Io-Sono, il Signore. È il banchetto della nuova alleanza, che ci salva dal mare dei nostri fallimenti, offrendoci il perdono dei peccati. Qui tutti conosciamo il Signore, dal più piccolo al più grande (cf. Ger 31,31-34): è colui che fa rivivere le ossa aride, apre le nostre tombe e ci fa riposare sulla terra. «Allora saprete che io sono il Signore. L'ho detto e lo farò. Oracolo del Signore Dio» (Ez 37,13s). Ora che quanto fu preannunciato è compiuto, vedendo il suo amore anche noi lo amiamo e osserviamo il suo comando di amarci gli uni gli altri (14,15). In questo sta il suo ritorno a noi, che ce lo fa vedere perché lui, il Vivente, vive in noi che lo amiamo (14,18). L'evangelista evita di dire che i discepoli vedono il Signore: si dice per tre volte che «si manifesta» (vv. 1bis.14), preludio del suo manifestarsi successivo ai credenti che non l'hanno visto (cf. 20,29). I primi l'hanno visto con gli occhi della carne e hanno saputo con il cuore che è il Signore. Anche noi, come i discepoli di questo racconto, sappiamo che il Signore è presente. Con gli occhi vediamo solo brace, pane e pesce: il banchetto da lui preparato. Ma lo riconosciamo dall'abbondante frut-to dell'obbedienza al suo comando, che ci fa partecipare attivamente al dono che lui fa di sé nel suo pasto (cf. v. 13).

v. 13: viene Gesù.
 Prima Gesù stava ritto a riva: è il Risorto, già arrivato sulla «terra», tornato al Padre e presente ai fratelli. Ora si dice che viene, come in 20,26. Infatti il Risorto viene a noi nell'eucaristia. Egli è «il Veniente», che di continuo viene a noi nel memoriale del suo amore. Attende solo di essere accolto, per accoglier-ci con sé in seno al Padre. 

prende il pane e lo dà loro; e similmente il pesce. L'espressione richiama il dono dei pani e dei pesci (6,11). «Prendere il pane e dare» sono le parole dell'eucaristia, dove riceviamo il pane del cielo che dà vita eterna: chi lo mangia entra in comunione con lui e vive di lui, come lui del Padre (cf. 6,48-58). Questo pane ci rende capaci di amare come lui ci ha amati: allora lui dimora in noi come noi in lui (cf. 14,20-23). È il compimento in noi del dono del Figlio. I verbi, coniugati al presente (cf. invece 6,11, dove sono al passato), indicano che la Presenza è ormai sempre presente. In questo banchetto, oltre al pane e al pesce che Gesù ha donato, c'è anche quanto noi abbiamo pescato (v. 10), che serve da companatico (v. 5), da aggiungere al cibo che lui ci dà. Questa «aggiunta» è la nostra risposta al suo dono, che ci fa par-tecipare pienamente alla sua natura di Figlio che, come riceve dal Padre, così dà ai fratelli amore e vita. L'eucaristia coinvolge noi e coloro ai quali ci rivolgiamo, fino ad abbracciare il mondo intero, raffigurato nella moltitudine di pesci. C'è una stretta relazione tra eucaristia e missione: non c'è messa senza missione (cf. 20,19-23) e non c'è missione senza messa (cf. v. 10). Per questo ogni discepolo è inviato ai fratelli, per portare loro l'amore del Padre.

v. 14: così, già per la terza volta, si manifestò Gesù ai discepoli (cf. v. 1).
 «Così», in questo modo, per la terza e definitiva volta - dopo la prima alla sera di Pasqua e la seconda otto giorni dopo -, si manifestò il Signore ai discepoli riuniti insieme. Le tre manifestazioni «graduali» indicano il passaggio da quella riservata ai primi, che «credono perché vedono», a quella rivolta a noi che «non vediamo e crediamo». In mezzo c'è l'esperienza di Tommaso, che sta tra il primo e questo terzo modo di presenza del Risorto.

