Sacratissimo Cuore di Gesù. Anno A






Le parole del Signore che si rivolgono al Padre in un'estatica benedizione ci schiudono oggi una finestra sui sentimenti più intimi di Dio. Possiamo avventurarci nel cuore del Padre e scoprire che batte con trepidazione per i "piccoli", ai quali "rivela" le sue cose, mentre le "nasconde ai sapienti e agli intelligenti". E come le rivela? Per mezzo del suo Figlio che ha inviato nel mondo per far conoscere il suo Nome dopo avergli !dato tutto". Per questo, chi ha visto Gesù ha visto il Padre. Sì, Colui che nessuno ha mai visto, l'inaccessibile, il totalmente altro, il Santo del quale non si poteva neanche pronunciare il Nome, aveva un volto e uno sguardo d'uomo, un cuore di Figlio. Per conoscerlo bisognava essere capaci di stupirsi e gioire, come i bambini, come quelli più piccoli. Li hai presente no? Quando gli dai qualcosa di inatteso, quando li prendi in braccio, quando li tiri in alto e li riprendi stringendoli forte: ti guardano sorridenti, la bocca aperta e gli occhi spalancati, e sembra che ti schiudano dinanzi il loro intimo perché ti ci perda come in una prateria immersa nell'infinito; semplici, senza altra parola che quella dello stupore, della pura meraviglia, della gioia dirompente e spontanea. La stessa che ha invaso gli apostoli la sera di Pasqua, quando hanno visto il Signore risorto. Era apparso lì e non nel Tempio; a quei traditori incoerenti che si era scelto tra i peccatori e gli ultimi del popolo; nel Cenacolo e non nel Sinedrio. Solo i "piccoli", infatti, sanno stupirsi e gioire di Gesù e del suo amore gratuito, immeritato e inaspettato. Non hanno parole per difendersi, discutere, contestare, polemizzare; non hanno verbi per declinare la malizia; non hanno sostantivi per lanciare giudizi. Hanno gli occhi sul cuore, si accendono quando intuiscono l'amore. Hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro, e si stupiscono, mamma mia quanto si meravigliano, se questo accade. I "piccoli" di Gesù, infatti, sono gli infanti, secondo l'originale, ovvero coloro che non hanno ancora l'uso della parola, i fanciulli. Dio rivela il suo cuore a chi ancora non sa parlare. Le sue parole sono per chi non ha parole. Non perché "i sapienti e gli intelligenti" abbiano meno bisogno di Gesù, o siano particolarmente malvagi. Semplicemente perché negli alberghi a cinque stelle, con tante stanze e comfort, non c'è posto per il Messia; nella vita di chi ha una parola per ogni situazione, una risposta ad ogni dubbio, una soluzione per ogni problema, non c'è posto per la Parola fatta carne. E al Padre "è piaciuto rivelare ai piccoli", che di spazio ne hanno a volontà, tutte le "cose" contenute in questa Parola. E al Figlio pure "è piaciuta" la stessa cosa, farsi conoscere dagli ultimi, da quelli che tutti disprezzano, ai quali nessuno dice nulla e, meno che meno, rivela segreti importanti. E tu? E io? Siamo tra gli intelligenti che "vanno" al demonio e "imparano da lui" la sapienza del mondo, o tra i "piccoli" che, di fronte alla storia, non hanno più parole? E' morto tuo figlio, e tutte le parole se le sono portate via le lacrime? Hai perso il lavoro e non hai parole per spiegare a moglie e figli che bisogna cambiare regime? Hai peccato, e rovinato molto, quasi tutto della tua vita, e non hai una sola parola per giustificarti? Se così fosse, coraggio!, sei un "piccolo" al quale Gesù sta per "rivelare" suo Padre, ovvero l'amore senza condizioni, il perdono di ogni peccato, il balsamo per ogni ferita. O, al contrario, ti trovi con il cellulare bollente in mano dopo l'ennesima telefonata con cui hai sommerso qualcuno con i tuoi consigli e le tue dritte? O hai chiuso per quattro ore tuo figlio in camera per sottoporlo a una salve di moralismi che lo hanno stecchito? O hai spiegato per filo e per segno a tua moglie come si stira, si lava, si