Uomini di Dio. Il film e la documentazione












E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. 
Sì, anche per te voglio questo "grazie", e questo "ad-Dio" nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen! Inch’Allah

frère Christian de Chergé



IL FILM









OPPURE














APPROFONDIMENTI













Recensione

Cannes 2010, dove vinse il gran premio della Giuria al festival di Cannes (in pratica il secondo premio, ma meritava la Palma d’oro), sorprese la commozione e la stima conquistata in una critica che non ama certo i film “religiosi”. Ma ancor più clamoroso è stato poi il clamoroso successo in Francia (dove il fatto che racconta è ben noto, mentre da noi molto meno) con oltre tre milioni di spettatori nelle prime settimane di uscita che hanno già visto trasformando Des hommes et des dieux in un fenomeno culturale imprevedibile.


Il titolo italiano Uomini di Dio ha fatto discutere: la traduzione letterale sarebbe "Uomini e dei", a sottolineare il rapporto tra diverse religioni e non la focalizzazione solo su "questi" uomini di Dio. Però poi il film di Xavier Beauvois fa una scelta (narrativa) di campo: racconta la vita e la morte di un gruppo di monaci cistercensi francesi nell’Algeria degli anni 90, insanguinata dalla guerra tra i terroristi del Fronte Islamico di Salvezza e il regime militare corrotto dell’epoca. I sette vivono nel convento di Thibirine nell’amore, ricambiato, per la popolazione musulmana dei dintorni, che vede nei monaci cattolici un punto di riferimento e di sicurezza. E anche di aiuto concreto soprattutto per le cure mediche che uno dei religiosi (frère Luc) riesce ad assicurare a tutti, senza distinzioni, ma con particolare riguardo a donne e bambini. Le cose, si avverte, non però così idilliache – e infatti i fondamentalisti della GIA erano in azione già da anni – ma è la strage di un gruppo di operai croati cristiani, in un cantiere nei dintorni, da parte dei rivoluzionari islamici a far capire ai monaci che sono in pericolo. Di lì a poco un’irruzione nel convento farà temere il peggio, ma non avrà conseguenze; anzi, instilla nel capo dei terroristi una forma di rispetto per frère Christian de Chergé, priore del convento, fermo nella sua fede (i terroristi, fra l’altro, irrompono, la notte di Natale) e mite al tempo stesso. Ma nel gruppo di religiosi serpeggia la paura, non tutti sono disposti ad aspettare una morte, possibile se non probabile. Passeranno lunghi mesi, tra la tentazione di scappare e tornare in Francia e la convinzione di assolvere a un compito più grande, nella fede profonda in Cristo e nell’amicizia reciproca tra di loro, confortando un’ancor più impaurita popolazione misera e bisognosa del loro aiuto. Finché il momento del martirio, per sette di loro, si compirà. Importa sapere se furono davvero i terroristi che li rapirono o l’esercito che li inseguiva per far ricadere su di loro il sangue dei monaci?


Uomini di Dio ha appunto il merito di rievocare una pagina nota (dalle prime tensioni del 1993 all’uccisione del 1996) a pochi del lungo capitolo dei martiri cristiani del 900. Il regista Xavier Beauvois, con uno stile austero degno di maestri del passato quali Dreyer e Bresson e solo qualche accenno retorico ma giustificato nel finale, mette in luce l’umanità dei religiosi, nei quali alberga l’umanissima paura ma anche un amore incrollabile in Cristo e nel loro prossimo. Anche dei terroristi, di cui non ci si augura il male (vengono curati anche loro, la morte del capo suscita compassione); ma il film non fa sconti sulla loro crudeltà, come si vede bene nella scena del massacro degli operai croati.


Ma prevale l'amore, in questo film, che fa dire a frère Christian (al libro Più forti dell’odio, da cui sono tratte lettere e testi del priore e dei suoi confratelli, si ispira il film) in un testamento che il film fa “leggere” nel finale, parole che non sfuggono il martirio ma nemmeno lo cercano (temendo che la colpa ricada indistintamente sull’amato popolo algerino). Soprattutto parole, commoventi, che esaltano la vita più che la morte, abbracciando anche l’assassino di cui non si conosce ancora il volto ma di cui si intuisce l’arrivo.


Antonio Autieri



Il testamento di Frère Christian










Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l'unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell'indifferenza dell'anonimato.

La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno «grazia del martirio», il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'Islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell'Islam che un certo islamismo incoraggia. E' troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L'Algeria e l'Islam, per me, sono un'altra cosa: sono un corpo e un'anima. L'ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: «Dica adesso quel che ne pensa!». Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'Islam come lui li vede, completamente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!


E anche te, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!

Insc'Allah.


Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994

Testamento spirituale di Padre Christian de Chergé del Monastero di Tibhirine

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il sedicente «Gruppo Islamico Armato» ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.







Tibhirine, parla l’unico monaco sopravvissuto



​«Ci sono fratelli a cui è chiesto di testimoniare con il dono della loro vita e altri ai quali viene domandato di testimoniare attraverso le loro vite». Sono le parole della badessa di un monastero rivolte a frère Jean-Pierre Schumacher, uno dei due monaci trappisti sopravvissuti al rapimento e alla strage di sette confratelli, nel monastero di Tibhirine, in Algeria, nella primavera del 1996. «Quelle parole - confessa ora frère Jean-Pierre - mi hanno come sollevato dal peso di una domanda che non finiva di interrogarmi: perché il Signore mi aveva concesso di restare in vita? Ho compreso che era proprio per realizzare questa missione: testimoniare gli avvenimenti di Tibhirine e far conoscere l’esperienza di comunione con i nostri fratelli musulmani, che continuiamo ora qui nel monastero di Midelt, in Marocco».

Non senza reticenza, frère Jean-Pierre, che abbiamo incontrato dopo il successo del film Uomini di Dio, ha accettato di concedersi anche ai giornalisti e non solo agli ospiti e ai visitatori che si spingono sin quassù, sulle pendici dell’Atlante marocchino. Testimoniare sì, ma davanti a un microfono, a una telecamera… Non è stato facile, soprattutto negli ultimi anni, né per lui né per la sua comunità, fronteggiare l’assalto spesso poco discreto dei media. Frère Jean-Pierre lo ha fatto con la spontaneità e la semplicità che lo contraddistinguono. E con una lucidità sorprendente per i suoi quasi 89 anni. 

Da queste testimonianze sono nati diversi articoli, ma soprattutto due libri da poco usciti in Francia: L’Esprit de Tibhirine (Lo spirito di Tibhirine), con il giornalista Nicolas Ballet (Seuil, pp. 216, euro 17) e Le dernier moine de Tibhirine (L’ultimo monaco di Tibhirine) del giornalista belga Freddy Derwahl (Albin Michel, pp. 204, euro 18). Molto bello e intenso il primo, frutto di «un’immersione completa nel monastero», come racconta lo stesso Ballet. Il giornalista, infatti, che aveva conosciuto frère Jean-Pierre in precedenza e aveva realizzato nel 2011 un’inchiesta sui "misteri" di Tibhirine, ha lavorato per oltre un anno e mezzo attorno alla figura dell’ultimo sopravvissuto (l’altro, frère Amedée, è morto nel 2008). Un lavoro meticoloso e approfondito che lo ha portato in Algeria, Francia e Svizzera. 

E, soprattutto, in Marocco, dove il co-autore ha passato un mese e mezzo nel monastero di Midelt, attualmente l’unica presenza monastica maschile in Nordafrica. Qui ha raccolto trenta ore d’intervista con l’anziano monaco e facendo lunghe ricerche nella biblioteca e negli archivi del monastero (dove sono confluiti anche molti libri e documenti di Tibhirine).

Attraverso l’itinerario umano e spirituale di frère Jean-Pierre è tutto un secolo che viene raccontato: la sua infanzia, la guerra, il rischio, scampato per un  soffio, di finire sul fronte russo... E poi la scelta sacerdotale prima e claustrale dopo e quindi il trasferimento in Algeria nel 1964. Anche qui, anni difficili e straordinari: quelli all’indomani dell’indipendenza e quelli dell’incontro con i "fratelli" musulmani. Qualcosa di nuovo, inedito e sorprendente per gli stessi trappisti. Un incontro che è maturato nel tempo e si è consolidato con l’arrivo come priore di frère Christian de Chergé, grande uomo di fede e di dialogo. 

«Le relazioni fraterne con gli altri monaci», sono il suo ricordo più forte: «Era così bello!», dice commuovendosi ancora. E poi il legame con la gente del villaggio: «Qualcosa di essenziale se volevamo che la nostra presenza in un mondo totalmente musulmano avesse senso». 