Sì parla delle tre manifestazioni ai discepoli, tralasciando quella a Mariam. Non perché sia unica e riservata, ma perché indica la dimensione profonda di ogni incontro con Gesù, che si compie nell'amore.

destato dai morti.
 L'incontro con Gesù, destato dai morti, ci ridesta dalla mor-te, comunicandoci il suo amore per il Padre e i fratelli. Qui finisce la prima parte del c. 21, che mostra il modo nel quale ormai il Signore si manifesta perennemente alla sua comunità. 

v. 15: quando ebbero dunque pranzato. Inizia la seconda parte del racconto che, dopo la missione e il banchetto eucaristico, tocca il nodo dei rapporti all'interno della comunità. La partecipazione al corpo dato è per i discepoli principio di comprensione e norma di azione: il Pane apre gli occhi sul Signore, ma anche su di sé e sugli altri. Per questo, dopo il banchetto, si chiariscono i rispettivi ruoli di Pietro e del discepolo amato. La loro differenza emerge già nella pesca: Pietro prende l'iniziativa che gli altri seguono (v. 3), si butta in mare e tira a terra la rete senza che si laceri (vv. 7b.11), mentre l'altro discepolo riconosce per primo il Signore (v. 7a). In questa seconda parte si esplicita il rapporto di Pietro con Gesù e con i fratel-lì (vv. 15-19), in particolare con l'altro discepolo (vv. 20-23). Si tratta del servizio di Pietro, della sua sequela e del suo martirio. Il suo ministero è visto in stretta relazione con l'altro discepolo, quello che Gesù amava. Ogni aspetto istituzionale è animato e misurato dall'amore, altrimenti non ha nulla a che fare con Gesù e il suo comando. La Chiesa è un'istituzione che ha l'amore come principio e come fine la libertà.

dice Gesù a Simon Pietro.
 C'è un dialogo serrato, con dieci scambi di parola tra Gesù e Simon Pietro. Tema è il suo ruolo di guida e custode dell'unità, già emerso durante la pesca. Dopo il dialogo, centrato sull'amore, c'è la chiamata a seguire il Pastore bello che dà la vita per le pecore. Gesù si rivolge a Pietro all'interno della comunità dei discepoli. Rimane ancora aperta la ferita del suo triplice rinnegamento, che Gesù aveva predetto (13,38). Ma questa non è la parola definitiva. Il suo peccato lo apre a una storia nuova: lo rende capace di capire il mistero del Signore come perdono e della debolezza, propria e altrui, come luogo di maggior amore.

Simone di Giovanni. Gesù lo chiama con il nome suo e di suo padre, come al-l'inizio (cf. 1,42a). Dopo l'esperienza dell'amore e della fedeltà del Signore per lui, diventerà Pietro, come gli fu detto nel primo incontro (1,42b). 

mi ami tu più di costoro?
 Colpiscono queste parole rivolte a Pietro e a ciascu-no di noi che le ascoltiamo. Fa tenerezza un Dio che mi chiede: «Mi ami tu?». Dopo averci svelato sulla croce il suo amore estremo, può ormai esporre senza pudore questa richiesta, fondamentale per chiunque ama: l'amore desidera essere amato. La domanda di Gesù può significare: «Ami me più di quanto ami costoro?», oppure: «Ami me più di quanto costoro mi amano?». Certamente l'autore intende il secondo senso, alludendo alla pretesa di Pietro che disse: «Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò» (Mc 14,29p). Gli aveva infatti protestato il suo amore fino a dare la vita per lui (13,36s); si era esposto per difenderlo nell'orto (18,10) e l'aveva seguito dentro il cortile di Anna, disposto a tutto, tranne che a rinnegarlo (18,15ss). Gesù usa la parola agapào, che indica l'amore originario e gratuito con il quale Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio (3,16), l'amore estremo con il quale Gesù ci ha amati (13,1), che è lo stesso con il quale il Padre ama noi (15,9). È l'amore con il quale ora anche noi possiamo amarci gli uni gli altri (13,34; 15,12.17), fino a dare la vita (15,13). È quell'amore la cui forza è la debolezza di chi espone, dispone e depone la propria vita per l'amato, gli lava i piedi e gli si dona senza riserva, come nel boccone offerto a Giuda. Gesù chiede a Pietro se ha accolto l'amore che gli ha mostrato. Ora, dopo la croce, può capirlo. Gesù chiede a Pietro se lo ama «più» degli altri per ridimensionare la sua pretesa di essere migliore degli altri. Ma non solo: l'amore ha come molla il «più». E infatti sempre una competizione; ma non con gli altri, bensì con se stessi, per vincere egoismo, orgoglio e paura. L'amore è sempre un di «più» - se non cresce, diminuisce - nell'umiltà e nella dedizione. E la nostra partecipazione al magis proprio della «maestà» (majestas deriva da magis = più) del Dio amore, a immagine del quale siamo creati. Il nostro cuore infatti è spinto dal desiderio insaziabile di un di più senza fine. Ciò che finisce è finito, ma non perfetto. Questo «di più», marchio divino dell'uomo, è il suo tormentoso destino, di felicità o di dannazione: segna il progres-so della sua storia se investito nell'amore, il regresso se investito nell'egoismo. La scena, alludendo al rinnegamento di Simon Pietro, richiama la parola di Gesù a Simone il fariseo a proposito della peccatrice: «Chi amerà di più?». La risposta è: «Colui al quale è stato perdonato di più» (Lc 7,42s). Nessuna persona religiosa è in grado di capire quest'ovvietà, perché intenta alla propria perfezione e al proprio amore per Dio più che alla perfezione di Dio e al suo amore per lui. Pietro, pur disposto a morire per Gesù, non era disposto ad accettare che lui gli lavasse i piedi. Il nostro amore è risposta all'amore ricevuto, proporzionato ad esso. E l'amore ricevuto si realizza massimamente nel perdono, dove rivela la sua essenza di gratuità, amando ciò che non è amabile.