cucina, e si tolgono le macchie, come quella che hai trovato sul comò, dove non avevi mai posato lo sguardo? Se così fosse, saresti uno dei tanti "intelligenti e sapienti" ipocriti ai quali Dio "nasconde" le sue cose, perché non sapresti che cosa fartene. Non ne hai bisogno, tu che sai tutto e spandi il tuo verbo di opinionista in ogni talk-show nei quali ti infili, al bar, durante la pausa pranzo, in famiglia, al mercato, sulla metropolitana. Ma non sei solo eh, tutti noi vomitiamo parole ovunque, o no? Parole vuote per cercare di razionalizzare pensieri irrazionali. La sapienza e l'intelligenza mondane, figlie del principe di questo mondo, affogano il nostro cuore e strozzano la nostra mente, e ci rendono impermeabili alla Parola fatta carne. Ci crediamo adulti perché ci illudiamo di condurre le nostre esistenze a suon di parole. Chiacchiere, per giustificare, per legare, per sciogliere, per ingannare, per sedurre, per vincere, per vendicare, per calunniare. Per uccidere. La Scrittura mette in guardia dal troppo e vano parlare: "Le parole della bocca dell'uomo sono acqua profonda... con la bocca l'uomo sazia il suo stomaco, egli si sazia con il prodotto delle sue labbra. Morte e vita sono in potere della lingua, e chi l'accarezza ne mangerà i frutti" (Pr. 18, 4. 20-21). C'è come un'ingordigia nelle nostre parole; le accarezziamo credendo di trovare in esse "il riposo e il ristoro", ma siamo condannati a gustarne i frutti amari: divisioni, liti, inimicizie, invidie, gelosie, rancori. Siamo schiavi delle nostre parole, "affaticati" per cercarne di nuove, "oppressi" dalla legge che con esse carichiamo sulle spalle nostre e degli altri. Ma il Signore viene anche oggi al nostro incontro, la sua berachà, la benedizione che sgorga dal suo cuore di fronte al mistero che rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, illumina la nostra tenebra, e ci chiama a conversione: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime". "Venite a me", che significa concretamente "venite alla Chiesa che è il mio Corpo", che sono Io stesso vivo in questa generazione! Gesù, infatti, dice "venite", al plurale, perché si rivolge a un popolo, cioè "a quelli ai quali si vuole rivelare". A quanti sono appunto chiamati per essere eletti a divenire, nel mondo, immagine sua. Non si tratta quindi di un "volere" casuale - un "voglio manifestarmi a te perché sei più intelligente, perché vai sempre in Chiesa" - ma della stessa "volontà" di Dio che, misteriosamente, sceglie i suoi discepoli perché continuino nel tempo la missione di Cristo; essi sono, come già furono gli ebrei, i più "piccoli": "Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili (qui si riferisce ai figli abbandonati, senza famiglia). Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione" (1 Cor. 1,26-30). Per questo Gesù "chiama" ad "imparare" i "piccoli" che ha scelto, riferimento evidente alla prassi della Chiesa primitiva di iniziare alla fede attraverso il catecumenato chi aveva chiesto di diventare cristiano. Come allora, il Signore chiama anche noi oggi: non temete, bussate alle porte della Chiesa e fatevi accogliere così come siete. "Venite a me voi tutti" soli e tristi perché strangolati dalle vostre parole superbe, e fate spazio alle mie, le uniche di vita eterna. "Venite" alle celebrazioni, nutritevi del mio corpo e del mio sangue, accostatevi al perdono dei peccati, ascoltate la mia Parola proclamata e predicata; smettete di difendervi e camminate insieme ai fratelli, perché essi sono lo specchio fedele della nostra realtà, dalla quale non si può scappare con le parole stolte e insipienti imparate nel mondo. "Venite, invece, ad "imparare da me" nella scuola dell'umiltà e della mitezza che è una comunità cristiana; in essa - giorno dopo giorno, anno dopo anno, celebrazione dopo celebrazione, catechesi dopo catechesi - ci si spoglia a poco a poco "dell'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici", e ci "si rinnova nello spirito della nostra mente"; nella Chiesa si cambia mentalità, passando "dall'intelligenza e sapienza" che ci fanno pensare secondo la carne, al discernimento che sorge dalla sapienza della Croce. Così, nella comunione celeste, si "riveste l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera" (cfr. Ef 4), che "si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore" (cfr. Col.3, 9ss). Nelle viscere materne della Chiesa, Madre e Maestra, è gestato il cristiano, immagine viva del Servo di Yahwè, che non ha resistito al male, perché vi si "impara a conoscere Cristo, dando ascolto alle sue parole ed essendo da Lui istruiti". Sulla strada dove scorre la storia di ciascuno, spesso piagata dallo scoraggiamento e tentata di allontanarsi dalla comunità come quella dei discepoli di Emmaus, il Signore si fa presente e, riscaldandoci il cuore con la sua Parola trasmessaci dalla Chiesa, si fa "riconoscere nello spezzare il Pane" del suo corpo offerto mille volte, e "apre la mente all'intelligenza autentica, quella delle Scritture". Sotto questa luce pasquale la vita acquista il suo vero senso, e prende la sua forma originaria, quella dell'Agnello di Dio "mite e umile di cuore". Per questo, ci prende per mano come ha fatto con Giobbe, intrappolato anch'egli nella rete delle sue troppe parole e nei lacci delle insensate parole dei suoi amici pseudo-sapienti. Ci "rivela i misteri del Regno" attraverso la predicazione della Chiesa, sintetizzata così da San Paolo: "noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini" (1 Cor. 1, 23-25). Gesù ci fa dunque conoscere suo Padre attraverso la sua Croce, dove ci ha amati sino alla fine. In essa risplende la verità, l'amore inaudito di Dio. "Imparate da me": il termine adottato rimanda a un rapporto e a una relazione profonde, ben al di là di una conoscenza superficiale: a quella tra Didaskalo e Discepolo, tra il Maestro e l'allievo. "Imparare", dunque, è la coniugazione di un'intimità che si realizza pienamente solo dove il Signore si consegna amandoci "sino alla fine", sulla sua Croce gloriosa. Così potremo "conoscere" Lui perché Lui si è voluto "rivelare" a noi; e non con una speculazione filosofica, con libri e spot pubblicitari, ma nella solitudine feconda del Golgota. Eccoci allora oggi sotto la Croce per celebrare questa Solennità. Contempliamo il cuore di Dio, "l'uomo dei dolori", l'Agnello senza macchia. Contempliamo il suo amore per riconoscere i nostri peccati. Come Giobbe mettiamo la mano sulla bocca, impariamo il silenzio stupito dell'infante. E' tutto troppo più grande di noi. Non sappiamo. Non conosciamo. Non capiamo. Accettiamolo. Abbiamo conosciuto Dio per sentito dire, come i poveri del Popolo di Israele, ci hanno "oppresso" la legge e i moralismi dei precetti umani, ci siamo "affaticati" nello sforzo di essere buoni, di conquistare spicchi di Cielo e di affetto, e, stressati, abbiamo cominciato a giudicare e a condannare, come i farisei. Impariamo, invece, a conoscere Dio attraverso il cuore di Cristo, lasciamoci lavare dall'acqua e dal sangue che ne sono sgorgati. Lasciamo che la Croce di oggi sia il crogiuolo dove bruciare quello che di noi appartiene alla carne a al mondo. Preghiamo perché Dio ci faccia piccoli, cioè autentici, infanti appena divezzati in braccio alla madre. E lì, nella comunità, tranquilli e sereni, senza aspirare a cose troppo alte, senza pretendere nulla, potremo saziarci delle sue Parole. "Ascoltare e andare" a Cristo: è questa la volontà di Dio per noi, oggi e sempre. Sino all'ultima chiamata, quella per le nozze eterne. Andare e fermarsi presso di Lui. Vedere dove Lui abita, stare con Lui, e imparare, con l'orecchio aperto come un discepolo. In questo atteggiamento del cuore, e solo in esso, troveremo in Lui "ristoro, riposo per il nostro intimo, per le nostre anime". Ciò significa, concretamente, accettare la precarietà, economica, affettiva, spirituale. Lottare con essa ci "affatica e opprime", ed è opera del moralismo inculcato dal demonio, che ci allontana da Cristo rendendoci a poco a poco nemici del suo "Giogo", della Croce che ci salva. Ci accompagna piano piano sui sentieri superbi dello sforzo, che si trasforma in legalismo, per finire in una frustrazione insaziabile, che cerca sempre di rifarsi. Come chi è schiavo del gioco, che vive ossessionato dalla prossima partita nella quale rifarsi di tutte le sconfitte. Per questo siamo stanchi, delusi, depressi: siamo diventati nemici dell'unica salvezza, della Croce. Mentre è proprio nella precarietà della Croce che si può davvero sperimentare l'opera di Dio, la sua prossimità, il suo amore. E' al centro della nostra umiltà che Dio è presente e operante, nella verità che è la nostra totale precarietà. La storia ci ha fatti piccoli, poveri, "tapini", ultimi, secondo l'accezione del termine "umile" che compare nel Vangelo. Nella terra, nell'humus dove ci troviamo, possiamo essere accolti nel riposo vero, perché è esattamente il luogo dove Cristo è disceso. Il Signore s'è abbassato sino a noi, umiliato nella morte, "mite" come un agnellino condotto al macello. Lui s'è offerto volontariamente laddove noi dobbiamo andare senza nessuna voglia. Mite dove noi recalcitriamo. Lui stesso, pur essendo Figlio, ha "imparato" l'obbedienza dalle cose che patì. Ecco, celebrare il Sacro Cuore di Gesù è accettare la nostra precarietà, la terra arida dove viviamo, per accogliere Cristo che viene a visitarla e a renderla un giardino di delizie, un anticipo del Paradiso, una profezia viva del riposo eterno che ci attende. Accettare di essere piccoli, gli ultimi della terra, senza alcun diritto a causa dei nostri peccati, come Zaccheo, Matteo, Pietro, Paolo; riconoscere di essere rimasti senza parole per rispondere alle grandi e alle piccole questioni della vita. E per questo restare ai piedi di Gesù come Maria, cercando e desiderando, negli eventi che feriscono il matrimonio, che ci svelano inermi di fronte alla vita e alle debolezze dei figli, che ci umiliano sul lavoro, in ogni circostanza, l'unica cosa buona e necessaria, la sua Parola, la sua vita, il suo amore. Nascondiamoci allora nella fenditura della roccia, nelle viscere di misericordia della Chiesa che sono, per noi, il suo cuore squarciato dalla lama malvagia dei nostri peccati. Solo nell'anfratto che ci unisce a Cristo potremo imparare la "mitezza""Mite" è "colui che è stato domato", che ha "imparato" ad obbedire. Etimologicamente la mansuetudine, o la mitezza, è la caratteristica dell'animale ammansito perché sia docile nel sottoporsi al giogo. Siamo stati creati per imparare da Lui l'autentica umanità, attraverso il suo giogo soave che rende soave la carne, per natura così simile a quella di un animale selvatico. Per questo, proprio la Croce è l'unica scuola adatta a noi; ciò che ci sembra assurdo e inaccettabile nella nostra vita è l'unico giogo adeguato alla nostra carne indomabile. Tutto il resto, i nostri e gli altrui pensieri, le parole, i criteri e i legalismi, ci schiacciano rendendoci ogni volta più orgogliosi. Andare al Signore significa dunque lasciarsi abbracciare dal suo "giogo", e restare crocifissi con Cristo, per diventare "miti e umili di cuore" - cioè di pensieri e volontà che nascono, appunto, nel cuore - di fronte a persone e fatti della storia. Il "mite", infatti, "possiede la terra": vive nel mondo una porzione di Cielo, perché dalla Croce, ben piantata nel suolo ma puntata verso l'alto, abbraccia uomini ed eventi nell'amore che discerne e "conosce" il Padre che in essi si "rivela" guidando la storia con la sua volontà provvidente. Per l'uomo "mite" la terra promessa nella quale il Signore lo invia è la giornata di oggi, la famiglia con tutte le difficoltà e preoccupazioni, il lavoro e la scuola, l'altro così com'è, e anche se stesso, con le contraddizioni e le insicurezze, i dolori e pure i peccati. Come fece con Giosuè, Gesù ci invita a non temere e a farci forza e coraggio, perché Lui sarà con noi ovunque e sempre, portando con noi il "giogo soave e dolce" della volontà di Dio che si fa croce quotidiana. E' vero che ci sono popoli più forti di noi, i demoni che ci insidiano per cacciarci dalla terra che ci appartiene. Ma, nascosti nel cuore di Cristo, impareremo la mitezza e l'umiltà che, sole, possono avere ragione del male e del suo artefice. Non gli stratagemmi del cuore carnale, non le tattiche escogitate dalla mente mondana, non la superbia e l'arroganza, ma il "giogo" di Cristo sconfiggerà anche oggi il potere di satana. "Il mite e umile di cuore", come Mosè, conosce la propria debolezza, sa da dove è stato tratto, ma non se ne scandalizza: ha conosciuto l'amore di Dio che lo ha chiamato da un roveto che non si consumava, come il suo cuore ardente che non si spegne neanche dinanzi al peggior peccato. Il "mite e umile di cuore" sa che in quel fuoco d'amore è vivo Dio, Colui che è, sempre e ovunque, per farci essere con Lui. Per questo, chi ha imparato la "mitezza e l'umiltà" alla scuola del cuore di Cristo, si lascia condurre dalla Chiesa. Sa che la lotta d'ogni giorno non è contro le creature di carne, contro suocere o mariti o mogli o figli o colleghi di lavoro o coinquilini di condominio, ma contro il demonio, il padre della menzogna e dell'orgoglio. Per questo segue le orme di Cristo lasciate laddove Lui stesso ha imparato, ovvero sulla la via del Calvario. La Croce è l'unico "giogo" che non pesa, l'unico "carico leggero", l'unico adatto a noi, perché Gesù Cristo è l'unico che si è adeguato a noi, "facendosi peccato perché i peccati non ci allontanassero da Lui" (Ode VII di Salomone). Carne, mondo, desideri, progetti, leggi, tutto è per noi troppo pesante, inadeguato. Tutto troppo terreno. Siamo fatti per Dio, siamo suoi. Per questo non v'è altro "giogo" perfetto per noi se non il "giogo" di CristoOggi, nella semplicità delle ore che ci accolgono, negli incontri, nelle cose da fare e ripetere mille volte, si compie una liturgia d'amore. La nostra vita è parte del "tutto" che il Padre ha dato al Figlio. Per questo, nella nostra storia, siamo accolti nel riposo che solo il cuore docile e obbediente di Cristo può gustare, anche se nulla nella nostra vita riposa, né il male, né il dolore, né le avversità. Un riposo crocifisso, un ristoro nel mezzo della battaglia. Immergiamoci allora con Cristo nella sua preghiera di lode e benedizione, approdo di ogni cristiano adulto nella fede, che si compie in ciascun istante reclinando il capo sulla Croce, spirando vita per riaverla piena e compiuta. 


QUI IL TESTO DEL VANGELO E GLI APPROFONDIMENTI









L'ANNUNCIO
In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.
Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare». Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» 
(Dal Vangelo secondo Matteo 11, 25-30)







APPROFONDIMENTI






αποφθεγμα Apoftegma


Sia che l’animo nostro si trovi oppresso dal dolore o dalla delusione, 

sia che sovrabbondi di santo gaudio, 
nel Cuore santissimo di Gesù egli trova quello che gli occorre, 
tutto quello che potrebbe desiderare, 
la medicina per le sue ferite ed il conforto alle sue pene, 
la conferma delle sue speranze, la forza per perseverare, 
il più efficace impulso ad una sempre maggior perfezione 
e la gioia ineffabile della sensazione viva della figliolanza ed amicizia di Dio 
e della fraterna unione con Gesù Cristo.
San Riccardo Pampuri




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