Poi il rapimento, nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, e l’uccisione in maggio dei suoi confratelli. Lui, Jean-Pierre, scampò al sequestro perché quella notte era di servizio in portineria, in un edificio adiacente al monastero. Questa vicenda tragica e per molti versi carica di misteri - non si sa ancora con certezza chi rapì e uccise i monaci - non ha però cancellato quello "spirito di Tibhirine" che dà il titolo anche al libro: l’amore di Dio condiviso con i propri fratelli e sorelle. «Il dialogo con i musulmani non è un passaggio obbligato - vi si legge -, ma una scelta deliberata fatta di rispetto, fiducia, ascolto e condivisione. Lo spirito di Tibhirine non è riservato ai monaci; tutti possono viverlo, ovunque essi si trovano».

È dunque questo il messaggio più forte che esce da questo libro-testimonianza. In fondo, un messaggio di speranza. Perché, come lo stesso frère Jean-Pierre dice, quello vissuto ogni giorno dalla sua comunità non è altro che un «laboratorio di speranza per la nostra società». 

Non per niente anche Freddy Derwahl, nel suo L’ultimo monaco di Tibhirine, lo definisce «un uomo incredibilmente aperto nella sua fede». E ricorda, come attraverso la sua testimonianza, riviva anche il senso profondo del testamento spirituale di Christian de Chergé, ancora oggi di grandissima attualità: «Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria del Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando con le differenze».



Da uno scritto  di frère Christian de Chergé,
priore del Monastero di Notre Dame de l'Atlas ' Tibhirine ' Algeria 




Mi sembra che vivere nella 'casa dell'islam' significhi sentire concretamente la difficoltà e quindi la maggiore urgenza di quelle novità dell'evangelo che la chiesa ha tratto dal suo tesoro solo recentemente, diciamo con la svolta del Vaticano II: nonviolenza concreta, urgenza della giustizia sociale, libertà religiosa, rifiuto del proselitismo, spiritualità del dialogo, rispetto della differenza, senza dimenticare la solidarietà con i più poveri, sempre da reinventare.

Nel contempo ci si rende perfettamente conto che sarebbe contrario all'evangelo voler compiere questi nuovi passi verso l'altro solo a condizione che lui stesso faccia altrettanto. A volte si sente dire: 'Tocca sempre a noi fare il primo passo. Adesso, basta! Si muova lui!' Come se noi fossimo debitori, in primo luogo, verso la straordinaria iniziativa presa da colui che «ci ha amati fino alla fine» (Gv 13,1). Dobbiamo sottrarci a qualsiasi costo a questa legge del taglione del 'do ut des' che ci abita ancora in mille modi. Andare verso l'altro e andare verso Dio è una cosa sola: non posso farne a meno e richiede la stessa gratuità.

Poiché ci si profila un unico orizzonte, diventa vitale imparare a camminare insieme in nome di ciò che di migliore si ha in sé. Un versetto del Corano afferma: 'Presto mostreremo loro i nostri segni, sugli orizzonti del mondo e in loro stessi' (41,53). I nostri fratelli 'Alawiyîn di Médéa hanno citato e commentato questo versetto fin dal loro primo incontro con il Ribât (Gruppo di incontro interreligioso) alla festa di Ognissanti del 1980. Sembrava loro che desse fondamento all'iniziativa, assunta alcuni mesi prima, di venire a pregare con la nostra Comunità dell'Atlas.

Fin dall'inizio ci avevano allora dichiarato: 'Non vogliamo impegnarci con voi in una discussione dogmatica. Nel dogma o nella teologia ci sono molte barriere che sono questioni umane. Noi invece ci sentiamo chiamati all'unità. Vorremmo lasciare che Dio crei tra noi qualcosa di nuovo. Questo può avvenire solo nella preghiera. È questo il motivo per cui abbiamo voluto questo incontro di preghiera con voi'.

Sì, possiamo aspettarci qualcosa di nuovo ogni volta che ci sforziamo di decifrare i 'segni' di Dio 'all'orizzonte' dei mondi e dei cuori, mettendoci semplicemente all'ascolto, e anche alla scuola dell'altro, musulmano in questo caso. È proprio questo l'obiettivo del nostro Ribâche, fin dagli inizi 'ormai 10 anni orsono (marzo 1979) ' si era riconosciuto nell'intuizione di Max Thurian, così vicina a quella dei nostri amici di Médéa: 'È necessario che la chiesa assicuri a fianco dell'islam una presenza fraterna di uomini e di donne che condividono il più possibile la vita dei musulmani, nel silenzio, nella preghiera e nell'amicizia. Così si preparerà a poco a poco quello che Dio vuole nelle relazioni tra chiesa e islam'.(tratto da 'Più forti dell'odio' ' ed. Qiqajon)



Memoria e preghiera per i monaci di Tibhirine 

Il profumo del vento e l'abbazia




di Ferdinando Cancelli 

"Se mi capitasse un giorno, e potrebbe accadere oggi, di essere vittima del terrorismo che adesso sembra voglia colpire tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo Paese". Inizia con queste parole il testamento spirituale di frère Christian de Chergé, cistercense della stretta osservanza eletto priore del monastero Notre-Dame de l'Atlas a Tibhirine, in Algeria, nel 1984 e rapito il 27 marzo 1996 con sei confratelli da una ventina di uomini armati. I sette monaci non faranno ritorno:  tutti saranno uccisi il 21 maggio successivo. 

La storia di questi monaci che hanno dato la loro vita per servire fedelmente Dio nella liturgia e nell'aiuto prestato ai fratelli musulmani della regione algerina vicina al monastero è ricordata, da poco tempo, in un semplice ma toccante memoriale aperto alla visita dei pellegrini nell'abbazia francese di Aiguebelle, immersa nell'aspro panorama di quella zona della Drôme provenzale, poco lontana da Montélimar, dove il vento dal Mediterraneo a folate porta già il profumo di piante e frutti lontani. Proprio Aiguebelle aveva fondato nel 1938 Notre-Dame de l'Atlas e proprio da Aiguebelle provenivano alcuni dei sette monaci assassinati nel 1996. 

Una semplice costruzione in pietra e legno ricorda adesso il loro sacrificio offrendo la possibilità a chi vi giunge di percorrere un intenso itinerario spirituale fatto di parole, di immagini e di adorazione silenziosa. Cristiani e musulmani, le cui vite si sono spesso intrecciate risalendo i tragici tornanti della storia recente, sono stati talvolta accomunati anche da un destino di martirio:  il giovane Mohamed diede la propria vita per salvare quella del suo altrettanto giovane amico francese, Christian, minacciato di morte durante la guerra d'Algeria, non sapendo di spargere con il suo sangue il seme di una riconoscenza e di una vocazione che avrebbero fatto di quel francese il futuro priore di Tibhirine. Il volto sorridente di un altro giovane algerino spicca sulla parete di sinistra:  è Mahommed Bouchikhi che, pur consapevole del pericolo che avrebbe corso per la sua amicizia con monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano, sacrificò la sua vita in una esplosione che li uccise entrambi il 1° agosto del 1996. 

Questi luoghi e questi fatti rimandano direttamente alle parole di Benedetto XVI pronunciate nel 2009 ad Amman presso la moschea al-Hussein bin Talal e più volte riprese in tanti punti del suo insegnamento:  "Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell'Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli". La "conoscenza reciproca", il "crescente rispetto", la comprensione in nome della ragione alle quali sempre nella stessa occasione accennava il Papa sono stati ricordati nel memoriale di Aiguebelle il 30 maggio scorso durante l'annuale celebrazione in ricordo dei monaci di Tibhirine che quest'anno ha avuto come tema la preghiera. Alla presenza del giovane neo eletto abate frère Eric Antoine, dell'imam Abdallah della vicina città di Valence e di circa 500 fedeli musulmani e cattolici, si sono alternate preghiere e riflessioni teologiche, tra le quali quella di Martine Mertzweiller già in più occasioni incaricata dal cardinale Barbarin di parlare ai fedeli islamici della moschea di Lione. 

"Conosco le caricature dell'islam che un certo islamismo incoraggia. È troppo facile (...) identificare questa religione con gli integralismi dei suoi estremisti. L'Algeria e l'islam per me - prosegue frère Christian nel suo testamento spirituale - sono un'altra cosa, sono un corpo e un'anima. L'ho proclamato, credo, in base a quello che ho ricevuto, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia Chiesa, proprio in Algeria, e nel rispetto dei fedeli musulmani". Corrono veloci gli occhi sul manoscritto autografo del priore di Tibhirine e, giunti quasi al fondo, non riescono a stare dietro al battito del cuore che accompagna la lettura delle ultime righe rivolte direttamente a chi di lì a pochi mesi lo avrebbe ucciso:  "E anche tu, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo ciò che facevi. Sì, anche per te io voglio dire questo grazie e questo ad Deum da te deciso. E che ci sia concesso di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due".











Nessun commento: