αποφθεγμα Apoftegma
O Signore, desidero trasformarmi tutta nella Tua Misericordia ed essere il riflesso vivo di Te.
Che il più grande attributo di Dio, cioè la Sua incommensurabile Misericordia,
giunga al mio prossimo attraverso il mio cuore e la mia anima.
Aiutami, o Signore, a far sì che i miei occhi siano misericordiosi,
in modo che io non nutra mai sospetti
e non giudichi sulla base di apparenze esteriori,
ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.
Aiutami, o Signore, a far sì che il mio udito sia misericordioso,
che mi chini sulle necessità del mio prossimo,
che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.
Aiutami o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa
e non parli mai sfavorevolmente del prossimo,
ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.
Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni,
in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo
e prenda su di me i lavori più pesanti e più penosi.
Aiutami, o Signore, a far sì che i miei piedi siano misericordiosi,
in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo,
vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza.
Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso,
in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo.
Alberghi in me la Tua Misericordia, o mio Signore.
Santa Faustina Kowalska
Che il più grande attributo di Dio, cioè la Sua incommensurabile Misericordia,
giunga al mio prossimo attraverso il mio cuore e la mia anima.
Aiutami, o Signore, a far sì che i miei occhi siano misericordiosi,
in modo che io non nutra mai sospetti
e non giudichi sulla base di apparenze esteriori,
ma sappia scorgere ciò che c’è di bello nell’anima del mio prossimo e gli sia di aiuto.
Aiutami, o Signore, a far sì che il mio udito sia misericordioso,
che mi chini sulle necessità del mio prossimo,
che le mie orecchie non siano indifferenti ai dolori e ai gemiti del mio prossimo.
Aiutami o Signore, a far sì che la mia lingua sia misericordiosa
e non parli mai sfavorevolmente del prossimo,
ma abbia per ognuno una parola di conforto e di perdono.
Aiutami, o Signore, a far sì che le mie mani siano misericordiose e piene di buone azioni,
in modo che io sappia fare unicamente del bene al prossimo
e prenda su di me i lavori più pesanti e più penosi.
Aiutami, o Signore, a far sì che i miei piedi siano misericordiosi,
in modo che io accorra sempre in aiuto del prossimo,
vincendo la mia indolenza e la mia stanchezza.
Aiutami, o Signore, a far sì che il mio cuore sia misericordioso,
in modo che partecipi a tutte le sofferenze del prossimo.
Alberghi in me la Tua Misericordia, o mio Signore.
Santa Faustina Kowalska
Con la parabola di oggi Gesù vuole illuminare Pietro e quindi la Chiesa sul "perdono d cuore", quello autentico, l"accordarsi" tra due fratelli di cui aveva parlato poco prima. Esso è una Grazia, la più grande che potremmo ricevere da Dio. E' l'unica esperienza che cambia radicalmente la vita, simile a quella di un condannato a morte che, nel momento in cui si sta eseguendo la sentenza, riceve appunto "la grazia" e vede aprirsi le porte della cella: la sua pena è stata cancellata, è libero e vivo. Per il "servo" della parabola, il dover rifondere diecimila talenti era proprio come una condanna capitale; si trattava, infatti, di una somma esorbitante, se si pensa che un talento era pari a seimila denari e che uno stipendio medio era di trenta denari: per radunare tale cifra un lavoratore dipendente avrebbe dovuto lavorare centosessantaquattromila anni! Per questo "il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito". Per salvarsi, quel servo poteva sperare solo in un atto di clemenza del re. Infatti, "essendo caduto" recita l'originale greco, il servo comincia a "supplicare" il re, ma solo "di avere pazienza con lui perché gli avrebbe restituito ogni cosa" e non di "avere pietà e condonargli il debito", che sarebbe stata la sua unica possibilità di salvezza. Il "servo", infatti, era stato "venduto", ormai solo un atto di clemenza del re avrebbe potuto salvarlo, perché il debito con Dio è inestinguibile, se non a prezzo della vita, come la stessa Legge prescriveva. E non solo con la propria, ma anche con quella della moglie e dei figli, come appare nel vangelo. Il peccato che rompe con Dio, infatti, distrugge "tutto", la famiglia, il futuro dei figli, si sparge come un'epidemia, rende schiavi e uccide. Allora, perché il servo si infila in una promessa che non sarebbe stato in grado di mantenere? Per capire bisogna guardare al contesto ebraico della parabola. Già il salmo 38 affermava che "nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo"; infatti "per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine e non vedere la tomba" (Sal 48,8-10). Solo Dio può offrire il "kofer" del riscatto, un termine derivante dal radicale ebraico "kpr" che significa "coprire - espiare", presente nel termine "kippur", la festa dell'espiazione e del "perdono", che potrebbe essere il contesto di questa parabola. Essa infatti risponde alla domanda di Pietro sul "perdono" al fratello, originata dalle parole di Gesù circa l'atteggiamento da avere nel caso di un fratello che abbia peccato contro un altro fratello. Yom Kippur si celebrava dieci giorni dopo Rosh Ha-Shanah, il capodanno civile ebraico. Esso si chiamava anche Yom Ha-Din, “giorno del giudizio”. I giorni di festa erano giorni di giudizio. Secondo la Mishnà, nel giudizio ”Dio passa in rassegna il suo gregge", come facevano i pastori che “esaminavano”, le pecore. I rabbini dicevano che durante il primo giorno dell’anno sono chiamati tutti gli uomini per passare dinanzi al Trono di Dio; seduto sul suo trono Dio giudica il suo popolo, come un generale passa in rassegna l’esercito, o come un pastore le sue pecore. Ogni uomo è registrato in uno dei tre libri che sono davanti al re: quello dei peccatori ostinati per i quali non c'è speranza, quello dei santi, e quello dei mediocri, per i quali ancora c'è speranza. Ed è esattamente quello che accade nella parabola, nella quale il regno dei cieli è paragonato "a un re che volle fare i conti con i suoi servi". Gli "viene presentato uno che è debitore di una cifra che non ha". Attenzione che questo è importantissimo, perché con questa scena inizia il giudizio. Il servo passa davanti al trono del Re, e risulta insolvente; si tratta di capire se fa parte dei peccatori incalliti e chiusi alla Grazia o dei mediocri. Dalla sua preghiera intuiamo che faccia parte di questi ultimi, perché chiede al Re ancora un po' di tempo: "Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa". Rosh Ha-Shanah, infatti, inaugurava i "dieci giorni terribili” (yamim noraim) che precedevano Yom Kippur, giorni decisivi, perché rappresentano il tempo che Dio offre al pentimento e alla conversione prima di emettere il giudizio definitivo. E come si realizza la conversione? "Perdonando di cuore" il fratello, perché Dio ha cambiato il "cuore" di pietra in "cuore" di carne! Infatti, "appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari". E qui si rivela il suo "cuore" ammalato, ancora pietrificato. Il tempo di conversione è la possibilità di accogliere e far crescere in sé la misericordia di Dio. E' il tempo in cui sperimentare che davvero Dio ha perdonato la propria mediocrità accogliendola nelle sue viscere capaci di rigenerarla in santità. Ma, entrando nei "dieci giorni terribili", il "servo" dimostra che non aveva accolto il perdono del Re. Non aveva confidato in Lui, non ricordava che prima ancora della creazione dell'uomo e del suo peccato, Dio aveva creato la misericordia e la possibilità di pentirsi. In fondo non conosceva il suo re, probabilmente perché qualcuno, un suo "nemico" invidioso e geloso, gli aveva parlato male di lui; e poi si sa, tra sudditi, l'immagine del re quasi mai è buona... Per questo non ha avuto l'audacia per chiedere l'impossibile che è possibile solo a Dio, e, infilandosi in una strada senza uscita, aggiunge egli stesso una condizione impossibile da rispettare: "ti restituirò ogni cosa". Il re, sapendo che quel servo non ce l'avrebbe potuta fare, si "impietosisce", spontaneamente, e "lo lascia andare condonandogli il debito". Letteralmente, lo "scioglie" dal suo debito, lo libera completamente per entrare da riscattato nei "dieci giorni terribili". Ci si aspetterebbe stupore, gioia, gratitudine, e invece nulla, quel servo non appare certo un "graziato". Infatti, "essendo uscito" dal carcere, ormai libero, si comporta come se fosse ancora un condannato "legato" al suo debito. E' impressionante, il servo sembra di marmo! Mette i brividi l'assoluta mancanza di compassione; neanche un briciolo di quella che aveva appena sperimentato nel suo "Signore". Niente, era stato graziato ma sembra che non fosse accaduto a lui. Era passato dalla morte alla vita eppure si comportava come uno ancora chiuso nel sepolcro... Perché? Perché era ancora "legato" all'immagine distorta del re che gli impediva di "conoscere", ovvero sperimentare davvero chi egli fosse, come accade al servo di un'altra parabola che nasconde il talento sottoterra, definito "malvagio" come lui. Aveva sì sperimentato la "pietà" del Re, ma il pensiero malvagio continuava a "legarlo" al debito che aveva contratto. Nonostante fosse stato "sciolto" nel suo cuore era ancora "legato" al suo passato... Nascondendogli la misericordia ottenuta, infatti, il demonio continuava a tenerlo al guinzaglio: non è possibile che ti abbia condonato tutto; lo hai mai visto fare da qualcuno? Se neanche tuo padre, neppure tua madre.... Si ti hanno perdonato, ma mai senza condizioni. Un debito condonato non esiste, ci deve essere un inganno sotto, attento... Copriti le spalle, è una trappola, di sicuro il re piomberà a casa tua esigendoti qualcosa... Vedrai come, appena trovi un altro lavoro e cominci a guadagnare, il re ti troverà e si prenderà tutto, e poi ti venderà... E così il servo, "afferrato e soffocato" da quell'immagine distorta e dal pensiero di dover ancora restituire, comincia ad "afferrare e soffocare un servo come lui". Qui è il punto: colui che, una volta "uscito", ha "trovato" è la sua stessa immagine, proprio come se si fosse guardato in uno specchio. E' "come lui", e per questo, intimandogli "paga quel che devi!", non fa che ripetere quello che diceva a se stesso. Dalla prigione era "uscito" solo il suo corpo, il cuore e la mente erano rimasti dentro, incatenati nella menzogna e nella paura di morire. Il demonio si era messo di traverso tra lui e Dio, e stoltamente gli aveva dato ascolto, chiudendo gli occhi sulla misericordia di Dio. Da "mediocre", invece di diventare "santo" il giorno di Kippur, quello del giudizio finale che avrebbe "coperto" ogni sua colpa, precipita tra i peccatori senza più speranza tra le mani degli "aguzzini".
Fratelli, il servo è l'immagine di quanti, pur nella Chiesa, non hanno ancora sperimentato il perdono di Dio; "sciolti" realmente attraverso i sacramenti, restano "legati" al loro passato perché non hanno smesso di ascoltare il demonio che continua ad ingannarli mirando alla loro disperazione. Come spesso accade a noi, perché il nostro ego gonfiato dalla superbia non smette di illudersi; anche quando "cadiamo" il demonio ci ripete che siamo come Dio, e per questo potremo rialzarci... Sono state solo le circostanze esterne a noi a farci cadere. Ma contemporaneamente restiamo "legati" a un'immagine moralistica di Dio, quella delle autorità che abbiamo conosciuto, dei genitori o dei professori, dei superiori, dei fratelli maggiori. E così siamo spinti da una parte dall'inganno moralistico di dovercela fare con i nostri sforzi, dall'altra dall'illusione di essere come "il re" e quindi di riuscire a restituire "tutto", cioè la Grazia che abbiamo perduto, la "vita" divina che non abbiamo difeso dal peccato! Che stolti siamo. Non ci basta essere "caduti" per capire che non siamo come Dio. Per impedirci di credere all'annuncio della Chiesa, aprirci alla Grazia e sperimentare un perdono immeritato, il demonio punge il nostro orgoglio e ci ruba l'amore di Dio. No, non può amarmi così, sino alla fine dei miei peccati; non può amarmi anche se commetto "settanta volte sette" lo stesso peccato. Nessuno lo ha fatto, forse qualcuno può arrivare a stento a "sette volte", quello che Pietro pensava fosse il massimo possibile... Da buon ebreo, gli sarà venuta in mente la Torah, nella quale Dio stabiliva che chiunque avesse ucciso Caino avrebbe subito la vendetta sette volte; camminando con Gesù, ascoltando la sua Parola, vedendo i suoi gesti pieni di misericordia e compassione, ha intuito che il Maestro avrebbe rovesciato la vendetta in perdono. Ma non poteva immaginare che Gesù avrebbe dilatato all'infinito quella misericordia: dicendo che bisogna "perdonare" chi ci ha fatto del male "non solo sette, ma settanta volte sette", Gesù va oltre Caino e arriva a uno dei suoi discendenti, Lamek, che si vantava di aver ucciso un uomo per una sola scalfittura e diceva: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette”. Un parossismo vendicativo senza limiti, che Gesù capovolge in un perdono senza misura. Pietro non poteva prevedere che dicendo "settanta volte sette", Gesù stava annunciando il suo perdono; il flagello avrebbe straziato la sua carne, ad ogni sferzata miliardi e miliardi di peccati si sarebbero abbattuti su di Lui, perché, piantati sin dentro il suo intimo, li potesse portare sulla Croce e inchiodarceli, per frantumarli nel suo amore infinito. Sappiamo che per gli ebrei i numeri sono molto importanti; una parola che ha il valore numerico di quattrocentonovanta è "tanim", che significa "perfetto", "completo". La parabola di oggi allora, rispondendo alla questione posta da Pietro ma che tutti abbiamo dentro, non ci impone nulla; ci invita semplicemente ad entrare nel "mistero di Dio". Il "peccato" che "qualcuno" compie "contro di noi" è lo stesso che tu ed io abbiamo commesso e continuiamo a commettere; è questo il cuore della parabola: non si tratta di misurare i confini della pazienza e del perdono; non esistono manuali dell'esperto perdonatore cristiano. Esiste l'amore di Dio, da accogliere stupiti e semplici. Allora avremo uno sguardo diverso su noi stessi e sugli altri, e non ci servirà nessuna regola da seguire di fronte ai peccati dei fratelli, perché si tratta solo di amare nell'amore con cui siamo amati e che "precede il nostro agire". Allora sapremo vivere ogni giorno come un "giorno terribile" nel quale convertirci e lasciare che il perdono che ci ha raggiunti si dilati verso il fratello che pecca contro di noi. Sì, ogni giorno ci svegliamo siamo "mediocri", ma ogni giorno possiamo essere trasformati in santi perché Cristo "copre" e cancella ogni nostro peccato. Allora, alziamoci la mattina come fosse "Rosh Ha Shanah", l'alba che inaugura per noi il giudizio. Sì, cadremo ogni giorno, ma Cristo ha dato la vita per noi, e possiamo chiedere a Dio di avere misericordia di noi in quel giorno, e di aiutarci a diffonderla con la nostra vita, per giungere a sera come a "Yom Kippur", e addormentarci nella pace del Regno di Dio. E ciò si compie nella Chiesa, perché in essa i fratelli si "perdonano di cuore" perché sanno di essere tutti debitori dello stesso Padre, ma stanno sperimentando che Cristo "ha pagato per noi all'eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica" (Exultet di Pasqua). Per questo possono testimoniare al mondo la Buona Notizia del perdono dei peccati, annunciando che: "ecco, la mia infermità si è cambiata in salute! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa delle distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati" (Is 38,17).
QUI GLI APPROFONDIMENTI
L'ANNUNCIO |
In quel tempo Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?».
E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.
Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.
Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.
Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa.
Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!
Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito.
Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto.
Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato.
Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?
E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello».
Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea e andò nel territorio della Giudea, al di là del Giordano.
Allegria fratelli, oggi il Vangelo ci annuncia che il nostro debito è condonato. E' questa l'esperienza che cambia radicalmente la vita, simile a quella di un condannato a morte che, nel momento in cui si sta eseguendo la sentenza, riceve la grazia e vede aprirsi le porte della cella: la sua pena è stata cancellata, è libero e vivo.
Per il "servo", in effetti si tratta di un alto funzionario amministrativo, il dover rifondere diecimila talenti era proprio come una condanna capitale; si trattava, infatti, di una somma esorbitante, se si pensa che un talento era pari a seimila denari e che uno stipendio medio era di trenta denari: per radunare tale cifra un lavoratore dipendente avrebbe dovuto lavorare centosessantaquattromila anni! Per questo "il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito".
Per salvarsi, quel servo poteva sperare solo in un atto di clemenza del re. Infatti, "essendo caduto" recita l'originale greco, il servo comincia a "supplicare" il re, ma solo "di avere pazienza con lui perché gli avrebbe restituito ogni cosa" e non di "avere pietà e condonargli il debito", che sarebbe stata la sua unica possibilità di salvezza. E perché si infila in una promessa che non avrebbe potuto mantenere? Perché non conosceva il suo re; probabilmente qualcuno, un suo "nemico" invidioso e geloso, gli aveva parlato male di lui; e poi si sa, tra sudditi, l'immagine del re non è quasi mai buona... Per questo non ha l'audacia per chiedere l'impossibile e infilandosi in una strada senza uscita, aggiunge egli stesso una condizione che sapeva essere impossibile da rispettare: "ti restituirò ogni cosa".
Ma succede l'inimmaginabile: nonostante gli fosse stato chiesto solo del tempo, il re, sapendo che quel servo non ce l'avrebbe potuta fare, si "impietosisce", spontaneamente, e "lo lascia andare condonandogli il debito". Letteralmente, lo "scioglie" dal suo debito, lo libera completamente. Ci si aspetterebbe stupore, gioia, gratitudine, e invece nulla, quel servo non appare certo un "graziato". Infatti, "essendo uscito" dal carcere, ormai libero, si comporta come se fosse ancora un condannato "legato" al suo debito. E' impressionante, il servo sembra di marmo! Mette i brividi l'assoluta mancanza di compassione; neanche un briciolo di quella che aveva appena sperimentato nel suo "Signore". Niente, era stato graziato ma sembra che non fosse accaduto a lui. Era passato dalla morte alla vita eppure si comporta come uno ancora chiuso nel sepolcro...
Perché? Perché era ancora "legato" all'immagine distorta del re che gli impediva di "conoscere", ovvero sperimentare davvero chi egli fosse, come accade al servo di un'altra parabola che nasconde il talento sottoterra, definito "malvagio" come lui. Aveva sì sperimentato la "pietà" del Re, ma il pensiero malvagio continuava a "legalo" al debito che aveva contratto. Nonostante fosse stato "sciolto" nel suo cuore era ancora "legato" al suo passato...
Nascondendogli la misericordia ottenuta, infatti, il demonio continuava a tenerlo al guinzaglio: non è possibile che ti abbia condonato tutto. dimmi, lo hai mai visto fare da qualcuno? Se neanche tuo padre, neppure tua madre.... Si ti hanno perdonato, ma mai senza condizioni. Un debito condonato non esiste, ci deve essere un inganno sotto, attento... Copriti le spalle, è una trappola, di sicuro il re piomberà a casa tua esigendoti qualcosa... Vedrai come, appena trovi un altro lavoro e cominci a guadagnare, il padrone ti troverà e si prenderà tutto, e poi ti venderà... E così il servo, "afferrato e soffocato" da quell'immagine distorta e dal pensiero di dover ancora restituire, comincia ad "afferrare e soffocare un servo come lui".
Qui è il punto: colui che, una volta "uscito", ha "trovato" è la sua stessa immagine, proprio come se si fosse guardato in uno specchio. E' "come lui", e per questo, intimandogli "paga quel che devi!", non fa che ripetere quello che diceva a se stesso, sentendosi oppresso da un macigno che lo schiacciava, il senso di colpa che si traduceva in un dovere da compiere per difendere la vita. dalla prigione era "uscito" solo il suo corpo, il cuore e la mente erano rimasti dentro, incatenati nella menzogna e nella paura di morire. Il demonio si era messo di traverso tra lui e Dio, e stoltamente gli aveva dato ascolto. Lo scandalo per il debito gli aveva impedito di aprire gli occhi sulla misericordia di Dio. E questo si chiama orgoglio, il trionfo del demonio. Per questo, ha cominciato ad esigere più del suo padrone, credendo che agendo senza pietà avrebbe potuto restituire a un padrone che immaginava senza pietà.
Tutto nasce sempre dalla menzogna del demonio... Fratelli, il servo è l'immagine di quanti, pur nella Chiesa, non hanno ancora sperimentato il perdono di Dio; "sciolti" realmente attraverso i sacramenti, restano "legati" al loro passato perché non hanno smesso di ascoltare il demonio che continua ad ingannarli mirando alla loro disperazione. Restano "legati" a un'immagine moralistica di Dio, quella dell'autorità che hanno conosciuto, dei loro genitori o dei professori, dei superiori, dei fratelli maggiori. E così sono spinti nell'inganno moralistico di dovercela fare con i propri sforzi; quando questi si dimostrano insufficienti, allora cominciano a prendersela con i più vicini, la moglie, il marito, i figli, e poi i colleghi, gli amici; ogni "prossimo" è "imprigionato" perché paghi quello che essi stessi "devono" a Dio.
Nelle nostre relazioni in famiglia come nella comunità, accade proprio così. Come il servo "malvagio", riteniamo di aver ottenuto solo una dilazione e non l'estinzione del debito; così tutti i nostri sforzi sono nervosamente diretti a raccattare in qualsiasi modo quello che dobbiamo rendere. Ammettiamolo, non abbiamo ancora capito che solo la Grazia può salvarci, perché il debito con Dio è inestinguibile, se non a prezzo della vita, come la stessa Legge prescriveva. E non solo con la propria, ma anche con quella della moglie e dei figli. Il peccato che rompe con Dio, infatti, distrugge tutto, la famiglia, il futuro dei figli, si sparge come un'epidemia, rende schiavi e uccide. Per impedirci di credere all'annuncio della Chiesa, aprirci alla Grazia e sperimentare un perdono immeritato, il demonio punge il nostro orgoglio e ci ruba l'amore di Dio.
A messa, accostandoci alla confessione, pregando e ascoltando la Parola di Dio, abbiamo solo implorato clemenza e un po' di pazienza per restituire, mentre il Signore era lì che ci condonava tutto il debito. Il nostro ego smisurato perché gonfiato dalla superbia, non smette di illudersi; anche quando "cadiamo" il demonio ci ripete che siamo come Dio, e per questo potremo rialzarci... Sono state solo le circostanze esterne a noi a farci cadere.
Che stolti siamo. Non ci basta essere "caduti" per capire che non siamo come Dio, anzi. Dio cade per caso? Ma forse non ci basta cadere una sola volta, dobbiamo ancora fare la stessa esperienza del servo: in mano agli aguzzini, ovvero "qualcosa di peggio". Scendere ancora, "fino a quando" (è la domanda di Pietro che offre a Gesù l'occasione per raccontare questa parabola) non sperimenteremo davvero la misericordia di Dio. E' questa la chiave di questa parabola, perché la volontà di Dio non è la vendetta, ma la giustizia che si manifesta in una misericordia senza limiti. Anzi, una misericordia alla quale solo l'uomo può mettere dei limiti. Ma Dio, di prigione in prigione, ci spoglierà delle menzogne del nostro ego, sino a che, davvero a un passo dalla morte, non accoglieremo il suo amore. Non è certo Lui che ci dà in mano agli aguzzini, ma la nostra chiusura al suo amore. Eppure proprio gli aguzzini diventano lo strumento per avvicinarci a Dio... Dio non ci abbandona mai fratelli, sino all'ultimo respiro...
No, non può amarmi così, sino alla fine dei miei peccati; non può amarmi anche se commetto "settanta volte sette" lo stesso peccato. Nessuno lo ha fatto, forse qualcuno può arrivare a stento a "sette volte", quello che Pietro pensava fosse il massimo possibile... Da buon ebreo, gli sarà venuta in mente la Torah, nella quale Dio stabiliva che chiunque avesse ucciso Caino avrebbe subito la vendetta sette volte; camminando con Gesù, ascoltando la sua Parola, vedendo i suoi gesti pieni di misericordia e compassione, ha intuito che il Maestro avrebbe rovesciato la vendetta in perdono.
Ma non poteva immaginare che Gesù avrebbe dilatato all'infinito quella misericordia: dicendo che bisogna "perdonare" chi ci ha fatto del male "non solo sette, ma settanta volte sette", Gesù va oltre Caino e arriva a uno dei suoi discendenti, Lamek, che si vantava di aver ucciso un uomo per una sola scalfittura e diceva: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette”. Un parossismo vendicativo senza limiti, che Gesù capovolge in un perdono senza misura. Pietro non poteva prevedere che dicendo "settanta volte sette", Gesù stava annunciando il suo perdono; il flagello avrebbe straziato la sua carne, ad ogni sferzata miliardi e miliardi di peccati si sarebbero abbattuti su di Lui, perché, piantati sin dentro il suo intimo, li potesse portare sulla Croce e inchiodarceli, per frantumarli nel suo amore infinito. Sappiamo che per gli ebrei i numeri sono molto importanti; una parola che ha il valore numerico di quattrocentonovanta è "tanim", che significa "perfetto", "completo".
Davvero è troppo grande l'amore di Dio rivelato in Cristo; senza lo Spirito Santo, la carne e il sangue non possono credere in esso. Il servo "malvagio" è proprio l'immagine di chi è ancora chiuso allo Spirito Santo, ossia dell'uomo vecchio preda dell'orgoglio, incapace perciò di accogliere il perdono. E noi, non siamo per caso ancora assillati dal problema di sdebitarci da non vedere quanto Dio ci ami, schiavi di unità di misura che non contemplano l'infinito? Se sì, beh allora è arrivato il momento di convertirci e alzare bandiera bianca! Accettare di essere peccatori e di non avere nulla, ma proprio nulla con cui rimediare ai nostri peccati. Potremmo forse ridare quello che abbiamo tolto al fratello, per esempio il tempo di cui in quel momento preciso aveva bisogno e che abbiamo difeso gelosamente? No, non lo potremmo mai restituire.
Accettiamolo, e accettiamo che solo l'amore gratuito di Dio può salvarci: Egli, infatti, "non si arrende; Dio trova un nuovo modo per arrivare a un amore libero, irrevocabile, al frutto di tale amore... Non siamo noi che dobbiamo produrre il grande frutto; il cristianesimo non è un moralismo, non siamo noi che dobbiamo fare quanto Dio si aspetta dal mondo, ma dobbiamo innanzitutto entrare in questo mistero ontologico: Dio si dà Egli stesso. Il suo essere, il suo amare, precede il nostro agire e, nel contesto del suo Corpo, nel contesto dello stare in Lui, identificati con Lui, nobilitati con il suo Sangue, possiamo anche noi agire con Cristo" (Benedetto XVI).
La parabola di oggi allora, rispondendo alla questione posta da Pietro ma che tutti abbiamo dentro, non ci impone nulla; ci invita semplicemente ad entrare nel "mistero di Dio". Il "peccato" che "qualcuno" compie "contro di noi" è lo stesso che tu ed io abbiamo commesso e continuiamo a commettere; è questo il cuore della parabola: non si tratta di misurare i confini della pazienza e del perdono; non esistono manuali dell'esperto perdonatore cristiano. Esiste l'amore di Dio, da accogliere stupiti e semplici. Allora avremo uno sguardo diverso su noi stessi e sugli altri, e non ci servirà nessuna regola da seguire di fronte ai peccati dei fratelli, perché si tratta solo di amare nell'amore con cui siamo amati e che "precede il nostro agire".
Ma per giungere a questo occorre imparare ad aprirci umilmente alla misericordia di Dio. Come? Dove? Nella Chiesa, che è proprio il "contesto del suo Corpo, il contesto dello stare in Lui"; a contatto con Cristo fatto carne nei fratelli, ci scopriremo debitori insolventi, ma sperimenteremo contemporaneamente la sua vittoria sul nostro orgoglio. In virtù di questa potremo consegnare alla sua misericordia "settanta volte sette" la nostra incapacità di amare, con i giudizi, i rancori, le invidie, le gelosie, gli inganni, le concupiscenze.
Concretamente, ciò si realizza camminando umilmente nella Chiesa per sperimentare, giorno dopo giorno, che la nostra "preghiera" è esaudita sino in fondo, ben al di là del perdono umano. Solo nella comunità cristiana possiamo crescere nella fede attraverso il potere della Parola e dei sacramenti, per giungere a credere che davvero “Gesù è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione” (Rom 4, 25). Per te, per me, come se fossimo gli unici peccatori al mondo...
I pastori della Chiesa primitiva avevano questa consapevolezza, e non facevano moralismi, come attesta un'omelia pasquale del IV secolo: “Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la Grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell’immolazione”(Omelia pasquale dell’anno 387). Abbiamo dunque bisogno di un cammino di conversione serio e lungo come quello del catecumenato, l'iniziazione cristiana che ci insegna ad accogliere e custodire la Grazia, per non farcela rubare dal demonio "appena" perdonati, come è accaduto al servo "malvagio".
Nelle viscere materne della Chiesa potremo "riconoscere" l'opera di Dio e "divenire coscienti" che Cristo ha dato se stesso per noi, per cambiare il nostro cuore e trasformarci in figli di Dio che hanno dentro la sua vita; solo allora potremo "avere pietà del nostro fratello così come Dio ha avuto pietà di noi". Ah, ma questa è proprio la fotografia del regno di Dio scattata la parabola: è la comunità cristiana che vive in terra l'amore celeste che ha vinto il peccato e ha visto Cristo distruggere ogni barriera che divide gli uomini.
In essa i fratelli si perdonano perché sanno di essere tutti debitori dello stesso Padre, ma stanno sperimentando che Cristo "ha pagato per noi all'eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica" (Exultet di Pasqua). Per questo possono testimoniare al mondo la Buona Notizia del perdono dei peccati, annunciando che: "ecco, la mia infermità si è cambiata in salute! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa delle distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati" (Is 38,17). E non solo i nostri, ma anche quelli di ogni peccatore; per questo, nella Chiesa, siamo chiamati ad essere le primizie che incarnano questa parabola, come un segno credibile che il perdono esiste, ed è per tutti.
APPROFONDIMENTI
Commissione teologica internazionale. Alcune questioni sulla Teologia della RedenzioneSilvano del Monte Athos. L'umiltàSant’Efrem Siro. Aver pietà del nostro prossimo, così come Dio ha avuto pietà di noiBenedetto XVI. Catechesi sul peccato originale e la redenzioneJoseph Ratzinger. Sulla Redenzione. Da Introduzione al CristianesimoBenedetto XVI. Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitoriSan Tommaso d'Aquino. Sulla RedenzioneRaniero Cantalamessa: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordiaLa morte di Gesù come espiazione nella concezione paolina. Pino PulcinelliFranz Kafka. L'assoluzione nel romanzo "Il processo" (Con il Testo integrale)
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