Mercoledì della XIX settimana del Tempo Ordinario



Gesù e gli apostoli





L'ANNUNCIO
Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.
Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano.
In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.
In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.
Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».  
 (Dal Vangelo secondo Matteo 18, 15-20)



Pentecoste
La comunione è uno tra i beni più preziosi donati dallo Sposo alla Sposa; rivelando l'amore e l'unità tra i "fratelli", essa è il segno che Dio offre al mondo perché "creda": "Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me" (Gv 17,23). 

Il termine greco koinonia (comunione) traduce l'ebraico khaburah; entrambi indicano, in origine, una cooperativa, una società, come quella dedita alla pesca composta da Pietro, Giacomo e Giovanni. Nell'ambiente giudaico contemporaneo a Gesù khaburah indicava, tra l'altro, la comunità di almeno dieci persone riunita per celebrare la Pasqua. Quindi anche gli apostoli riuniti con Gesù durante la sua ultima cena formavano una khaburah: la partecipazione al Mistero Pasquale del Signore gettava le fondamenta della comunione!  

Ma il termine ebraico si riferiva solo alla relazione tra gli uomini, non indicava quello tra l'uomo e Dio. Questo era reso dalla parola Berith, che significa Alleanza. Tra Dio e l'uomo non poteva sussistere comunione, perché non vi era uguaglianza tra di loro; Dio, pur essendo vicino, rimaneva comunque a una certa distanza: era Lui a stringere un'alleanza con il suo popolo, fondata nel suo amore a cui l'uomo può rispondere con la fedeltà.

Ma proprio nella Pasqua celebrata nel Cenacolo avviene qualcosa di assolutamente nuovo: Dio che s'era fatto carne, provocando scandalo e rifiuto, diviene tanto prossimo all'uomo da farsi carne da mangiare e sangue da bere. La comunione tra gli uomini si fonda nella comunione con Gesù; in virtù del suo Mistero Pasquale, il Figlio di Dio comunica se stesso ai suoi apostoli che, uniti a Lui, divengono così figli del suo stesso Padre. 

Per questo, la comunione non è il frutto degli sforzi dell'uomo, delle sue capacità di mediazione, non nasce dal voto di fiducia della maggioranza, non si stabilisce nei palazzi delle comunità internazionali, non si fonda sulle affinità umane o su comuni ideali. La comunione è un dono dello Spirito Santo, il soffio della vita eterna che la mattina di Pentecoste irruppe nel Cenacolo e prese dimora nella Vergine Maria e negli apostoli, dando alla luce la Chiesa. Da quel giorno, nel corso della storia, lo Spirito di Cristo risorto rompe le barriere di razza, lingua e cultura, e unisce i cristiani nel suo amore che ha vinto il peccato e la morte. 

Da semplice khaburah, società riunita in una comunione di intenti e di fede religiosa, divengono allora "fratelli" tra di loro e di Gesù: "va' dai miei fratelli e di' loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro" (Gv 20,17). Dal Cielo poi, il Signore invierà il suo Spirito che infonderà nei suoi fratelli la sua vita, quella del Figlio che obbedisce al Padre offrendo se stesso.

I cristiani non sono, dunque, "fratelli" di Gesù in virtù di una parentela carnale o di una comunione umana; lo sono perché, in virtù dello Spirito che grida in loro "Abbà, Papà", compiono la volontà di Dio, che, essenzialmente, è che nessuno si perda. Allora, quando la Chiesa implora il Padre perché si "compia la sua volontà come in Cielo così in terra", essa sta pregando perché nessun "fratello" vada perduto; chiede che questo desiderio del Padre si compia in lei che cammina sulla terra, e che in essa non si sopisca mai lo zelo per "conquistare il fratello", costi quel che costi: "se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12,24). Perché vi sia la comunione è necessario morire per i peccatori.

E il costo è sempre il sangue di Cristo. E' Lui che "legando in terra ha legato anche in cielo", e "sciogliendo in terra ha sciolto anche in cielo". Lui è il Pastore che va in cerca della pecora "perduta" per riportarla all'ovile: la "scioglie" dai lacci del "peccato" e la "lega" di nuovo alla comunione con il Padre e con i "fratelli". E questo ministero è stato affidato, attraverso Pietro, a tutta la comunità cristiana. Essa lo esercita innanzitutto attraversi i sacramenti, la predicazione e la catechesi. Ma anche per mezzo dei fratelli, ai quali, in virtù del battesimo, è conferito il potere di vincere il peccato, che coinvolge sempre tutta la comunità. Le parole del Vangelo di oggi illuminano come i fratelli possono distruggere le barriere che il demonio erge tra di loro.

La Chiesa, infatti, ha la consapevolezza che il "peccato" ha il potere di distruggere la comunione e far perdere così 
al sale il sapore. Una comunità divisa perché qualche "fratello ha commesso una colpa" e non è stato "guadagnato" al perdono, non può compiere la sua missione nel mondo, vale solo per essere calpestata dagli uomini

Per comprendere le parole di Gesù occorre rammentare l'episodio della battaglia di Ai, quando gli israeliti, sino allora vittoriosi ovunque nella conquista della Terra Promessa, fuggirono miseramente davanti agli abitanti della città: "Allora al popolo venne meno il cuore e si sciolse come acqua" (Gs 7,5). La Chiesa, corpo di Cristo, non può peccare, ma i suoi membri sì; e questo provoca, come per Israele, la fuga dinanzi alla responsabilità della salvezza del mondo, divenendo così scandalo per gli uomini. Per questo il peccato di uno solo non può rimanere nascosto; è un'illusione pensare che il mio peccato rimanga una questione tra me e Dio, o al massimo, tra me e un fratello. 

La vicenda del Popolo di Israele ce lo insegna. Così dice il Signore a Giosuè sconsolato: "Israele ha peccato. Essi hanno trasgredito l'alleanza che avevo loro prescritto e hanno preso ciò che era votato allo sterminio: hanno rubato, hanno dissimulato e messo nei loro sacchi! Gli Israeliti non potranno resistere ai loro nemici, volteranno le spalle ai loro nemici, perché sono incorso nello sterminio. Non sarò più con voi, se non eliminerete da voi chi è incorso nello sterminio... dice il Signore, Dio di Israele: Uno votato allo sterminio è in mezzo a te, Israele; tu non potrai resistere ai tuoi nemici, finché non eliminerete da voi chi è votato allo sterminio" (Gs 7,11-13).

Per questo Gesù dice che, "se qualcuno ha peccato", non si può restare indifferenti, vi è di mezzo la conquista della Terra Promessa, il Cielo da schiudere agli uomini attraverso la Chiesa. Non si tratta di una semplice questione giudiziaria per salvaguardare l'ordine di una società. Gesù non offre la propria versione dei differenti gradi di giudizio di uno Stato. Egli mostra come il giudizio di misericordia del Padre che è nei cieli si realizza nella Chiesa che è sulla terra. 

A differenza del mondo, che crede di debellare il male a suon di intercettazioni spifferate nel nome di un presunto diritto di cronaca e di sapere, o di post e tweet dati in pasto a tutti sui social-networks, nella Chiesa il primo approccio al "fratello" è quello "fra te e lui solo". 

La dignità di una persona è sacra! Può darsi che quello che abbiamo visto nel fratello sia solo apparenza, e che le cose stiano diversamente. "Se qualcuno ha peccato". E' importante quel se, dice molto... Spesso noi lo omettiamo, in preda ai nostri giudizi e pregiudizi, e vediamo il peccato laddove non c'è. 

Allora il criterio migliore per obbedire all'insegnamento di Gesù è mettersi dalla parte del fratello; solo quando avrai esaurito ogni possibile giustificazione del suo operato, allora potrai avvicinarti a lui, non senza esserti prima immedesimato in lui. Avvicinarsi cioè senza dimenticare la trave che è nel tuo occhio: tu sei stato lui, anzi, senza la misericordia di Dio, tu saresti molto peggio di lui. Se non c'è questo atteggiamento, allora è meglio lasciar perdere, perché "correggere" significa "reggere insieme". 

La correzione è un frutto purissimo dell'amore, forse la sua incarnazione più difficile. Per correggere occorre amare l'altro al punto di desiderare di portare con lui il peso dei suoi peccati. Amare in Cristo, che prende su di sé i peccati tuoi e suoi, e ci chiama a prendere, con Lui, il suo giogo dolce e leggero, la Croce che purifica e perdona: ""Si butta al tuo collo Cristo per sollevare chi giace sotto il peso dei peccati, per rivolgere al cielo chi è piegato verso terra. Ti si butta al collo Cristo e, liberato dal giogo della schiavitù, il tuo capo ti appende al collo il suo giogo soave. Ti si butta al collo, perché tu ti converta" (S. Ambrogio). 

Se scopri del risentimento significa che la carne sta soffocando la carità, e a nulla gioverebbe la tua correzione, perché giungerebbe al fratello come una oppressione, e vorrà sfuggirla. E quante volte accade con i nostri figli... "Non esasperateli", ammonisce San Paolo, "perché non si perdano d'animo". Solo se un genitore avrà ben presente di aver bisogno egli stesso di essere "corretto" da Dio potrà avvicinarsi al figlio per correggerlo, come un "fratello" prima ancora che padre o madre. Allora potrà amare il figlio prendendo su di sé il suo errore e il suo peccato, ammonendolo con severità e dolcezza, per consegnarlo alla misericordia rigeneratrice di Dio.

Diciamocelo francamente, le nostre correzioni hanno quasi sempre lo scopo più meno segreto di ottenere giustizia... Per questo, capovolgendo l'ordine dato da Gesù, ci precipitiamo innanzi tutto dall'assemblea per fare campagna elettorale in nostro favore, screditando il fratello a suon di pettegolezzi, esattamente come si fa in politica. Poi si va dai sacerdoti e dai catechisti, per perorare la propria causa, magari incartando le parole con un falso e untuoso zelo per il bene del fratello...

Per smascherare le reali intenzioni dei cuori il Signore afferma subito quale sia l'unico scopo della correzione: "guadagnare un fratello". E sta parlando di Lui, che per guadagnare ciascuno di noi ha offerto se stesso. Per questo sta parlando anche di ciascuno di noi suoi fratelli, che camminiamo in una comunità che segue le sue orme. Potrà correggere solo chi ha a cuore la vita eterna del fratello, e per questo farà di tutto per "guadagnarlo", per strapparlo al demonio. 

Ma tu, hai a cuore il destino del fratello? E ancor prima, quello che ti è accanto, è davvero tuo fratello, uno per il quale Cristo ha versato il suo sangue? E', in Lui, carne della tua carne, al punto che se si è perduto a causa di un peccato - un tradimento del coniuge, un rancore incancrenito - senti che hai perduto una parte di te? O forse lo stai giudicando, e lo hai già perduto nel tuo cuore? Se è così, allora le parole di Gesù sono innanzi tutto una chiamata a conversione per te, perché ti umili profondamente, chiedi perdono a Dio, ti confessi e fai penitenza, per "guadagnare" il fratello nel tuo cuore. Così forse ti renderai conto che, prima di andare a correggerlo, dovrai incamminarti per inginocchiarti dinanzi a lui e chiedergli perdono. Sino a che l'altro non è tuo fratello non potrai correggere nessuno... 