sì, Signore, tu sai che ti sono amico. La risposta affermativa di Pietro non si fon-da sulla sua sicurezza di dare la vita per Gesù (cf. 13,37). Si fonda su quanto il Signore sa: gli aveva predetto la sua defezione (13,38), ma pure che lo avrebbe seguito più tardi (13,36b). Pietro lascia perdere l'emulazione con gli altri: non risponde al «più di costo-ro». Inoltre non usa la parola di Gesù (agapào), bensì philéo, che significa essere amico. Non è una semplice variazione stilistica. Il verbo agapào indica l'amore che dà la vita: origine di questo amore è solo lui, il Signore. Quando accettiamo che lui ci lavi i piedi, allora anche noi possiamo amare come lui. Il verbo philéo aggiunge sfumature di amicizia e reciprocità affettiva, ormai possibile perché abbiamo accol-to il suo amore assoluto. «Nessuno ha un amore più grande di questo, che qualcuno ponga la propria vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando» (15,13s), amandovi gli uni gli altri con l'amore con cui io ho amato voi (15,12).

pasci i miei agnelli. Grazie all'esperienza di amore ricevuto, Pietro è associato alla missione del Pastore bello. L'essere pastore non è onore, ma onere. Scaturisce dal pondus amoris, da quel peso di amore noto solo a colui al quale è perdonato di più. Pietro è posto a servizio dell'unità tra i fratelli perché, nel suo peccato perdonato, ha coscienza dell'amore di Cristo. Per questo il suo ministero sarà contrassegnato da perdono e riconciliazione. La sua preminenza non è nel dominio, ma nel servizio di misericordia e perdono (cf. 20,21-23). Istituzione e amore non vanno mai separati. Senza amore ogni istituzione è perversione; anzi, più l'istituzione è perfetta, più grande è la perversione. La Chiesa è un'istituzione che ha come fine quello di amare l'uomo per-ché sia libero di amare. Cristo ci ha liberati per questa libertà (cf. Gal 5,1.13). La parola «pascere» è in connessione con la pastura, il cibo da procurare al gregge. Il vero cibo è la carne di colui che ha dato la vita per i fratelli. Parola e pane sono il cibo da garantire: quella Parola che si è fatta pane, quel Pane che la Parola stessa dà.

«Agnelli» richiama l'«agnello di Dio» (1,29.36): i discepoli di Gesù sono identificati con lui. Qui si parla di «agnelli», piccoli, e poi di pecore, grandi. I due termi-ni contrapposti indicano la totalità, che coniuga insieme distinzione e uguaglianza. Pietro è chiamato ad essere pastore al seguito di Gesù, entrando per quella porta che è lui stesso (10,9). Come il nostro Pastore è l'Agnello che ha portato su di sé il peccato del mondo, così ogni pastore è una pecora che sa come il Pastore bello ha dato la vita per lei. Pietro è pastore sotto il segno del perdono, prima ricevuto e poi accordato. 

