Giovedì della XXXI settimana del Tempo Ordinario




SINTESI

L'invidia corrode nella «mormorazione» i cuori superbi. Come i «farisei e gli scribi» mastichiamo amaro nel vedere qualcuno che riteniamo peggiore di noi gustare gioioso l’amore di Dio, che si «protende ad accogliere» «tutti» i peccatori gratuitamente. Con noi, invece, i conti si fanno diversamente; anche il perdono ha un prezzo, almeno la promessa di cambiare, per contraccambiare. Il «pareggio di bilancio» noi l’abbiamo approvato senza che ce lo imponesse l’Unione Europea... Ma Dio no, Lui ha sempre i conti in rosso. «Lascia» i guadagni sicuri di «novantanove pecore» e si lancia alla ricerca di una, una sola pecora che s'è smarrita. Probabilmente la peggiore, la più egoista, una di quelle che è meglio perderle che trovarle. E giosce per lei, più che per le altre. È il folle cuore di Dio che non può rallegrarsi sino a che l’ultimo dei peccatori non sia stato «ritrovato» e «accolto». Nessuno di noi farebbe lo stesso. A scuola, nei posti di lavoro, tra gli amici, accade l’esatto contrario. Le teste calde sono espulse ancor prima di perdersi. Quando emerge quel difetto di tuo padre, o quel peccato di tua moglie, o quell'atteggiamento di tuo figlio, niente, è più forte di te, l'altro non lo possiamo "ricevere", ci è impossibile "mangiare con lui". Li disprezziamo, non abbiamo pazienza, figurati se riusciamo ad infilarci nella melma di letame nella quale il prossimo è caduto per prenderlo sulle nostre spalle. Non possiamo perché dimentichiamo che proprio i nostri peccati e le loro conseguenze ci hanno resi «unici» agli occhi di Dio... Il demonio riesce a rubarci la memoria dell'amore di Dio per noi, strappandoci la gratitudine per la sua misericordia. Ma senza misericordia no party... Senza l'esperienza di essere stati cercati dal Signore e presi sulle sue spalle perché incapaci di tutto, e accolti nelle viscere rigeneratrici della Chiesa, saremo esigenti e moralisti; disprezzeremo gli altri perché schiavi del disprezzo di noi stessi. Senza "gioia" perché obbligati a lavorare con sudore senza conoscere il riposo della misericordia. Ma coraggio, ancora una volta proprio le ferite che ci ha inferto il demonio agli occhi di Dio sono il segno che ci assomiglia a suo Figlio! Credilo, anche se è assurdo per un cuore abituato all'esigenza. Credilo che Gesù si è lasciato ferire e sfigurare, sino a diventare un rifiuto degli uomini, per assomigliare a te. Noi non avremmo potuto far nulla per tornare ad essere immagine e somiglianza di Dio. Per questo, Dio si è infilato nella sporcizia che ci ha sfigurato per prenderci e tirarci fuori, lavarci nel suo sangue e farci assomigliare a Lui. Credilo, Lui è l'unico Pastore che ama tanto una pecora perduta come te e me da diventare come lei per farla diventare come Lui! Nella pecora smarrita della parabola, infatti, è adombrato Lui, l’Agnello di Dio, l’unico «perduto» nella morte per riscattare le altre novantanove che si credevano «giuste», mentre invece vagavano «sperdute» nel «deserto». Nel sepolcro il Padre ha «ritrovato» suo Figlio, lo ha risuscitato «prendendolo sulle sue spalle» e lo ha riportato «a casa»; qui, nella gioia straripante e coinvolgente della Pasqua, è apparso agli «amici» che lo avevano tradito con il perdono di ogni peccato nella carne, e li ha inviati ad annunciare ai «vicini» lo stesso perdono e la «conversione», la gioia di lasciarsi amare. Così la Chiesa è chiamata ogni giorno a «cercare» la «dramma perduta», il fratello più debole e difficile, che la carne vorrebbe dimenticare. Con la «lucerna» della fede accesa nelle tenebre della menzogna, possiamo «cercarlo con cura» e pazienza, senza temere di scendere dove lui è caduto, e sporcarci della stessa terra impura, per «spazzare» via la polvere e l’immondizia che il tempo perduto nei peccati ha lasciato in lui, perché Cristo possa far risplendere il suo volto. 