Per questo abbiamo bisogno di camminare seriamente in una piccola comunità nella quale impariamo a conoscerci, a perdonarci, a vedere l'opera di Dio negli altri. Solo se iniziati alla fede potremo imparare la libertà nella quale parlare al fratello, senza aspettarsi di essere capiti, ascoltati. Solo in una comunità strappata all'anonimato il fratello sarà parte di me, e ci si potrà correggere con amore, perché l'altro è Cristo! Una comunità dove gli altri non siano solo dei semplici conoscenti che incontriamo a messa, di cui magari non conosciamo neppure il nome... Certo, sono fratelli in virtù del sacramento, ma concretamente, con te, che relazione hanno? Che ne sai di loro? Non puoi avere a cuore la loro salvezza se non conosci la loro storia, le angosce e le gioie. Novantanove volte su cento saprai solo giudicarli e sparlare di loro, per la pelliccia nuova, perché si mettono sempre in mostra, perché dal macellaio li hai sentiti dire baggianate.  

Infatti, nascosti nella massa della parrocchia, per tutti noi è più facile restarcene tranquilli a farsi gli affari propri, perché la vita degli altri non ci interpella. Ma dove la comunione si fa realtà viva, l'amore di Cristo spinge prepotentemente a cercare il "fratello" perduto per "guadagnarlo" alla salvezza: "pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero... Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. Tutto io faccio per il vangelo, per diventare partecipe con loro" (1 Cor 9,19ss).
  
Tutto quello che il Signore ci insegna oggi è, dunque, per il Vangelo! Perché esso sia annunciato, prima alle pecore perdute della casa di Israele, ovvero ai "fratelli" che "hanno peccato", e poi a ogni uomo. Per questo ogni passo che Gesù indica alla Chiesa per "guadagnare il fratello" è l'attualizzazione nella storia e l'annuncio salvifico di quello che ha fatto Lui nella sua Passione: fattosi peccato, è stato accusato nell'assemblea e alla fine è stato gettato fuori, a morire crocifisso, "come un pagano e un pubblicano". Allo stesso modo vivono i cristiani la relazione con i "fratelli" che peccano: consegnano se stessi, li amano sino alla fine, non giudicano, ma fremono di compassione e misericordia, perché, "dopo aver visto i loro occhi, non se ne tornino via senza il loro perdono" (San Francesco).

Ogni fratello di Gesù vive la sua stessa vita. Sa che "se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà". Per questo va a cercare il "fratello" e lo "ammonisce", solo a solo; lo corregge smascherando il suo peccato, per illuminare profeticamente la sua situazione e annunciargli la vittoria di Cristo e il suo amore, e così indurlo ad "accordarsi" con lui per domandare, insieme, il perdono al Padre. 

Così la Chiesa ha, da sempre, annunciato il Kerygma, la Buona Notizia di Cristo Risorto: Pietro e Paolo, con coraggio e per amore, denunciavano il peccato degli ascoltatori per indurli a convertirsi. Così, all'ascoltare le parole della predicazione, si sentivano trafiggere il cuore e chiedevano cosa fare; allora gli apostoli potevano indicare loro il cammino della penitenza che conduce al battesimo.

Ogni correzione è, dunque, un annuncio del Vangelo. Per questo Gesù dice "se non ti ascolterà": la fede nell'amore e nel perdono viene donata, infatti, attraverso la stoltezza della predicazione. E perché il "fratello" possa ascoltare ed essere "guadagnato" si fa di tutto: si coinvolgono i fratelli più vicini e con cui egli è più in confidenza, i pastori e i catechisti, che sono i "testimoni" dell'opera di Dio in lui e della sua misericordia.

Se il suo cuore è tanto duro da non ascoltare neanche loro allora si coinvolge l' "assemblea", perché l'amore di tutti sciolga le sue resistenze. Tutto per annunciare al fratello che Cristo, vivo nella comunità, vuole "guadagnarlo" alla felicità, alla libertà, alla vita di figlio di Dio. Tutto per testimoniargli l'amore infinito che i fratelli hanno per lui, che fremono di compassione nel vederlo schiavo della menzogna. Per dirgli che non possono perdere una parte così bella e unica di se stessi... 

