L'ANNUNCIO |
Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati.
Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare».
Ma Gesù rispose: «Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare».
Gli risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!».
Ed egli disse: «Portatemeli qua».
E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla.
Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati.
Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.
(Dal Vangelo secondo Matteo 14, 13-21)
La notizia della morte di Giovanni era giunta
a Gesù come una profezia per la sua vita. Lo aspettava un viaggio difficile, il
passaggio dalla morte alla vita. E Lui, docilmente, accetta la volontà del
Padre con un segno: “parte su una barca e si ritira in disparte in un luogo
deserto”, indicando così come avrebbe compiuto la sua missione a Gerusalemme,
dove lo avrebbero messo “in disparte” sulla Croce e sarebbe sceso nel “deserto”
del sepolcro.
La “morte di Giovanni”, come quella di ogni
martire, è seme di nuovi cristiani. E’ la testimonianza che sigilla con
l’autenticità l’annuncio de Vangelo. Così, intrecciate tra loro, le vite di
Gesù e Giovanni, del Capo e della sua Chiesa, divengono un annuncio, un kerygma
che risuona ovunque.
E infatti, "le folle" hanno
"saputo" dove era andato Gesù con la "barca” (la Chiesa), e lo
hanno "seguito" camminando "a piedi" dalle loro
"città". E’ l’immagine del catecumenato della Chiesa antica. Dai
segni compiuti nei cristiani, i pagani intuivano che Gesù Cristo era veramente
risorto; “sapevano” cioè che era passato all’altra riva, ed erano attirati da
quella vita nuova e piena che vedevano realizzata nelle persone convertite che
conoscevano.
Per questo lo “seguivano”, ovvero si facevano
suoi discepoli sul cammino dell’iniziazione cristiana; diventare cristiani era
una chiamata simile a quella fatta ad Abramo: dovevano “uscire” dalle loro
“città” terrene, sentine di vizi, culti idolatrici, passioni e libidine per
seguire Gesù “nel deserto”.
Solo in esso, come Israele, potevano scoprire
che cosa vi era nel loro cuore, se l’ascolto della predicazione si stesse
traducendo in obbedienza. Solo nella verità, infatti, è possibile la
conversione autentica che conduce alla fede adulta dell’uomo nuovo che vive
solo delle Parole che escono dalla bocca di Dio.
Il Vangelo di questa domenica punta a farci
fare questo passaggio fondamentale, così come lo vivevano i catecumeni.
Per questo era importante camminare “a piedi”,
come avrebbero poi fatto i pellegrini del medioevo. E’ il segno dell’umiltà, il
contatto con la terra dalla quale tutti siamo tratti, la polvere alla quale
siamo destinati a tornare senza lo Spirito Santo.
Il catecumenato, infatti, era come un esodo:
dopo quella degli idoli, dei beni e del denaro, dovevano passare indenni con
Cristo anche attraverso la tentazione del “pane”: non si diventava cristiani se
non si era “passati” attraverso il deserto dove non c’è né pane né acqua.
Come ancora oggi, è chiaro, non è cristiano
chi cerca ancora le proprie sicurezze negli affetti, nel lavoro, nel prestigio,
nella salute, nel denaro, nella politica, nella cultura, nel branco. E'
cristiano solo chi costruisce su questa Roccia, e ha sperimentato che, mentre
tutto crolla, solo la Parola di Dio rimane in eterno.
Non lo saremo se continuiamo a chiedere alla
pietre che diventino pane. Per caso non siamo nella Chiesa con questa
attitudine? Non cerchiamo in essa le identiche sicurezze che il mondo non ci ha
saputo dare?
Stiamo seguendo Gesù perché ne abbiamo
ascoltato l'annuncio risuonato nelle nostre parrocchie; eravamo piccoli, o più
grandicelli, al catechismo o invitati da qualche amico a fare esperienza di un
movimento, di un cammino di fede... O ci hanno condotti per mano mamma e papà,
nonostante le nostre resistenze...
Sia come sia, c'era qualcosa di speciale in
quello che abbiamo ascoltato. Il Vangelo, le Beatitudini, la speranza, l'amore
dal quale nessuno ci avrebbe mai separato, il perdono. l'essere amati così come
siamo, i fratelli, l'eucarestia e la gioia della comunione, beh tutto questo e
molto altro ci ha sedotto...
E abbiamo cominciato a camminare, inciampando,
cadendo, fermandoci, zoppicando, ma abbiamo camminato; abbiamo visto segni
nella nostra vita e in quella degli altri. I Papi ad esempio, quanto ci hanno
aiutato, le giornate mondiali della gioventù: quanti di noi, durante quei
pellegrinaggi, si sono innamorati di quella che oggi è la propria moglie...
E siamo giunti ad oggi, come vi giungevano
i catecumeni, a questo tempo dove la "fame" scava un buco nello
stomaco, e ci rendiamo conto di non avere ancora l'esperienza che Gesù è
l'unico capace di saziarci. "Sul far della sera", quando giunge l'ora
di "mangiare", si desta, infatti, l’uomo vecchio ancora vivo in noi.
Nell'"ora tarda" che corrispondeva a quella del pasto principale,
l'uomo della carne ci vorrebbe allontanare da Gesù, convincendoci
che solo nei "villaggi" del mondo ci si possa sfamare.
Il demonio spesso ci gioca proprio così:
attira l’attenzione sul "luogo deserto" nel quale Gesù si è ritirato,
insinuandoci che laddove Egli ci porta non vi è possibilità di vita, gioia e
pace. Come accadde al Popolo di Israele nel deserto, crediamo alle sue menzogne
che promettono pane e libertà.
Ciò accade, ad esempio, quando scopriamo che
il nostro matrimonio è in realtà un vero e proprio "eremo", secondo
l'originale greco, dove la “fame” di affetto e pienezza si fa sentire. Quando
il rapporto si rivela difficile se non impossibile, e sperimentiamo che di esso
non possiamo nutrirci.
E’ vero che ci siamo sposati per fare la
volontà di Dio, e così ci siamo aperti alla vita, ci siamo fidanzati, studiamo
e lavoriamo. Ma arriva "la sera", il momento in cui la carne
esige il contraccambio per aver obbedito e seguito, e niente, ci accorgiamo che
quello che abbiamo creduto essere comunione e felicità si rivela un luogo
inospitale e senza cibo. Il coniuge si chiude in se stesso proprio quando ne
avremmo più bisogno, i figli ci sfuggono spezzando i sogni e le speranze
riposte su di loro, il fidanzato si rivela un egoista, gli amici ci volgono le
spalle infilati nei propri problemi.
Ma non ci siamo sposati per restare soli, non
ci fidanziamo nel desiderio di rinchiuderci in un eremo. Non fa per noi, no?
Che fare allora? Non resta che scappare
dall'eremo che è la volontà di Dio, e "andare nei villaggi a
comprare da mangiare". Ma occorrono soldi, sforzi, compromessi. Occorre
tornare al mondo e abbandonarsi ai suoi costumi e ai suoi valori, perché nei villaggi
nessuno ti regala nulla.
Quanti di noi, pur avendo seguito il Signore,
anche nel presbiterato e nella vita religiosa, al sopraggiungere della sera di
delusioni e frustrazioni, si è lasciato sedurre dal demonio ed è tornato sui
propri passi, sino all'Egitto dal quale l'amore di Dio lo aveva liberato? E che
sofferenze…
Ma, nell'eremo dove ha attirato la
nostra vita, il Signore ci annuncia questa domenica che "non occorre"
che alcuno sia "congedato" per andare a cercare pane e salvezza!
Lo dice innanzi tutto ai suoi discepoli, alla
Chiesa troppo spesso tentata di seguire la carne e il pensiero del mondo per
divenire una ONG attenta alla pancia e dimentica dell'anima.