v. 16: gli dice ancora una seconda volta.
 Non basta una volta: la domanda di Gesù sarà ripetuta sempre un'altra volta. La coscienza del suo amore deve essere senza limite, come la nostra fragilità e capacità di oblio. Simone di Giovanni, mi ami? Gesù ripete la stessa domanda, tralasciando il «più di costoro». Pietro, nella sua esperienza di tradimento, è già sufficientemente guarito dalla pretesa di essere meglio degli altri. Però non è ancora guarito dalla sfiducia che gli impedisce di amare. Il più dell'amore è proporzionato al meno dell'or-goglio, ma anche al più della fiducia; altrimenti l'umiltà diventa maschera di pusillanimità invece che stimolo alla magnanimità (cf. il Magnificat). Le parole tra Gesù e Simone di Giovanni sono un dialogo di guarigione. Il vecchio Simone, tanto generoso e volenteroso quanto fragile e presuntuoso, viene alla luce come Pietro; diventa stabile come la Roccia da cui è tratto (cf. Is 51,1), fratello di colui che è la Pietra (cf.1Cor 10,4), scartata dai costruttori e diventata pietra angolare (cf. Mc 12,10; At 4,11). 
sì, Signore, tu sai che ti sono amico. La seconda risposta di Pietro è identica alla prima. Conferma la propria amicizia, fondata non su di sé, ma su di lui che sa ogni cosa. Gesù, oltre al tradimento di Giuda, sapeva anche del suo rinnegamento, prima ,che lui ne sospettasse la possibilità. La sua conoscenza divina è elemento comune alle tre risposte di Pietro.

pascola le mie pecore. Gesù ribadisce la sua fiducia in lui. Rispetto al v. 15 c'è «pascola» invece di «pasci» e «pecore» invece di «agnelli». Pascolare, termine più ampio di pascere, indica l'azione del pastore che guida il gregge (cf. Sal 23). Gesù affida a Pietro piccoli e grandi, agnelli e pecore, perché provveda loro il cibo, guidandoli ai pascoli. Pietro è associato al servizio di Gesù, senza però sostituirsi a lui. Non gli dice che è pastore: unico è il Pastore, l'Agnello che ha dato la vita per tutti e a tutti. Pietro deve condurre il gregge a quel pascolo dove il Signore è pastore e pastura. Questo servizio è connesso alla sua esperienza dell'amore gratuito di colui che gli ha lavato i piedi. Gesù parla sempre di «miei» agnelli (v. 15) e di «mie» pecore (vv. 16.17). Agnelli e pecore sono sempre e solo del Figlio e del Padre, non di Pietro. Il gregge non appartiene a lui: non è il padrone, ma il servo della sua fede (cf. 1Pt 5,1-4). Il gregge è di Dio stesso, che comunica a tutti e a ciascuno la Gloria. Il servizio di Pietro è dare l'esempio (cf. 1Cor 11,1;1Tm 4,12) e conservare l'unità nella diversità. Infatti l'essere «uno» nell'amore è la testimonianza al mondo della Gloria (cf. 17,20-23).

v. 17: gli dice la terza volta.
 Questa terza volta è sottolineata nella sua diversità dalle altre e richiama il triplice rinnegamento (13,38; 18,17.25-27).

Simone di Giovanni, mi sei amico? Gesù ora lo interroga su ciò che due volte Pietro ha affermato: è sicuro di essergli amico? Vuole fargli esplicitare che questa sicurezza c'è; ma non deriva dalla sua bravura, bensì dall'esperienza del triplice rinnegamento. Grazie a esso ha sperimentato il perdono di colui che lo conosce meglio di quanto lui conosca se stesso, perché lo ama più di se stesso. Solo allora è sicuro che nulla lo può ormai separare dall'amore di Dio. Non dal suo amore per Dio, ma da quello di Dio per lui in Cristo Gesù ( cf. Rm 8,32-39). La sua sicurezza non è più presunzione, perché è fondata sul «tu sai». 

si contristò Pietro perché gli disse la terza volta, ecc. Pietro si contrista al ricordo della sua infedeltà. Eppure proprio questa è il fondamento del suo «amare di più», come Gesù gli ha chiesto all'inizio. È nella sua infedeltà che sperimenta chi è il Signore, fedele e misericordioso. Pietro considera ancora la sua infedeltà come ombra, fonte di tristezza, non come luce e gioia del perdono. Per questo Gesù continua con lui il dialogo di guarigione. Il servizio di Pietro, che mantiene l'unità dei fratelli nella fedeltà del Signore, continuerà anche dopo di lui. Quest'unità sarà sempre garantita da un «di più» nell'amore, che scaturisce da un «di più» di perdono nella coscienza del proprio peccato. L'unità tra i fratelli non può fondarsi che sul perdono.

Signore, tu sai tutto.
 Pietro amplia la prima parte delle due risposte precedenti. Tu, Signore, sai tutto di me (cf. Sal 139); e io so che sei tu a dare la vita per me, non io per te. Tu sai che io ti rinnego e sai che, nella tua fedeltà a me, anch'io saprò riconoscerti e amarti.

tu conosci che ti sono amico.
 Tu sai che il mio esserti amico non è capacità mia, ma dono tuo, che mi hai promesso che capirò ciò che tu mi hai fatto (13,7) e poi ti seguirò (13,36b). 

pasci le mie pecore.
 Per la terza volta gli è confermata la fiducia. Quest'ultima risposta di Gesù sintetizza le altre due: dice «pasci» come la prima volta e «le mie pecore» come la seconda. Pietro, con e come il Pastore bello, pasce le sue pecore nell'amore, perché ci sia un solo gregge libero, un solo pastore (cf. 10,16b). Egli ha l'iniziativa nella missione e conserva l'unione del frutto abbondante, perché non si laceri l'essere «uno» dei salvati. Il ricordo della sua infedeltà e del suo peccato lo rende «sacramento» di unità nel perdono. Pietro ricorda a tutti l'amore del Pastore bello, che nessuno esclude. Questo amore per noi è il centro della nostra fede: «Abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi» (1Gv 4,16).

v. 18: amen, amen ti dico: quando eri più giovane, ecc.
 Gesù predice a Pietro che ora sarà in grado di seguirlo e andare dove lui stesso è andato (cf. 13,36). Il testo è un contrappunto giovane/vecchio, cingersi/essere cinto, andare/essere portato, volere/non volere. C'è una differenza tra il precedente Simone, che da giovane si cinge-va la veste credendo di andare dove voleva, e il nuovo Simone, che da vecchio sarà cinto della veste da un altro e sarà portato dove non vuole. E proprio quello il luogo dove prima voleva, ma non poteva andare (cf. 13,36): è lo stesso dove il suo Signore e Maestro è andato, ponendo la propria vita a servizio dei fratelli. Se Pietro voleva dare la vita per Gesù, Gesù ha dato la vita per lui. Lavandogli i piedi, gli ha dato la libertà di amare come è amato. Per questo «tenderà le mani» e sarà condotto a morire accanto a Gesù, come i due malfattori. Infatti, crocifis-so nel 64 d.C., stenderà le mani sul patibolo della croce. Eusebio dirà che fu crocifisso a testa in giù. Solo in questo capovolgimento si raddrizzerà. Allora si compirà il suo battesimo, iniziato nel suo buttarsi in mare cinto della veste (cf. v. 7). Crocifisso con Cristo (cf. Rm 6,6), deporrà definitivamente l'uomo vecchio e rivestirà l'uomo nuovo: diventerà come il Pastore bello che sa dare la vita (10,11). Così gli sarà veramente amico (15,13).

v. 19: questo disse significando con quale morte avrebbe glorificato Dio. È il commento del redattore: Gesù ha predetto il martirio del suo discepolo. Come era stato promesso, la Gloria che il Padre ha dato al Figlio, questi l'ha data ai discepoli (17,22). Ora anche per Pietro l'andarsene dal mondo non sarà più un morire, ma un glorificare Dio (cf. 11,4), manifestando in sé il suo amore (cf. 12,26-33). 

segui me.
 Come Filippo all'inizio (1,43), ora anche Pietro è chiamato dal Signore a seguirlo. Se prima non poteva (13,36), adesso può, perché nel perdono conosce il suo amore. Pietro non è il pastore da seguire, ma l'agnello che segue l'Agnello, fino al martirio. Con la sua testimonianza offrirà ai fratelli il cibo di cui lui stesso si è nutrito. Seguire Gesù è un'espressione che dice in sintesi tutta la vita cri-stiana: si segue chi si ama, per essere con lui e come lui. 



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