A volte però è necessaria la massima severità, che è il segno della più grande misericordia. Se il "fratello" non ascolta neanche l'annuncio della sua comunità, e non accetta l'amore dei suoi fratelli e dei suoi pastori, allora non c'è altro cammino che quello del figlio prodigo, anche se fa spezzare il cuore. La Chiesa sa che Dio ha creato l'uomo libero, a differenza del mondo che si illude di offrire la libertà a buon mercato e slegata dalla responsabilità, perché tanto è stabilita per legge. La Chiesa tiene conto della libertà, perché proprio essa è la volontà di Dio rivelata quando ha creato l'uomo libero; sì, l'uomo è libero anche di uccidere suo Figlio, anche di ostinarsi sino alla fine nel peccato che non sarà perdonato in eterno, la disperazione che bestemmia lo Spirito Santo.

Proprio per amore della libertà, di fronte al rifiuto, non c'è altra soluzione che lasciare che il "fratello" la usi sino in fondo, sino alle sue più dolorose conseguenze. Il peccato rompe la comunione, e, non accogliendo il perdono e perseverando in esso, si torna a vivere come prima dell'incontro con Cristo, come prima del Battesimo: come "un pubblicano e un pagano". Far finta di niente, in una falsa misericordia che scioglie la verità, sarebbe rendere vana la Croce di Cristo; sarebbe anche fare torto alla dignità del "fratello", obbligandolo a vivere come lui non vuole, impegnandolo in riti e sacramenti che, violentando la sua libertà, non possono realizzare quello che ormai non significano. Alleandosi con il peccato che rompe la comunione egli se ne è chiamato fuori; ogni segno che esprima la comunione sarebbe solo un'ipocrisia che allungherebbe senza speranza l'agonia della sua anima. La verità, invece, e solo la verità delle conseguenze amare del peccato e dell'amore infinito di Dio può percuotere, alla lunga, il cuore più indurito.

Ma la Chiesa sa anche che considerare un "fratello" come un pagano non significa accertare la morte eterna della sua anima. Essa prende atto della sua libertà, la rispetta sino in fondo, a costo di morire di dolore per lui. La Chiesa ha la certezza che chi è stato raggiunto dall'amore di Cristo ed è divenuto partecipe della comunione della Chiesa non potrà mai perdere questa sua nuova identità, anche scappando per dilapidare l'eredità. Sarà sempre figlio del Padre e fratello di Cristo; anche se "perduta", farà comunque parte delle cento che compongono il gregge. Il carattere impresso dal battesimo è indelebile, anche se non è un salvacondotto per il Paradiso. 

Amare allora, come Cristo, in Cristo. Amare come l'uomo nuovo del discorso della montagna, che fa il bene anche ai i pagani e i pubblicani; che offre la sua vita, che prega e offre i suoi dolori, le angosce, le malattie, tutto per "guadagnare il fratello" che in quel momento non si vuole far "guadagnare". "Considerarlo come un pagano e un pubblicano" è soprattutto amarlo come uno dei fratelli più "piccoli", che hanno "i loro angeli", ovvero noi e i fratelli della comunità, che "guardano sempre il volto del Padre", implorando e intercedendo uniti a Cristo la sua salvezza.

Così anche noi siamo chiamati a non disperare mai, anche quando gli eventi e le persone ci inducono alla severità della verità. Essa è sempre sinonimo dell'amore e della libertà che Dio ha dato a ciascuno, e ne abbiamo esperienza... Così sapremo educare i nostri figli, ammonire il coniuge e i fratelli che peccano, nella speranza invincibile che la nostalgia di casa e la memoria struggente della comunione con il Padre e i fratelli, li faccia rientrare in se stessi per tornare, in un cammino di penitenza sincera, all'amore e all'unità.  






αποφθεγμα Apoftegma



Ritorno del figlio prodigo


E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore 
ed ami me suo servo e tuo, 
se ti comporterai in questa maniera, e cioè: 
che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, 
che, dopo aver visto i tuoi occhi, 
non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede;
e se non chiedesse perdono, 
chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. 
E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, 
amalo più di me per questo: 
che tu possa attrarlo al Signore
ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.

San Francesco, Lettera a un ministro

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