"La folla" è affamata non solo perché ha lo stomaco vuoto; anzi, la fame è il segno di un vuoto ben più profondo. Il cuore delle persone che conosciamo è sprovvisto di amore, non ha la vita di Cristo; come la Samaritana va ogni giorno al pozzo a prendere un'acqua che non disseta. E se uno è vuoto, per non impazzire e morire, cercherà di riempirsi in ogni modo: il sesso? Certo, con il sesso, e con la droga, con i viaggi, con il denaro... Tutto per riempire il vuoto che la "sera" evidenzia.
Per questo Gesù “ordina alla folla” una cosa
politicamente scorrettissima: “di sedersi sull’erba”. Ma come, niente marce
della pace? Niente impegno nel sociale, niente lotta contro le ingiustizie?
“Seduti”, proprio i cristiani? Sì, perché essi camminano sedendosi ai
piedi Gesù, come Maria… I cristiani sono discepoli di Colui
che "perdendo la vita l'ha ritrovata". Non seguono un leader
religioso che promette "pane", come fanno tutte le sette.
I cristiani sono chiamati a vivere, già qui sulla terra, un anticipo della vita celeste. Per questo i catecumeni "lasciano tutto", "odiano il padre, la madre, i figli, i fratelli, perfino la propria vita", "prendono ogni giorno la propria croce e seguono Gesù". Lasciano nelle acque del battesimo le sicurezze terrene perché hanno sperimentato che al sopraggiungere della "sera" esse si rivelano effimere e incapaci di assicurare un briciolo di felicità.
E così fondano la propria esistenza sull'unica sicurezza che non inganna, che, come una roccia, resiste a ogni notte, tempesta e terremoto. La sicurezza del suo amore che sazia sino a far "avanzare" vita e amore. E come si saziano? Lo scrivono gli Atti degli Apostoli: come la prima comunità cristiana, essendo "assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (cfr. Atti 2,42ss).
Come accadde ai cristiani delle origini, anche in quelli di ogni altra generazione "un senso di timore è in tutti e prodigi e segni avvengono per opera degli apostoli": non mi dire che nella tua comunità Dio non opera "prodigi" attraverso i pastori e i catechisti. Non mi dire che non ha sperimentato ancora che Cristo è risorto... Se fosse così, se la preoccupazione di pastori, catechisti e fedeli fosse riempire la pancia, trovare lavoro, sistemare la vita, lottare per il pane, allora si spiegherebbero tante cose; ad esempio perché i giovani scappano dalle parrocchie, o perché "la folla" ha voltato le spalle alla Chiesa e si è tuffata nella mentalità del mondo.
Invece il Signore ci annuncia oggi una pienezza di vita che non abbiamo mai immaginato. Ci promette di saziare il nostro cuore e così farci segno della vita eterna in questa generazione. Chi ha sovrabbondanza di vita ama, senza misura; si dona, può ascoltare la chiamata ad essere presbitero, suora, o a formare una famiglia santa, stretta nel vincolo indissolubile del matrimonio, e dare la vita, senza difendere nulla.
Non è un ideale irraggiungibile vivere la comunione donata alla prima comunità; anche noi siamo chiamati a vivere così: "Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore".
Le comunità cristiane vivono dell’Eucarestia,
che non è impegno ma dono; per questo camminano riposando sui prati d’erba
fresca, il pascolo preparato dal loro Buon Pastore. Era Pasqua infatti quel
giorno di amore e moltiplicazione; era di primavera, l’unico tempo in cui la
terra di Galilea si ammanta di prati…
Gesù ci aspetta, dunque, nel matrimonio, nel
lavoro, nel deserto dove viviamo, per farci sperimentare quello che Lui ha
vissuto nel Mistero Pasquale. Il Padre non lo ha lasciato nella “fame” di vita,
lo ha risuscitato “saziandolo” di Vita eterna, così abbondante da “avanzare” ed
essere “raccolta” nei “dodici canestri”, nella Chiesa.
“Dodici”, come le tribù di Israele, come gli
apostoli e le comunità da loro fondate. In esse c’è la vita di Cristo risorto,
il nutrimento che sazia la fame del mondo! Frutto di tanta abbondanza è
anche la nostra comunità, il “canestro” intessuto con le nostre povere e deboli
vite, ma colmato della vita che non muore.
Quella sera, attraverso il segno della moltiplicazione e dei "dodici canestri pieni dei pezzi avanzati", il Signore ha profetizzato l'avvento della Chiesa nel mondo: "La città", infatti, "è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele... Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello", e in essi i nostri nomi!
Siamo dunque chiamati ad essere sfamati e colmati della sovrabbondanza di vita, luce e bellezza della Chiesa, la "sposa dell'Agnello". "Il suo splendore", infatti, "è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino".
Non a caso Gesù ha compiuto il miracolo in un
luogo deserto, lontano da Gerusalemme e dal tempio: la Chiesa, infatti , è la
nuova "città santa", la "nuova Gerusalemme" che "Essa,
infatti, "scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di
Dio", cioè della pienezza, della dignità, della bellezza, della vita
celeste. In essa non c'è "alcun tempio, perché il Signore Dio,
l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio. La città non ha
bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio
la illumina e la sua lampada è l'Agnello. Le nazioni cammineranno alla
sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte
non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più
notte. E porteranno a lei la gloria e l'onore delle
nazioni".
Capite? Uniti a Cristo, nelle viscere della
Chiesa, per noi "non vi sarà più maledizione"; cominceremo a “vedere la sua faccia" perché "porteremo
il suo nome sulla fronte. Non vi
sarà più notte e non avremo più bisogno di luce di lampada, né di
luce di sole, perché" nella nuova Gerusalemme "il Signore Dio ci illuminerà e
regneremo nei secoli dei secoli" (cfr. Ap 21-22).
Sì, nella Chiesa non esiste la notte perché
essa annuncia al mondo il giorno senza tramonto nel quale vivono i suoi figli.
Essi entrano nella storia alla luce dell'Agnello, e così sfamano le Nazioni;
anche se dentro "un vaso di creta", hanno in loro la vita di Cristo,
per questo i loro cuori sono sempre aperti per accogliere i peccatori.
E’ proprio la nostra debolezza che Gesù cerca
per moltiplicare la vita e offrirla al mondo! Allora, “che cosa abbiamo”,
oggi, per sfamarci e “dare da mangiare” a chi è accanto a noi? "Qui non
abbiamo altro che cinque pani e due pesci!": ci siamo noi Signore,
con i nostri peccati; ma abbiamo anche la tua Parola, i "cinque"
rotoli della Torah; e poi ci sei Tu che ci parli; sei "qui" con noi,
pescato vivo nel mare della morte come un "pesce"; sei accanto a noi
e per noi nelle tue "due" nature, vero uomo e vero Dio, per fare
di ciascuno un figlio libero di vivere secondo la nuova natura divina che sei
venuto a donarci.
Sì, Signore, non abbiamo altra sicurezza che
Te, pesce come noi, sceso nel mare della morte come noi, ma risuscitato per
trarci dai fondali bui della menzogna satanica e appoggiare la nostra vita nel
tuo amore.
Per questo Gesù ci dice di "dare noi
stessi da mangiare": noi stessi, che significa anche e
soprattutto dare la nostra vita, consegnare ciascuno se
stesso a chi ha fame. E perché questo si compia "non
occorre" altro che "portare" a Lui quello che siamo, che in
fondo significa convertirci; per giungere ad amare occorre
sperimentare di essere amati, per colmare di Cristo la vita degli altri, è
necessario prima essere saziati di Lui. Per questo, convertirci significa
consegnare, attraverso le viscere di misericordia della Chiesa, i nostri peccati
a Cristo e sperimentarne il perdono e la trasformazione di ciò che siamo in un
prodigio donato al mondo.
Quei “cinque pani e due pesci”, infatti, sono
l'immagine di ogni catecumeno che scendeva nelle acque del battesimo e vi
risaliva rivestito di Cristo, ed era come "moltiplicato" nella nuova
vita cristiana.
Come accade in ogni sacramento che rinnova il
Mistero Pasquale di Cristo: nell’Ordine la fragilità e la piccolezza di un uomo
sono trasformate in zelo e parresia che lo fanno suo ministro; nel matrimonio i
limiti e le incompatibilità di un ragazzo e una ragazza sono sbriciolate per
fare dei due una carne sola; nell’Olio degli infermi l’estrema debolezza di un
malato diviene un’offerta coraggiosa di sé per la salvezza di tanti.
Sì, proprio ciò che il deserto ci ha
illuminato, quello che siamo oggi è importante. Non si dice dei pani e dei pesci
se fossero buoni o cattivi, belli o brutti, grandi o piccoli. Erano,
semplicemente, pane e pesce. Erano Marco, Caterina, Mario, Francesca. Erano tu
ed io. E sono diventati il cibo che ha sfamato una moltitudine.
La nostra vita, infatti, è chiamata ad
essere cibo per gli affamati. E non hanno fame tua moglie, tuo
figlio, tua suocera? Hanno la stessa tua fame… Per questo, frutto
della “compassione” del Signore, nella Chiesa rinasciamo come pani
di compassione.
Dalla memoria delle tante
"guarigioni" che il Signore ha compiuto nella nostra vita scaturisce
lo zelo per sfamare la "folla" di poveri che ci è accanto. La vita
che riceviamo nella Chiesa è così abbondante che ci "avanzerà. Non
cercheremo più nell'altro l'alimento con cui saziarci; al contrario, divenuti
apostoli di Cristo, come le "dodici ceste", ci lasceremo
"portare via" tempo e idee, criteri e progetti, le sicurezze ormai
gettate all’anatema.
Così in ogni relazione ed evento della vita,
quando calerà la "sera" della Croce, sapremo che è giunto il momento
di abbandonarsi alla "benedizione" di Gesù, che trasforma in
"bene" ogni male; Lui saprà "alzare con gli occhi" anche la
nostra carne "verso il Cielo", e le sue mani crocifisse ci
"spezzeranno" come pane consegnato a ogni uomo.
APPROFONDIMENTI
Benedetto XVI. La moltiplicazione dei pani
Giovanni Paolo II. Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così numerosa?
S. Congregazione per la Dottrina della Fede, LIBERTATIS NUNTIUS. Istruzione su alcuni aspetti della "Teologia della Liberazione"
S. Agostino. Il nutrimento del corpo e dell'anima
Baldovino di Ford. Presi quei sette pani rese grazie li spezzò
San Beda il Venerabile. Sento compassione di questa folla
Paolo VI. La compassione di Gesù si manifesta nella Chiesa che annuncia il Vangelo
Giovanni Paolo II. Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così numerosa?
La compassione del Messia in un midrash ebraico
Sr. Maria Gloria Riva. L'incontro di Elia con la vedova di Zarepta
Raniero Cantalamessa. Venite in disparte e riposatevi un pò
Silvano del Monte Athos. Da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero
αποφθεγμα Apoftegma
per vivere soli, in disparte, e là vivere nella virtù: Elia, Eliseo…, Giacobbe…
Il deserto e l’abbandono dei tumulti della vita procurano all’uomo l’amicizia di Dio;
quando Abramo è uscito dal paese dei Caldei è stato chiamato “amico di Dio”.
Anche il grande Mosè, dopo essere partito dall’Egitto…
ha parlato con Dio faccia a faccia,
è stato salvato dalla mano di nemici ed ha attraversato il deserto.
Tutti questi rappresentano l’uscita dalle tenebre verso l’ammirabile luce,
e la salita verso la città celeste,
prefigurazione della vera felicità e della festa eterna.
Quanto a noi, abbiamo ormai la realtà che ombre e simboli annunciavano,
cioè l’immagine del Padre, nostro Signor Gesù Cristo.
Se sempre lo riceviamo in cibo e segniamo la porta dell'anima col suo sangue,
saremo liberati dai pesi del Faraone e dei suoi sorveglianti…
Ora abbiamo trovato la strada dalla terra al cielo…
Un tempo, con la mediazione di Mosè,
il Signore precedeva i figli d’Israele in una colonna di fuoco e di nebbia;
ora, ci chiama lui stesso con le parole:
“Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me; come dice la Scrittura:
fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”.
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