L'ANNUNCIO
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». Allora egli disse loro questa parabola: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
 (Dal Vangelo secondo Luca 15,1-10)



L'invidia corrode i cuori. Non potevano accettare che «tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinassero a Gesù per ascoltarlo». Loro quella gente la scansavano, erano perduti...  E invece si avvicinavano a Lui, come le api al miele. Avevano compreso che quella era la fonte viva e gratuita dell'acqua che non avevano mai bevuto. Mentre ci capita spesso di ritrovarci in un angolo, come un pugile stonato, e non riusciamo a tirarci su. Contempliamo una palese ingiustizia e precipitiamo un un abisso di tristezza. Qualcuno molto peggio di noi, qualcuno che ne ha fatte di cotte e di crude è lì a gustarsi l'amore di Dio, perdonato, salvato, risuscitato. E noi invece, siamo incapaci di accettare l'amore di Dio che si «protende ad accogliere» «tutti» i peccatori gratuitamente. Appare in questo Vangelo la gioia incontenibile di Dio per aver salvato una pecora perduta. Tutto contento è Dio se può perdonare un uomo! Diciamolo senza ipocrisia: è proprio il nostro esatto contrario.

Certo ci prodighiamo anche noi per aiutare, salvare, come bravi volontari al servizio degli altri. Ma vi è sempre un prezzo, una promessa strappata al beneficiario dei nostri sforzi, almeno di non essere più come prima, almeno di cambiare, in fondo per contraccambiareLa gratuità ci spaventa. Il nostro cuore, confessiamolo, è una banca con bilanci dalle regole ferree. Ma Dio no. Dio ha sempre i conti in rosso, lascia il successo, la fama, i guadagni sicuri di 99 pecore ben custodite e si lancia alla ricerca di una, una sola pecora che s'è smarrita. Probabilmente la peggiore, la più egoista, persa in se stessa, una di quelle che è meglio perderla che trovarla. E giosce per lei. Non per le altre.
Ma per noi è assurdo e ingiusto, non lo possiamo sopportare. Quante volte i genitori si avvitano cercando verso i figli una giustizia distributiva di attenzioni e cure impossibili, con il risultato, ovvio, di scontentare tutti. Come un professore, o un prete, quando dimenticano il modo unico e irripetibile, perfettamente su misura, con il quale Dio ha amato ciascuno.

Proprio i peccati, infatti, e le loro conseguenze ci hanno resi «unici» agli occhi di Dio, come il suo Figlio, l’unico che doveva morire per tutti, perché «tutti hanno peccato». Nella pecora smarrita della parabola, infatti, è adombrato Lui, l’Agnello di Dio, l’unico «perduto» nella morte per riscattare le altre novantanove che si credevano «giuste», mentre invece vagavano «sperdute» nel «deserto». Nel sepolcro il Padre ha «ritrovato» suo Figlio, lo ha risuscitato «prendendolo sulle sue spalle» e lo ha riportato «a casa»; qui, nella gioia straripante e coinvolgente della Pasqua, è apparso agli «amici» che lo avevano tradito con il perdono di ogni peccato nella carne, e li ha inviati ad annunciare ai «vicini» lo stesso perdono e la «conversione», la gioia di lasciarsi amare. Così la Chiesa è chiamata ogni giorno a «cercare» la «dramma perduta», il fratello più debole e difficile, che la carne vorrebbe dimenticare. Con la «lucerna» della fede accesa nelle tenebre della menzogna, possiamo «cercarlo con cura» e pazienza, senza temere di scendere dove lui è caduto, e sporcarci della stessa terra impura, per «spazzare» via la polvere e l’immondizia che il tempo perduto nei peccati ha lasciato in lui, perché Cristo possa far risplendere il suo volto. .

Questo è il folle cuore di Dio: attraverso la Chiesa, ci ha amato senza condizioni, pecore perdute dentro le nostre stesse invidie, forse scappate dal gregge perché non comprese, tradite, ingannate. E sporche, ferite, perdute. Arriva oggi il nostro Pastore, che ci conosce e non può star tranquillo sino a che non ci ritrova e ci carica sulle sue spalle. Questo è il cielo, una curva esultante ad ogni gol del Signore, uno di noi strappato alla solitudine dell'inganno del nemico. Anche se alla fine sembra che il Signore perda 99 a 1 fuori casa. In questa sua sconfitta è la nostra vittoria. Siamo suoi. La gioia, la vera gioia, è questo amore. La gioia del Cielo, la gioia di Cristo. Non ve ne sono altre. La gioia piena di restare uniti a Lui e, nascosti nel suo cuore, vivere tutto con Lui, per Lui, in Lui. Ritrovati, amati, trasformati. Solo questa gioia di Dio che ti avvolge mentre sei nelle tenebre più nere può cambiare il cuore. 

Questa gioia è il segreto dell'evangelizzazione. In essa si toccano il Cielo e la terra: la gioia è il compimento della volontà di Dio, la realizzazione di ciò che chiediamo nel Padre Nostro. Chi può restare indifferente alla sua esplosione contagiosa? Come può non restare coinvolto dalla tua gioia il collega, quando in ufficio, mentre stai vivendo la stessa sua precarietà, con il posto di lavoro appeso a un esile filo in attesa delle strategie aziendali? Sei stato salvato gratuitamente, e hai potuto offrirti un pochino per la salvezza degli altri. Hai appena "ritrovato" tuo figlio, ti sei caricato sulle spalle tuo marito, e per questo non puoi restartene chiuso, ma devi uscire, come predica Papa Francesco, e vai a "chiamare" ogni "vicino" e "amico" che incontri per farli partecipi della tua gioia! La missione è sempre madre di una missione più zelante. La gioia genera sempre altra gioia. 

In queste parabole Gesù illumina la vita interiore ed esteriore della Chiesa: inviata a "chiamare" annunciando il Vangelo è una seminatrice inesausta della gioia di cui vive. Se non c'è vuol dire che sta perdendo lo zelo, che ha dimenticato lo Sposo, vivacchiando tra regole e moralismi ai quali chiede certezze per non sprofondare nell'incredulità. Gli apostoli erano pieni di gioia anche nelle persecuzioni sofferte per il nome di Gesù. E tu, ed io, e i parroci, i vescovi, siamo seminatori di gioia? Tuo figlio, ti ha mai visto felice dell'amore di Dio, mentre sei crocifisso con Cristo nelle difficoltà? Altrimenti, hai voglia a rimproverarlo, ad annunciargli la verità. Non ti crederà, le tue parole suoneranno come quelle di un cembalo che tintinna. Fumo senza arrosto....

Perché i pagani, o quelli in crisi e adirati con Dio o presi nei lacci mondani, dovrebbero credere al nostro annuncio? Perché nei nostri occhi, nelle nostre parole, nei gesti semplici di ogni giorno traspare la gioia dell'apostolo che cerca, e trova, la pecora perduta. Che non "pettina le pecore" (Papa Francesco) già al sicuro, ma esce, esce, esce sempre a sporcarsi per riportare a casa quella perduta. Non c'è gioia più grande sulla terra che ritrovare la parte di noi che manca all'appello, il fratello allontanatosi dalla comunità.

 
Con Lui si vive ogni istante alla ricerca della dramma perduta, ogni nostro fratello dentro le sue debolezze, caduto nei propri peccati. Posare su ciascuno lo sguardo di Cristo, e cercare, sperare senza stancarsi, sperare che tutti siano ritrovati da Cristo. E' questo il cuore di Dio, e, nel suo, il cuore rinnovato d'ogni madre, padre, amico, fidanzato, prete o suora. Il cuore di Dio, unica fonte dell'unica gioia. Il suo sguardo su ciascuno di noi, perduti, non cattivi. La sua speranza laddove nessuno osa sperare, invincibile dinanzi ad ogni nostro smarrimento. Nei suoi occhi, nei suoi passi alla ricerca dei nostri incerti cammini, "la più profonda contraddizione insita nella nostra esistenza perde la sua importanza assoluta" (Althaus). La sua ostinata ricerca di ciò che è perduto, vite e persone, spezza la catena di giudizi e rancori, e apre la porta su di un orizzonte nuovo di relazioni. Compassione e misericordia, la vita nuova dei "ritrovati", di tutti noi cercati, portati, riaccolti. Noi, la gioia di Dio.


APPROFONDIMENTI




αποφθεγμα Apoftegma




La parabola della pecorella smarrita, che il pastore cerca nel deserto,
era per i Padri della Chiesa un’immagine del mistero di Cristo e della Chiesa.
L’umanità – noi tutti - è la pecora smarrita
che, nel deserto, non trova più la strada.
Il Figlio di Dio non tollera questo;
Egli non può abbandonare l’umanità in una simile miserevole condizione.
Balza in piedi, abbandona la gloria del cielo,
per ritrovare la pecorella e inseguirla, fin sulla croce.
La carica sulle sue spalle, porta la nostra umanità, porta noi stessi.
Egli è il buon pastore, che offre la sua vita per le pecore.

Benedetto XVI, Omelia per l'Inizio del Pontificato

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