Lunedì della XII settimana del Tempo Ordinario. Commento completo e approfondimenti










Giudicare, “krinein” in greco, significa separare setacciando o vagliando. Molto del nostro tempo è passato a vagliare. Pesare con il bilancino ogni parola, ogni atto, ogni sguardo degli altri e di noi stessi, sempre senza misericordia. La parola chiave del Vangelo di oggi è “misura”, ovvero il criterio di Dio nel giudizio: l'unica unità consentita è la misericordia, le viscere materne capaci di rigenerare nell'amore. Essa ha sempre la meglio sul giudizio. Appare negli occhi di Dio dove riverbera un cuore ricolmo d’amore, che dimentica il male, che cerca testardamente il bene. Nelle sue parole di verità, di amorevole correzione, quella d’un Padre che ama davvero suo figlio. Lui, prima di giudicare qualunque uomo, ha guardato la trave dinanzi ai suoi occhi, la Croce del Figlio, il peso d’ogni peccato rovesciato sulle sue membra. Il prezzo del nostro riscatto, il suo Figlio fatto peccato per ciascuno di noi. Smettiamola dunque di giudicare una pagliuzza, di setacciare nel prossimo – marito, moglie, figli, genitori, colleghi – ogni sospiro e ogni presunto pensiero, cercando chissà quale movente, quale ingiustizia, quale disprezzo. Chi giudica è un nevrotico inguaribile, e spesso cade preda di una vera e propria patologia: "è tanto ossessionato da quello che vuole giudicare, da quella persona – tanto, tanto ossessionato! - che quella pagliuzza non lo lascia dormire! ‘Ma, io voglio toglierti quella pagliuzza!'… E non si accorge della trave che lui ha. Confonde: crede che la trave sia quella pagliuzza. Confonde la realtà. E’ un fantasioso" (Papa Francesco). Non ti è mai accaduto di fissarti su una persona sino a non riuscire più a staccare i tuoi occhi e la tua mente da lei: non sopporti più nulla, giudichi anche il suo modo di tossire, di mangiare, di vestirsi, di educare i figli, di usare i soldi, spesso aspetti che non ti riguardano neanche lontanamente.  Smettiamola di appiccicare i nostri occhi su chi ci sta intorno, e fissiamoli sulla trave che pesa sulle spalle di Cristo, pesante, assassina. Il legno sul quale sono incisi i nostri peccati. Fissiamola allora, fissiamola bene, arrossata dal sangue del Signore, sono stato io, è opera della mia libertà sbranata dal demonio. Io ho ucciso Gesù, in tutte, ma proprio tutte le persone che mi sono state accanto sino ad ora, compreso chi ho già cominciato a giudicare. Lasciamo che il dolore per i peccati nasca dentro di noi, e cresca, e ci ferisca il cuore e la mente; un cuore umiliato e contrito, forse non lo abbiamo mai sperimentato: la contrizione, infatti, è il primo passo nel cammino della conversione, elemento essenziale perché il sacramento della confessione dia i frutti ad esso legati: essa è “il dolore dell'animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire”. E come possiamo fissare la Croce? Innanzi tutto ascoltando la predicazione del Vangelo! Solo all'annuncio del kerygma - nel quale Pietro aveva prima denunciato i peccati del popolo che avevano inchiodato Gesù alla Croce, e poi annunciato la sua resurrezione e il perdono - gli abitanti di Gerusalemme "si sentirono trafiggere il cuore". L'autentico dolore dei peccati nasce dunque dall'ascolto della predicazione: è fecondo, perché le lacrime versate per i peccati commessi, diventano il liquido amnicotico nel quale è deposta la fede. Senza la compunzione e la contrizione, quella fitta al cuore che ha sentito il figlio prodigo, non si può desiderare e intraprendere un sincero cammino di conversione, e la fede non può attecchire e crescere nell'uomo. Perché fede e conversione si nutrono l'una dell'altra. Per questo, anche il brano di oggi del Vangelo, rivelandoci il cuore di un cristiano e della Chiesa, l'attitudine dei perdonati e rigenerati di fronte ai peccati dei fratelli, ci chiama a tornare alla nostra identità, a camminare seriamente nella conversione, ad ascoltare la predicazione senza difenderci. Essa ci presenterà la "trave" della Croce sulla quale abbiamo inchiodato il Signore con i nostri peccati; ma vi leggeremo anche il perdono. Perché vi è una risposta, ad ogni peccato: la misericordia. Non accorgersi della trave che abbiamo negli occhi significa non aver conosciuto l’amore di Dio, non aver sperimentato la sua misericordia. Cercare la pagliuzza negli occhi altrui, significa essere stanchi di noi stessi, dei tanti difetti, mancanze, debolezze, incoerenze, peccati che vorremmo dimenticare. Quelli che non abbiamo saputo accettare, le cadute dove non abbiamo sperimentato il perdono, la pazienza e l’amore di Dio. Giudicare il prossimo senza misericordia è frutto d’un giudizio senza misericordia nei confronti di noi stessi. Ma una trave ci salva: essa svela la misericordia crocifissa, perché il documento del nostro debito vi è stato appeso e annullato. Non sbattiamoci contro questa trave ma guardiamola senza timore, e lasciamoci amare. Basta ipocrisie, maschere indossate per apparire giusti e così giustificarci infilzando gli altri con i giudizi sprezzanti. Chi giudica è sempre ipocrita, perché non mostra chi è veramente: dissimula d'essere il peggior peccatore graziato dalla misericordia di Dio. Perché questo siamo oggi: peccatori su cui pesa un giudizio di condanna a morte, ai quali l'unico Giudice ha condonato il delitto! Come racconta questo apoftegma dei Padri del deserto: "Un anziano raccontò: "Vi era un anziano che viveva nel deserto e, dopo aver servito Dio per molti anni, disse: "Signore, rivelami con chiarezza se ti sono stato gradito". E vide un angelo che gli disse: "Non sei  ancora diventato come l'ortolano che vive nel tal luogo". L'anziano, stupito, disse fra sé: "Andrò in città a vederlo. Chi sa che mai avrà fatto per superare il lavoro e la fatica di tanti miei anni!". Partì dunque l'anziano, giunse al luogo che l'angelo gli aveva indicato, e trovò quell'uomo occupato a vendere ortaggi. Si sedette accanto a lui per il resto del giorno e, quando ebbe finito gli disse: "Fratello, puoi ricevermi nella tua cella questa notte?". Lo accolse con grande gioia. Giunto nella sua cella si mise a preparare il necessario per rifocillare l'anziano, e questi gli disse: "Fammi questa carità, fratello, raccontami la tua vita". Poiché egli non voleva parlare, l'anziano insistette molto a pregarlo. Convinto dalle suppliche, l'uomo disse: "Mangio solo la sera; quando mi corico, tengo soltanto il necessario per il mio nutrimento; il resto lo do ai poveri e, se ricevo qualcuno dei servi di Dio, lo offro a lui. Quando mi alzo al mattino, prima di sedermi al mio lavoro dico che tutti gli abitanti della città dal più piccolo al più grande, entreranno nel Regno per la loro giustizia, mentre io solo erediterò il castigo per i miei peccati. Anche alla sera, prima di addormentarmi, dico la stessa cosa". Udito ciò l'anziano gli disse: "Quest'opera è buona, ma non è tale da superare le mie fatiche di tanti anni". Mentre si accingevano a mangiare, l'anziano udì che in strada si cantavano delle canzonacce; la cella dell'ortolano si trovava infatti in una zona di cattiva fama. Gli dice l'anziano: "Fratello, tu che vuoi vivere così secondo Dio, come mai rimani in questo luogo? Non ti turbi quando senti cantare queste cose?". L'altro gli dice: "Ti dirò, padre, che non mi sono mai né turbato né scandalizzato". "Ma cosa pensi in cuor tuo quando odi queste cose?", chiede l'anziano. "Penso - egli dice - che essi entreranno certamente nel Regno". A queste parole l'anziano, preso da ammirazione, disse; "Questa è l'opera che supera la mia fatica di tanti anni", e inchinatosi davanti a lui soggiunse: "Perdonami, fratello, non sono ancora giunto a questa misura". La misura della trave, il peso dei nostri peccati, e il supplizio che meritiamo, la Croce più infamante... Che però segna anche la misura del Giudice infallibile, che ci ha giudicato non giudicandoci: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno". Come dire: se lo sapessero, se non fossero ingannati, non sarei qui; ma ora sono inchiodato proprio perché, contemplando questa trave, possano sapere la Verità ed essere finalmente liberi. Questo è stato ed è, oggi, il giudizio, il vero e giusto, la misericordia infinita che ha fatto della trave che non vediamo e che ci spetta, la condanna assunta da Gesù che ci salva, e come ti sembrerà allora piccola la pagliuzza del fratello... Contempla la trave allora, le braccia di Cristo distese su di essa, che rivelano la misura con la quale siamo stati giudicati, la misura con cui giudicare. La misericordia, infatti, è il criterio d’ogni discernimento, di ogni legittima, auspicata correzione. In latino cum-regere significa sorreggersi insieme, sostenersi nel cammino. Non si tratta infatti di non dire nulla e voltarsi dall'altra parte mentre un fratello pecca o si sta mettendo in una brutta situazione; per vivere come impauriti d’ogni pensiero, incapaci d’ogni valutazione. Attenzione, è facile cadere in un moralismo schiacciante: "Mantenete l'amore e state tranquilli. Perché temi di far male a qualcuno? Chi fa del male a colui che ama? Ama: non può capitare se non che tu faccia del bene. Forse tu riprendi qualcuno? Questo è opera di amore, non di cattiveria" (S. Agostino). La misericordia genera la libertà, e in esse si possono dire anche le cose più dure, la verità più cruda, rischiando un'amicizia, una relazione, pur di non perdere l'anima del fratello. Quando è ben presente la trave della Croce di Cristo, ovvero la costante memoria dei nostri peccati e dell'amore che li ha assunti e cancellati è impossibile giudicare. Chi è stato iniziato alla fede nel seno della Chiesa sa di essere l'ultimo, e stima chiunque altro migliore di Sé. Lo sa per esperienza, il cuore glielo ricorda, e gli occhi guarderanno con compassione. 

I divorzi, le separazioni, le cause, le guerre, le ingiustizie, tutto nasce da un giudizio originale che acceca, quello su Dio insinuato dal demonio ai progenitori, che si estende ai fratelli e sulla storia. Se giudichi significa che hai scelto di dare ascolto all'"accusatore" di Dio e degli uomini, senza forse renderti conto che così hai scelto anche di farti giudicare da lui. Finirai con l'essere giudicato da un giudizio umano, senza misericordia perché figlio del giudizio del demonio, esattamente come il tuo. E' semplice: ti lamenti perché tua moglie ti giudica? Non stupirtene, il suo giudizio è certamente fratello del tuo, magari quello di cinque anni fa che tu hai dimenticato, ma di cui non hai mai chiesto perdono. E così hai chiuso in un "congelatore" il rapporto con tua moglie, ibernandolo in quel giudizio. Nel momento opportuno, la stessa insinuazione demoniaca che ha ingannato te, ha infiammato il cuore e la mente di lei, scongelando il giudizio che l'aveva ferita. E ora eccotelo servito, e sono mesi che non vi parlate. Allo stesso modo accade nella Chiesa, dove il giudizio uccide la comunione e arresta la conversione. Una comunità dove si giudica è uno scandalo, un muro eretto tra l'umanità pagana e Dio. Un padre che giudica il figlio lo fa inciampare sulla strada verso la fede adulta. Per questo abbiamo bisogno di camminare ogni giorno ascoltando l'annuncio del Vangelo che smaschera il giudizio originale e menzognero del demonio su Dio: no, Dio ti ama, e ti perdona sempre. Ascoltando e nutrendoci del perdono attraverso i sacramenti siamo allevati nella misericordia, e potremo cominciare ad amare, e per amore "togliere la pagliuzza dall'occhio del fratello": la mano che si allunga per ridonargli una vista chiara sarà, infatti, quella di Cristo trapassata dai chiodi dei peccati di ogni uomo. La misericordia brucia il compromesso affettivo che impedisce di dire la verità generata dall'amore sincero, camuffando la paura di perdere la stima dell'altro con una carità che è pura ipocrisia. Quando la misura del cuore è la misericordia, le nostre parole, i nostri sguardi, i nostri atti, divengono come un utero nel quale accogliere ogni uomo, un porto sicuro dove chi è debole, chi ha peccato, può trovare riparo dai marosi dell'inganno che ghermiscono la sua vita: "Avrò la certezza che veramente ami il Signore e me, suo servo e tuo, se farai in modo che non ci sia un frate in tutto il mondo che, per quanto abbia peccato, incontrando il tuo sguardo non senta di avere ottenuto il perdono, se lo avrà chiesto. E se non fosse lui a chiedere perdono, tu incoraggialo a chiederlo. E se mille volte si presentasse a te in simile situazione, dimostra per lui più affetto di quanto ne nutri per me stesso. In questo modo ti sarà possibile riportarlo al Signore" (S. Francesco d'Assisi, Lettera ad un ministro). Siamo chiamati con Cristo e la Chiesa a "difendere" ogni uomo davanti a Dio intercedendo per tutti. Ecco che cosa significa non giudicare: amare, pregare e offrirsi per chi fa del male, per chi non comprendiamo, annunciando e testimoniando loro il giudizio e l'intercessione di Gesù. Un marito "difende" sua moglie, sempre, anche quando le dice la verità! Un padre difende suo figli, annunciandogli l'amore di Dio illuminando i suoi peccati e i rischi di certi atteggiamenti. Così condurremo tutti a Cristo, attraverso la trave che ci ha salvato, la Croce che, insieme, ci unisce a Lui.






APPROFONDIMENTI

EMILIANO JIMENEZ

NON GIUDICATE (Mt 7,1-12)
a) La pagliuzza e la trave

Gesù, con un fermo imperativo, proibisce ai suoi discepoli di giudicarsi l'un l'altro: «Non giudicate, per non essere giudicati» (Mt 7,1). Chi giudica gli altri si crede superiore e migliore di loro. Così si arroga un diritto sugli altri che non gli appartiene. Il giudizio appartiene a Dio. Nella comunità, i fratelli non si affrettano a giudicare e condannare chi pecca. Confidano nella grazia di Dio che dà a tutti il tempo per la conversione: «Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'a-dempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,8-9). Che il giudizio appartiene a Dio e non a noi, lo ricorda Paolo ai fedeli della comunità di Corinto: «Non vogliate per-ciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio»
(1Cor 4,5). Anche ai Romani scrive: «Ma tu, perché giudichi il
tuo fratello? E anche tu, perché disprezzi il tuo fratello? Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio, poiché sta scritto: Come è vero che io vivo, dice il Signore, ogni ginocchio si piegherà davanti a me e ogni lingua renderà gloria a Dio. Quindi ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso. Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensate invece a non esser causa di inciampo o di scandalo al fratello» (Rm 14,10-13). Con la parabola del grano e della zizzania, Gesù torna ad invitarci a lasciare il giudizio a Dio (Mt 13,24-30). Chi entra nel suo foro interiore e contempla il proprio peccato non giudica gli altri. E se giudica gli altri li giudica con benevolenza, «considerando gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). Il salmista detesta il giudizio dell'empio mentre accetta la correzione del giusto: «Mi percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l'olio dell'empio non profumi il mio capo» (Sal 141,5). La correzione del giusto è rivestita di misericordia, poiché corregge e riprende per invitare alla salvezza. Il rimprovero dell'empio e del peccatore, invece, non cerca di sanare, ma di ferire. Nel Sermone della Montagna, segue una sentenza sapienziale per rafforzare la proibizione del giudizio: non giudicate «perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,2). La sentenza si può esprimere in tanti modi, usando le più diverse immagini: chi scava una fossa per gli altri vi cade dentro; nella pentola in cui cuoce gli altri viene cotto lui; con la bilancia con cui pesa gli altri pesano lui. O con l'esempio di Assalonne: era orgoglioso della sua capigliatura e vi restò appeso. Il salmo riprende questa dottrina, dicendo: «Non torna forse ad affilare la spada, a tendere e puntare il suo arco? Si prepara strumenti di morte, arroventa le sue frecce. Ecco, l'empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna. Egli scava un pozzo profondo e cade nella fossa che ha fatto; la sua malizia ricade sul suo capo, la sua violenza gli piomba sulla testa» (Sal 7,13-17). E la sorte di Aman, giustiziato sulla forca che aveva preparata per Mardocheo (Est 7,10). Chi osa giudicare gli altri non deve mai dimenticare che anche lui comparirà davanti al tribunale divino. E tutti siamo colpevoli, bisognosi di misericordia, poiché «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32). È forse impossibile evitare il giudizio tra i fratelli che vivono in comunità. Conoscere il fratello è frutto della comunione. Scoprire le fragilità degli altri è un invito non al rifiuto o alla condanna, ma a «sopportare l'infermità dei deboli» (Rm15,1), «portando i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). E, soprattutto, aiuta a giudicare con misericordia la conoscenza di se stesso. Chi conosce le sue debolezze e fragilità sa comprendere quelle degli altri. Chi è sceso nelle profondità del suo cuore e sa che è vivo per grazia di Dio, come potrà non essere comprensivo con i difetti dei suoi fratelli? San Paolo, che nella sua vita di fariseo aveva giudicato e condannato gli altri con tanta facilità, una volta toccato dalla grazia di Cristo, scrive: «Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio?» (Rm 2,1-3). La differenza che c'è tra una pagliuzza e una di quelle travi che sostengono il tetto delle case è la stessa che esiste tra il difetto altrui e quello proprio. Ma noi non vediamo il nostro, benché sia grande come una trave, mentre vediamo, invece, quello altrui, benché sia piccolo come una pagliuzza. Quando si giudica è facile usare due misure: una per se stesso e un'altra per gli altri. Siamo soliti fissare la nostra attenzione sulla pagliuzza nell'occhio di quanti ci vivono accanto e, tuttavia, siamo ciechi per vedere l'enorme trave conficcata nel nostro occhio. Gesù, che non vuole che tra fratelli ci siano giudizi né condanne, ci dice: «Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? 0 come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello» (Mt 7,3-5). Ai farisei che condannano l'adultera, Gesù dice: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Sant'Agostino, in un sermone sul salmo cinquanta, commenta: «Davide ha confessato: riconosco la mia colpa (Sal 50,5). Se io riconosco, tu perdona [...] Gli uomini senza speranza, quanto meno prestano attenzione ai propri peccati, tanto più si occupano dei peccati degli altri. In realtà non cercano di correggere, ma di condannare. E poiché non possono scusare se stessi, accusano gli altri. Non è questo il modo di pregare e chiedere perdono a Dio, secondo quanto ci insegna il salmi-sta, quando esclama: riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi (Sal 50,5)». L'occhio vede quello che ha davanti a sé, ma non vede se stesso. Questo è il problema. Vediamo il più piccolo difetto del prossimo, ma quanto ci costa scoprire l'abisso di cattiveria dentro di noi! Solo una continua e ripetuta esperienza del perdono può aprirci gli occhi dello spirito per guardarci den-tro e riconoscere il proprio peccato. Nel CREDO confessiamo: Credo nel perdono dei peccati. L'ordine della frase è corretto. Prima si crede nel perdono e solo dopo nel peccato. Dove non c'è perdono, si cerca di giustificare tutto, incolpando sempre gli altri. Anche nell'esperienza comunitaria è importante guardare gli altri come specchio della nostra interiorità. Ciò che inizialmente non vediamo in noi lo vediamo subito negli altri. Ciò che giustifichiamo in noi forse non lo accettiamo negli altri. Così il giudizio degli altri diventa giudizio su di noi. In que-sto modo passiamo dalla condanna dell'altro alla riconoscen-za perché mi aiuta a conoscermi e a situarmi sotto la grazia di Gesù Cristo, che non è venuto a cercare i giusti, ma i peccatori (Mt 19,13). Gesù, che ci invita a «essere perfetti come è perfetto il Padre» (Mt 5,48), cioè «misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36), desidera che il nostro occhio sia limpido e luminoso per guardare il fratello con la stessa luce con cui lo guarda il Padre buono e misericordioso. Chi ha visto la trave immensa che lo acceca e ha sperimentato il perdono e la misericordia di Dio non avrà difficoltà a vedere con pietà la pagliuzza del fratello e a perdonarlo. Gesù non si limita a inculcarci l'amore per il prossimo giudicandolo con misericordia. Questa è certamente la prima cosa, «perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2,12). Gesù desidera che scopriamo la trave che abbiamo piantata nel nostro occhio. Chi non vede i propri difetti è definito ipocrita, poiché vive nella menzogna. «Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» (Mt 15,14).



San Giovanni Climaco (circa 575-circa 650), monaco nel Monte Sinai
La scala santa, 10° grado
« Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello ? »


Sentiti alcuni maledire il prossimo, li ho rimproverati. Per difendersi, questi operatori di iniquità hanno risposto: «Per carità e per sollecitudine parliamo così!» Ho risposto loro: Smettete di praticare simile carità, altrimenti accuserete di menzogna colui che ha detto: «Chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo farò perire» (Sal 100,5). Se ami quell'uomo, come dici, prega in segreto per lui e non disprezzarlo. Questo modo di amare piace al Signore; non perdere di vista questo, e applicati con molta cura a non giudicare i peccatori. Giuda era del novero dei discepoli e il ladrone faceva parte dei malfattori, eppure quale cambiamento stupendo in un attimo!...

Rispondi dunque a colui che parla male del prossimo: «Smetti, fratello! Io stesso cado ogni giorno in colpe più gravi; come allora potrei condannare costui? « Ne trarrai un doppio profitto: guarirai te stesso e guarirai il tuo prossimo. Non giudicare è una scorciatoia che conduce prontamente al perdono dei peccati, se è vera questa parola: «Non giudicate e non sarete giudicati»... Alcuni hanno commesso grandi colpe alla vista di tutti, ma hanno compiuto in segreto i più grandi atti di virtù. Così i loro accusatori si sono ingannati attaccandosi solo al fumo senza vedere il sole...

I censori frettolosi e severi cadono in tale inganno perché non conservano il ricordo e il pensiero costante dei propi peccati... Giudicare gli altri, è usurpare senza vergogna una prerogativa divina; condannarli, è rovinare la propria anima... Come un buon vendemmiatore mangia l'uva matura e non coglie l'uva verde, così uno spirito benevolo e sensato nota con cura tutte le virtù che vede negli altri; è insensato invece colui che scruta le colpe e le deficenze.



Doroteo di Gaza ( circa 500- ?), monaco in Palestina
Lettere, 1 ; SC 92, 495
« Poi ci vedrai bene » 

Alcune persone convertono in umore cattivo ogni alimento che assorbon anche se questo alimento è sano. La colpa non è dell’alimento, bensì del loro temperamento che altera gli alimenti. Allo stesso modo, se la nostra anima è in una cattiva disposizione, tutto le fa del male; essa trasforma, persino le cose utili per lei in cose nocive. Se si getta un po' di erbe amare in un vaso di miele, non altereranno forse tutto il barattolo, rendendo tutto il miele amaro? È proprio quello che facciamo: diffondiamo un poco della nostra amarezza e distruggiamo il bene del prossimo, guardandolo secondo la nostra cattiva disposizione.

Altre persone invece hanno un temperamento che trasforma ogni cosa in buoni umori, persino gli alimenti cattivi... I porci hanno una buonissima costituzione. Mangiano le carrube, i noccioli di datteri e immondizie. Eppure trasformano questo cibo in una carne succulenta. Anche noi, se abbiamo buone abitudini e un buono stato d’animo, possiamo trarre profitto da tutto, persino da quello che non è utile. Lo dice benissimo il libro dei Proverbi: “Chi guarda con benevolenza otterrà misericordia” (12,13). Ma altrove: “Per l’uomo insensato, ogni cosa è contraria” (14,7).

Ho sentito dire di un fratello che se, recandosi da un altro, trovava la sua cella trascurata e in disordine, diceva dentro di sé : « Quanto è felice questo fratello poiché è totalmente distaccato dalle cose terrene e porta così bene tutto il suo spirito in alto, da non avere più il tempo per riordinare la sua cella!” Se poi andava da un’altro fratello e trovava la sua cella in ordine e pulita, diceva dentro di sé: “La cella di questo fratello è pulita quanto la sua anima. Tale è lo stato della sua anima, tale quello della sua cella!” Mai diceva riguardo a qualcuno: “Questi è disordinato” oppure: “quello è frivolo”. Grazie al suo stato eccellente, traeva profitto da tutto. Dio nella sua bontà dìa anche a noi uno stato d’animo buono perché possiamo godere di tutto e non pensare mai del male del prossimo. Se la nostra malizia ci ispira giudizi o sospetti, trasformiamo presto questi in buoni pensieri. Infatti il non vedere il male del prossimo genera, con l’aiuto di Dio, la bontà.






Nessun commento: