αποφθεγμα Apoftegma
L’attualità piena di ciò che siamo
è possibile solo in vista di un’altra presenza,
di un altro essere che ha la virtù di porci in esercizio, in atto…
E come sarebbe possibile uscire da sé…
a meno di non essere irresistibilmente innamorati?
L'ANNUNCIO |
Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada».
Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, concedimi di andare a seppellire prima mio padre».
Gesù replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu và e annunzia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa».
Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Figli salvati e chiamati a seguire il Figlio sul cammino che salva e chiama ogni figlio perduto
Con il volto duro del Servo, Gesù cammina sulla strada che lo conduce alla tomba dove è precipitato il figlio prodigo. Non c'è tempo, deve tirarlo fuori da quella disperazione che può diventare, da un momento all'altro, dannazione eterna, esilio senza fine. Gesù, infatti, è il Figlio "adatto", letteralmente "ben messo" per il Paradiso, inviato dal Padre a tutti quelli che, come il figlio minore della famosa parabola, hanno abbandonato la sua casa. Ingannati dalla menzogna del demonio che li ha fatti credere "ben messi" per altre dimore, non hanno ritenuto "adatto" a loro il Regno dei Cieli; ma hanno dovuto sperimentare di "non poter reclinare il capo" in nessun luogo: le "tane" dell'astuzia e della malizia umana e i "nidi" delle sicurezze pagane e dei criteri mondani si sono rivelate dimore inospitali, trasformandosi ben presto in tombe dove i "morti" che non hanno risposte per il male, il peccato e la morte, "seppelliscono i loro morti", e quindi anche il figlio prodigo. Un pochino come accaduto a Pinocchio, finito nella pancia della balena... Ma il Padre non ha mai smesso di seguire quel suo figlio che si stava perdendo; la compassione irrefrenabile per ogni uomo che ha creato nella libertà e nella libertà si è allontanato, si è fatta carne nel Figlio Unigenito - cuore del suo cuore, occhi dei suoi occhi, mani delle sue mani, piedi dei suoi piedi - inviato a camminare sulle sue tracce per raggiungerlo con l'amore capace di farlo rientrare in se stesso. Per questo il brano del Vangelo di oggi descrive innanzitutto il cammino d'amore di Dio alla ricerca della pecora perduta, che ciascuno di noi, raggiunto e issato sulle sue spalle, è chiamato a percorrere con la Chiesa. Il discepolo, infatti, è Cristo stesso che, in ogni generazione, corre verso l'umanità schiava del peccato e della morte. Ascolta le parole del Vangelo e scoprirai di essere l'unica priorità di Gesù; per salvarti non ha ritenuto il suo essere Figlio di Dio, una preda gelosa da difendere, ma si è svuotato di tutto sino a reclinare il capo sulla stessa Croce dove, tuo malgrado, la storia ti ha inchiodato. Nel Getsemani ha preferito te a se stesso, il calice amaro dei tuoi peccati piuttosto che la coppa dolce dell'intimità con il Padre; si è lasciato seppellire nella tomba dove i falsi profeti a cui hai dato ascolto ti hanno tumulato.
La vita di Gesù è stata dunque il cammino deciso e senza compromessi dell'amore infinito del Padre per ogni figlio perduto e morto; l'amore deposto accanto a ciascuno di loro, a te e a me, per farci convertire, tornare cioè in quella parte di noi incorrotta dove la misericordia desta la nostalgia per l'unica casa per la quale siamo "adatti". In questa luce comprendiamo allora come le tre persone che appaiono oggi accanto a Gesù lungo la strada, sono in fondo l'unico figlio raggiunto su quella via e salvato dalla morte. Ovvi allora l'entusiasmo e la gratitudine che generano il desiderio di seguire il Signore, di stare "appiccicati" a Lui. Ma questo desiderio ha bisogno di purificazione, come quello di Pietro che, sedotto da Gesù, si era detto pronto a morire con Lui. No fratelli, è Lui che ci chiama a seguirlo perché ogni giorno scende nella nostra realtà dove non abbiamo da mangiare neanche il cibo dei porci, seppelliti nelle tane fetide dei peccati dai maestri e dagli idoli "morti" di questo mondo. Seguire Gesù è, infatti, uscire ogni giorno dietro a Lui dal sepolcro, imparando a non guardare a noi stessi e al nostro passato, illudendoci di poter "congedarci" in modo soft da persone e cose. Il discepolo è l'uomo della Pasqua, non può che nutrirsi del pane della fretta, non ha luogo dove riposare; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù con un popolo che mostrerà al mondo il destino di libertà preparato per ogni uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, non ha tempo per guardarsi indietro come fece la moglie di Lot: con Cristo si risuscita e basta, senza guardare Sodoma che ci ha distrutto la vita. Dagli i tuoi peccati, come disse Gesù a San Girolamo, senza tenerne neanche uno per te; diventerebbe un seme di nostalgia che ti spingerebbe a guardare al passato con rammarico per la morte lasciata alle spalle, e resteresti pietrificato in una statua di sale, a mezza strada tra sepolcro e resurrezione. Gesù ci ha raggiunti e, come Elia con Eliseo, ha steso il lembo del suo mantello di misericordia che ha dissolto le opere morte per rivestirci di se stesso. Anche oggi Gesù viene a liberarci, e proprio questo fa di noi i suoi discepoli: la nostra missione, infatti, è fondata sul suo amore gratuito, e si realizza seguendo il Signore sul cammino di conversione che ci riporta a casa. Questa via è, nello stesso tempo, quella che ci conduce a coloro ai quali siamo inviati, a casa, al lavoro, ovunque. La nostra conversione - ovvero il nostro seguire Gesù - fa dell'altro e della sua salvezza la nostra priorità, ci libera dalle sicurezze e dai ricorsi mondani, per reclinare con Lui il nostro capo sulla Croce che ci fa tutto a tutti, la croce di tuo figlio..., per annunciare la Buona Notizia del Regno di Dio preparato per ogni uomo.
QUI UN ALTRO COMMENTO E GLI APPROFONDIMENTI
Seguire significa innanzi tutto consegnare la propria vita ad un altro. Nello scalare una montagna è fondamentale avere fiducia del capocordata. Chi segue rinuncia ad aprire il cammino, a decidere strategie e rotte, a prendere iniziative: si fida e segue le orme. Come una pecora segue il suo pastore. Seguire è guardare le spalle di chi precede. Viene alla mente la celebre teofania del Sinai, nella quale a Mosè la visione di Dio è limitata alle sue spalle. Il Signore lo farà nascondere nella fenditura di una Roccia e lo coprirà con la sua mano per proteggerlo dalla sua stessa potenza. "Nella figura di Mosè era significato sia il mistero di Cristo, sia il cammino dei suoi discepoli... perciò a tutti noi, seguaci di Cristo. E' questa, fondamentalmente, l'interpretazione di Es 33 presso i Padri; varia tuttavia nei particolari, in specie per il difficile riferimento alla visione delle "spalle di Dio", allo stare nella fenditura della roccia, alle mani di Dio che ci ricoprono. Personalmente, sono sempre attratto dall'interpretazione che ne dà Gregorio di Nissa. Che cosa significa poter vedere Dio soltanto di spalle - scrive il Nisseno - se non che ci è possibile incontrare Dio esclusivamente camminando dietro a Gesù; perciò solamente attraverso la sequela, che è un procedere sulle orme di Gesù, quindi alle spalle di Dio? [Questo] significa fare di tutta la nostra esistenza un cammino verso il Dio vivente, nella sequela di Gesù Cristo, il quale ci addita la sua strada, che è l'itinerario del mistero pasquale di passione e morte, di risurrezione e ascensione" (Benedetto XVI, In cammino verso Gesù). Seguire Gesù è così, per ogni discepolo e per ciascuno di noi, fissare le sue spalle, quelle che hanno caricato la Croce, la sua, che è la nostra. In essa e solo in essa è possibile la sequela: "chi non prende la propria croce ogni giorno e mi segue non può essere mio discepolo".
Seguire Gesù è affidargli la propria vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, lasciare che sia Lui a condurre la nostra storia, rinunciare a se stessi per vivere la sua vita. Ma questo è possibile solo se si ama. Chi ama segue, non importa dove, non importa come. Seguire è sempre coniugazione di amare. Le parole di Gesù costituiscono un'illuminazione e una liberazione: non si è cristiani, non si segue il Signore, non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, seppure sublime e santo. E' una questione di amore.
Ma nessuno decide se, quando e dove innamorarsi. Nelle forme più diverse è qualcosa che accade, ed il cuore è rapito, e ci si trova attirati da un altro, il peso della propria vita emigra dall'ego e trova dimora nell'oggetto del proprio amore. Scriveva la grande filosofa Maria Zambrano: "L’azione dell’amore, il suo carattere di agente divino nell’uomo, si riconosce soprattutto da quell’affinamento dell’essere che lo patisce e lo sopporta. E anche da uno spostamento del centro di gravità dell’uomo. Perché essere uomini significa essere stabili, significa pesare, pesare su qualcosa. L’amore provoca non la diminuzione bensì la scomparsa di quella gravità… Il centro di gravità della persona si è trasferito alla prima persona amata e, nel momento in cui la passione svanisce, resterà quel movimento, il più difficile, dello stare “fuori di sé”… Vivere fuori di sé per vivere oltre se stessi. Vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente» (L’uomo e il Divino, p. 252). A meno di nevrosi e patologie, a dire il vero purtroppo frequenti, l'autentico innamoramento racchiude i geni dell'amore adulto: lo slancio che spinge ad uscire da se stessi è la caratteristica inconfondibile che, giunta a maturità, conduce ad offrire tutta la vita per la persona amata. "Non vi è amore più grande che dare la vita per i propri amici" dirà Gesù. Chi ama di amore autentico non vive più per se stesso. Se poi l'Altro per il quale vivere è Cristo che, quando eravamo ancora peccatori, ci ha amato gratuitamente consegnando se stesso per noi, possiamo comprendere la radicalità del testo odierno. Scriveva Dante in un verso del Paradiso, «Già non attendere’ io tua dimanda,/ s’io m’intuassi, come tu t’immii» (IX,80-81); don Giussani lo commentava così: «Una frase potente, strapotente, tutta quanta nata dalla frase di san Paolo: “Vivo, non io; sei Tu che vivi in me”. Questa è la grande norma… “intuarci”, renderci “tu”, così come Egli è diventato nostro, come Egli è diventato uomo, è diventato te, perché chiamandoti è diventato te… Tu accetti e desideri di amarlo: da’ te stesso per lui» (Le mie letture). E' la radicalità di un amore radicale, che scaturisce dall'amore sino alla fine, dalla morte per amore, origine paradossale di una vita liberata dal proprio ego e offerta in un'agape senza condizioni. Solo un amore che si fa morte può generare un amore che dà la vita.
Nel Cantico dei Cantici "si trovano due parole diverse per indicare l'«amore»: «dodim » — un plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola «ahabà», che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono «agape» che diventò l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca. Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — «solo quest'unica persona» — e nel senso del «per sempre». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è «estasi», ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà», dice Gesù. Con ciò Egli descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere" (Benedetto XVI, Deus Caritas Est, n.6).
La sequela di Gesù è dunque un'estasi, un esodo d'amore alla ricerca della libertà, esattamente come fu per il Popolo d'Israele. Per comprendere le tre sentenze di Gesù occorre risalire al contesto dell'Esodo, alla Pasqua e al cammino nel deserto. In ogni evento si scorge l'amore infinito di Dio. Nessun merito per Israele, nessun requisito se non quello di essere il Popolo più insignificante della terra: "Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto" (Dt. 7, 7-8). E i quarant'anni passati nel deserto, tempo di innamoramento e alleanza, di conoscenza di se stesso e del proprio cuore, nell'esperienza di un amore più forte di qualsiasi peccato: "Quando Israele era giovinetto,io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me;immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare... Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Zeboim? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira. Seguiranno il Signore ed egli ruggirà come un leone: quando ruggirà, accorreranno i suoi figli dall'occidente, accorreranno come uccelli dall'Egitto, come colombe dall'Assiria e li farò abitare nelle loro case. Oracolo del Signore" (Os 11,1-11). L'estasi del discepolo è la stessa di Israele, un cammino nel quale conoscere l'amore di Dio ed imparare ad amare, a seguire il Leone di Giuda, sino al suo mistero di morte e resurrezione, la Pasqua della nuova ed eterna alleanza. Si comprende allora l'urgenza espressa dalle parole di Gesù: il discepolo è l'uomo della Pasqua, non può che nutrirsi del pane della fretta, non ha luogo dove riposare, non ha tempo per prendere bagaglio con sé; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù, è chiamato con un Popolo che mostrerà al mondo il Destino di libertà, la Terra Promessa preparata per ciascun uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi. Gli Egiziani, le relazioni morbose, idolatriche, carnali, le seppellirà Dio affogandole nel mare, e gli Ebrei, quel passato di schiavitù, non lo rivedranno mai più... Il discepolo, dimentico del passato e proteso verso il futuro, è chiamato a correre per raggiungere il premio, il riposo, la corona che lo attende nel Cielo in Cristo Gesù. Un discepolo cammina dunque nell'amore, seguendo le orme di Cristo, spesso invisibili e tracciate sul mare, per compiere le opere predisposte per lui.
Il discepolo di Gesù è un innamorato, immerso in un amore che lo ha raggiunto senza vedersi porre condizioni, laddove egli si trovava, come Matteo, come Zaccheo, senza il tempo di riordinare, di farsi belli, piacevoli, attraenti. Come Israele, sposa infedele raggiunta, amata e perdonata dal Signore: "Tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti un sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita... Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia. Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio; ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di seta; ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo; misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo" (Ez. 16, 3 ss).
Un discepolo reca inciso nel suo DNA questa stessa esperienza di Israele, l'incontro con Cristo che ha steso il lembo del suo mantello per rivestire di se stesso e della sua dignità la nudità della colpa antica. Non a caso nel testo odierno si ravvisa l'eco dell'episodio nel quale Elia, gettando il proprio mantello su Eliseo, lo chiama a suo servizio: "Disse il Signore ad Elia: «Ungerai Eliseo figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto». Partito di lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il decimosecondo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va' e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare ne fece cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio" (1 Re 19, 16b. 19-21). Nell’Antico Testamento il mantello era figura di un regno, ma anche ciò che trasmette lo spirito profetico, come accade nella vicenda di Elia ed Eliseo. Inoltre il mantello è figura della persona stessa. In 2 Re 9,12s rappresenta le persone che si sottomettono a Ieu, mettendo a disposizione la propria vita. Nell’entrata in Gerusalemme la folla si sottomette a Gesù deponendo i propri mantelli al suo passaggio. Quando Gesù si toglie il mantello prima della lavanda dei piedi per rimetterselo alla fine, profetizza l’offerta della sua persona e il ritorno alla vita. Gettandogli addosso il mantello, Elia investe Eliseo della propria missione. Elia getta il mantello e non si ferma nemmeno, a sottolineare l'urgenza della sequela. Eliseo, dopo un attimo di incertezza, risponde prontamente e sacrifica i due buoi e l'aratro: la sua vita è ormai offerta, consegnata, fatta sacra (sacri-ficata), messa da parte per Elia. Quel mantello aveva fatto di Eliseo un altro Elia.
Ma se seguire non è altro che una coniugazione dell'amare, il rapporto tra discepolo e Gesù non può essere che quello sponsale. La Bibbia in fondo è una lunga inclusione tra due scene nuziali, quella della Genesi e quella dell'Apocalisse. Un discepolo segue l'amato come appare nel Cantico dei Cantici, e in moltissime altre pagine della Scrittura. E' l'amore la sorgente di ogni chiamata, l'amore che crea qualcosa di assolutamente nuovo, lo stesso che "dei due fa una cosa sola". Il mistero grande di Cristo che offre la sua vita e, in virtù di questo, fa sua sposa per sempre la Chiesa, ed in essa, ciascun discepolo, ciascuno di noi. Nell'immagine sponsale si riassume tutto quanto affermato sino ad ora. E si comprende perchè gli unici ostacoli frapposti dai due personaggi che appaiono nel Vangelo siano proprio legati alle relazioni con la propria famiglia di origine. L'urgenza della missione esige una nuova appartenenza, come un sacramento del quale quello sponsale è l'immagine più appropriata; ogni vocazione infatti è un sacramento, una Parola di Dio che crea una novità celeste nella carne e nella storia degli uomini. Così il matrimonio, il presbiterato, la vita religiosa, la vita missionaria e itinerante, tutto scaturisce dalla stessa Parola creatrice, e non è mai frutto del volere umano. Infatti solo nell'opera creatrice di Dio volta a formare una nuova cosa sola, un uomo e una donna lasceranno suo padre e sua madre. Risiede in questa parola del libro della Genesi l'autorità radicale e scandalizzante di Gesù. Lasciare i morti seppellire i propri morti, non voltarsi indietro per congedarsi dai propri familiari, è qualcosa che, ad una prima lettura, stride con tutto l'insegnamento di Gesù. Ma queste parole esprimono la serietà e l'esigenza della nuova appartenenza. Non si possono fare compromessi, l'amore non li contempla. Non si può seguire Cristo rimanendo con cuore, mente e carne nella propria casa, luogo dove reclinare il capo... Così come chi, pur sposandosi, non abbandona mai la propria casa di origine, e cerca di farne una replica in quella che condivide con il coniuge. Chiamati in un amore infinito, non possiamo ridisegnare la sequela secondo i criteri e i valori appresi nella carne, della quale i genitori sono immagine. Non si tratta di guardare e ritornare indietro, magari con qualche seduta di analisi, e cercare di seppellire dignitosamente i frammenti dispersi della nostra storia, di riordinare per sentirsi a posto con il passato e la coscienza, e infine ritrovarsi una statua di sale. E' il suo amore che, toccando oggi, e domani, e ogni giorno la nostra vita, seppellisce le nostre opere morte per farci creature nuove. Seguire Cristo è come lanciarsi in un'avventura di cui non si conosce nulla, se non l'amore che ci ha raggiunti, salvati e liberati. Un amore infinito presuppone spazi, prospettive, esiti senza limiti.
Essere discepolo è libertà. A questa siamo chiamati, carne della carne di Cristo, ossa delle sue ossa. In Lui e solo in Lui possiamo trovare il compimento di ogni nostro desiderio, l'autentica compagnia che ci strappa alla maledizione della solitudine. Lui passa anche oggi, ci ama, getta il suo mantello a coprirci e a farci suoi. Ci attira e seduce per parlare al nostro cuore, per perdonarci e rialzarci. Il suo amore è già un dardo che punta il nostro cuore per accendervi quell'amore a Lui, a noi stessi, ad ogni uomo, che solo può dar senso alla nostra vita. Non importano assolutamente la nostra debolezza, l'inadeguatezza, l'indegnità. Non importano i peccati. Importa solo il suo amore, il suo sguardo, l'unico, capace di farci innamorare. Basta essere laddove siamo, e non chiudere gli occhi del cuore. Per scoprire che l'autentica sequela, il seguire il Signore, non è altro che essere cercati, ritrovati, amati e caricati sulle spalle dal Buon Pastore, e imparare, ogni giorno, a posare lo sguardo esattamente dove lo posa Lui, perchè "amarsi non vuol dire guardarsi l'un l'altro, ma guardare insieme nella stessa direzione" (Antoine de Saint-Exupéry). Pecore ogni giorno smarrite e ogni giorno ritrovate, i discepoli, forse senza neanche rendersene conto, seguono Gesù solo perchè caricati e stretti sulle sue spalle.
"Una cosa era certa: Dio, ella lo sapeva, aveva stretto un patto con lei, un patto d'amore col quale la legava a sé in eterno, indipendentemente dalla sua volontà, dai suoi pensieri terreni, questo amore era esistito sempre in lei, aveva agito come il sole sulla terra che dà alla fine i suoi frutti. Questi frutti nessuno avrebbe potuto distruggerli, né il fuoco dei desideri carnali, né l'orgoglio, né l'ira folle. Era stata serva di Dio, anche se ribelle, restia, infedele nel cuore, con una preghiera falsa sulle labbra; una serva maldestra, insofferente davanti alla fatica, indecisa, ma Dio aveva voluto mantenerla lo stesso al suo servizio". (S. Undset, Kristin figlia di Lavrans).
Seguire Gesù è affidargli la propria vita sul concreto legno della Croce che ci accompagna ogni giorno, lasciare che sia Lui a condurre la nostra storia, rinunciare a se stessi per vivere la sua vita. Ma questo è possibile solo se si ama. Chi ama segue, non importa dove, non importa come. Seguire è sempre coniugazione di amare. Le parole di Gesù costituiscono un'illuminazione e una liberazione: non si è cristiani, non si segue il Signore, non si è discepoli in virtù di una propria scelta, neanche di un desiderio, seppure sublime e santo. E' una questione di amore.
Ma nessuno decide se, quando e dove innamorarsi. Nelle forme più diverse è qualcosa che accade, ed il cuore è rapito, e ci si trova attirati da un altro, il peso della propria vita emigra dall'ego e trova dimora nell'oggetto del proprio amore. Scriveva la grande filosofa Maria Zambrano: "L’azione dell’amore, il suo carattere di agente divino nell’uomo, si riconosce soprattutto da quell’affinamento dell’essere che lo patisce e lo sopporta. E anche da uno spostamento del centro di gravità dell’uomo. Perché essere uomini significa essere stabili, significa pesare, pesare su qualcosa. L’amore provoca non la diminuzione bensì la scomparsa di quella gravità… Il centro di gravità della persona si è trasferito alla prima persona amata e, nel momento in cui la passione svanisce, resterà quel movimento, il più difficile, dello stare “fuori di sé”… Vivere fuori di sé per vivere oltre se stessi. Vivere disposti al volo, pronti a qualunque partenza. È il futuro inimmaginabile, l’irraggiungibile futuro di quella promessa di vita vera che l’amore insinua in chi lo sente» (L’uomo e il Divino, p. 252). A meno di nevrosi e patologie, a dire il vero purtroppo frequenti, l'autentico innamoramento racchiude i geni dell'amore adulto: lo slancio che spinge ad uscire da se stessi è la caratteristica inconfondibile che, giunta a maturità, conduce ad offrire tutta la vita per la persona amata. "Non vi è amore più grande che dare la vita per i propri amici" dirà Gesù. Chi ama di amore autentico non vive più per se stesso. Se poi l'Altro per il quale vivere è Cristo che, quando eravamo ancora peccatori, ci ha amato gratuitamente consegnando se stesso per noi, possiamo comprendere la radicalità del testo odierno. Scriveva Dante in un verso del Paradiso, «Già non attendere’ io tua dimanda,/ s’io m’intuassi, come tu t’immii» (IX,80-81); don Giussani lo commentava così: «Una frase potente, strapotente, tutta quanta nata dalla frase di san Paolo: “Vivo, non io; sei Tu che vivi in me”. Questa è la grande norma… “intuarci”, renderci “tu”, così come Egli è diventato nostro, come Egli è diventato uomo, è diventato te, perché chiamandoti è diventato te… Tu accetti e desideri di amarlo: da’ te stesso per lui» (Le mie letture). E' la radicalità di un amore radicale, che scaturisce dall'amore sino alla fine, dalla morte per amore, origine paradossale di una vita liberata dal proprio ego e offerta in un'agape senza condizioni. Solo un amore che si fa morte può generare un amore che dà la vita.
Nel Cantico dei Cantici "si trovano due parole diverse per indicare l'«amore»: «dodim » — un plurale che esprime l'amore ancora insicuro, in una situazione di ricerca indeterminata. Questa parola viene poi sostituita dalla parola «ahabà», che nella traduzione greca dell'Antico Testamento è resa col termine di simile suono «agape» che diventò l'espressione caratteristica per la concezione biblica dell'amore. In opposizione all'amore indeterminato e ancora in ricerca, questo vocabolo esprime l'esperienza dell'amore che diventa ora veramente scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebbrezza della felicità; cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca. Fa parte degli sviluppi dell'amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell'esclusività — «solo quest'unica persona» — e nel senso del «per sempre». L'amore comprende la totalità dell'esistenza in ogni sua dimensione, anche in quella del tempo. Non potrebbe essere diversamente, perché la sua promessa mira al definitivo: l'amore mira all'eternità. Sì, amore è «estasi», ma estasi non nel senso di un momento di ebbrezza, ma estasi come cammino, come esodo permanente dall'io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà», dice Gesù. Con ciò Egli descrive il suo personale cammino, che attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto. Partendo dal centro del suo sacrificio personale e dell'amore che in esso giunge al suo compimento, egli con queste parole descrive anche l'essenza dell'amore e dell'esistenza umana in genere" (Benedetto XVI, Deus Caritas Est, n.6).
La sequela di Gesù è dunque un'estasi, un esodo d'amore alla ricerca della libertà, esattamente come fu per il Popolo d'Israele. Per comprendere le tre sentenze di Gesù occorre risalire al contesto dell'Esodo, alla Pasqua e al cammino nel deserto. In ogni evento si scorge l'amore infinito di Dio. Nessun merito per Israele, nessun requisito se non quello di essere il Popolo più insignificante della terra: "Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto" (Dt. 7, 7-8). E i quarant'anni passati nel deserto, tempo di innamoramento e alleanza, di conoscenza di se stesso e del proprio cuore, nell'esperienza di un amore più forte di qualsiasi peccato: "Quando Israele era giovinetto,io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me;immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare... Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Zeboim? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira. Seguiranno il Signore ed egli ruggirà come un leone: quando ruggirà, accorreranno i suoi figli dall'occidente, accorreranno come uccelli dall'Egitto, come colombe dall'Assiria e li farò abitare nelle loro case. Oracolo del Signore" (Os 11,1-11). L'estasi del discepolo è la stessa di Israele, un cammino nel quale conoscere l'amore di Dio ed imparare ad amare, a seguire il Leone di Giuda, sino al suo mistero di morte e resurrezione, la Pasqua della nuova ed eterna alleanza. Si comprende allora l'urgenza espressa dalle parole di Gesù: il discepolo è l'uomo della Pasqua, non può che nutrirsi del pane della fretta, non ha luogo dove riposare, non ha tempo per prendere bagaglio con sé; è attratto in un esodo che lo strappa alla schiavitù, è chiamato con un Popolo che mostrerà al mondo il Destino di libertà, la Terra Promessa preparata per ciascun uomo. Per questo si lascia alle spalle gli Egiziani, non ha tempo per guardarsi indietro e salutare e seppellire il passato di catene e schiavitù, i legami di carne destinati a corrompersi. Gli Egiziani, le relazioni morbose, idolatriche, carnali, le seppellirà Dio affogandole nel mare, e gli Ebrei, quel passato di schiavitù, non lo rivedranno mai più... Il discepolo, dimentico del passato e proteso verso il futuro, è chiamato a correre per raggiungere il premio, il riposo, la corona che lo attende nel Cielo in Cristo Gesù. Un discepolo cammina dunque nell'amore, seguendo le orme di Cristo, spesso invisibili e tracciate sul mare, per compiere le opere predisposte per lui.
Il discepolo di Gesù è un innamorato, immerso in un amore che lo ha raggiunto senza vedersi porre condizioni, laddove egli si trovava, come Matteo, come Zaccheo, senza il tempo di riordinare, di farsi belli, piacevoli, attraenti. Come Israele, sposa infedele raggiunta, amata e perdonata dal Signore: "Tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti un sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita... Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia. Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio; ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di seta; ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo; misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo" (Ez. 16, 3 ss).
Un discepolo reca inciso nel suo DNA questa stessa esperienza di Israele, l'incontro con Cristo che ha steso il lembo del suo mantello per rivestire di se stesso e della sua dignità la nudità della colpa antica. Non a caso nel testo odierno si ravvisa l'eco dell'episodio nel quale Elia, gettando il proprio mantello su Eliseo, lo chiama a suo servizio: "Disse il Signore ad Elia: «Ungerai Eliseo figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto». Partito di lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il decimosecondo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elia disse: «Va' e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare ne fece cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio" (1 Re 19, 16b. 19-21). Nell’Antico Testamento il mantello era figura di un regno, ma anche ciò che trasmette lo spirito profetico, come accade nella vicenda di Elia ed Eliseo. Inoltre il mantello è figura della persona stessa. In 2 Re 9,12s rappresenta le persone che si sottomettono a Ieu, mettendo a disposizione la propria vita. Nell’entrata in Gerusalemme la folla si sottomette a Gesù deponendo i propri mantelli al suo passaggio. Quando Gesù si toglie il mantello prima della lavanda dei piedi per rimetterselo alla fine, profetizza l’offerta della sua persona e il ritorno alla vita. Gettandogli addosso il mantello, Elia investe Eliseo della propria missione. Elia getta il mantello e non si ferma nemmeno, a sottolineare l'urgenza della sequela. Eliseo, dopo un attimo di incertezza, risponde prontamente e sacrifica i due buoi e l'aratro: la sua vita è ormai offerta, consegnata, fatta sacra (sacri-ficata), messa da parte per Elia. Quel mantello aveva fatto di Eliseo un altro Elia.
Ma se seguire non è altro che una coniugazione dell'amare, il rapporto tra discepolo e Gesù non può essere che quello sponsale. La Bibbia in fondo è una lunga inclusione tra due scene nuziali, quella della Genesi e quella dell'Apocalisse. Un discepolo segue l'amato come appare nel Cantico dei Cantici, e in moltissime altre pagine della Scrittura. E' l'amore la sorgente di ogni chiamata, l'amore che crea qualcosa di assolutamente nuovo, lo stesso che "dei due fa una cosa sola". Il mistero grande di Cristo che offre la sua vita e, in virtù di questo, fa sua sposa per sempre la Chiesa, ed in essa, ciascun discepolo, ciascuno di noi. Nell'immagine sponsale si riassume tutto quanto affermato sino ad ora. E si comprende perchè gli unici ostacoli frapposti dai due personaggi che appaiono nel Vangelo siano proprio legati alle relazioni con la propria famiglia di origine. L'urgenza della missione esige una nuova appartenenza, come un sacramento del quale quello sponsale è l'immagine più appropriata; ogni vocazione infatti è un sacramento, una Parola di Dio che crea una novità celeste nella carne e nella storia degli uomini. Così il matrimonio, il presbiterato, la vita religiosa, la vita missionaria e itinerante, tutto scaturisce dalla stessa Parola creatrice, e non è mai frutto del volere umano. Infatti solo nell'opera creatrice di Dio volta a formare una nuova cosa sola, un uomo e una donna lasceranno suo padre e sua madre. Risiede in questa parola del libro della Genesi l'autorità radicale e scandalizzante di Gesù. Lasciare i morti seppellire i propri morti, non voltarsi indietro per congedarsi dai propri familiari, è qualcosa che, ad una prima lettura, stride con tutto l'insegnamento di Gesù. Ma queste parole esprimono la serietà e l'esigenza della nuova appartenenza. Non si possono fare compromessi, l'amore non li contempla. Non si può seguire Cristo rimanendo con cuore, mente e carne nella propria casa, luogo dove reclinare il capo... Così come chi, pur sposandosi, non abbandona mai la propria casa di origine, e cerca di farne una replica in quella che condivide con il coniuge. Chiamati in un amore infinito, non possiamo ridisegnare la sequela secondo i criteri e i valori appresi nella carne, della quale i genitori sono immagine. Non si tratta di guardare e ritornare indietro, magari con qualche seduta di analisi, e cercare di seppellire dignitosamente i frammenti dispersi della nostra storia, di riordinare per sentirsi a posto con il passato e la coscienza, e infine ritrovarsi una statua di sale. E' il suo amore che, toccando oggi, e domani, e ogni giorno la nostra vita, seppellisce le nostre opere morte per farci creature nuove. Seguire Cristo è come lanciarsi in un'avventura di cui non si conosce nulla, se non l'amore che ci ha raggiunti, salvati e liberati. Un amore infinito presuppone spazi, prospettive, esiti senza limiti.
Essere discepolo è libertà. A questa siamo chiamati, carne della carne di Cristo, ossa delle sue ossa. In Lui e solo in Lui possiamo trovare il compimento di ogni nostro desiderio, l'autentica compagnia che ci strappa alla maledizione della solitudine. Lui passa anche oggi, ci ama, getta il suo mantello a coprirci e a farci suoi. Ci attira e seduce per parlare al nostro cuore, per perdonarci e rialzarci. Il suo amore è già un dardo che punta il nostro cuore per accendervi quell'amore a Lui, a noi stessi, ad ogni uomo, che solo può dar senso alla nostra vita. Non importano assolutamente la nostra debolezza, l'inadeguatezza, l'indegnità. Non importano i peccati. Importa solo il suo amore, il suo sguardo, l'unico, capace di farci innamorare. Basta essere laddove siamo, e non chiudere gli occhi del cuore. Per scoprire che l'autentica sequela, il seguire il Signore, non è altro che essere cercati, ritrovati, amati e caricati sulle spalle dal Buon Pastore, e imparare, ogni giorno, a posare lo sguardo esattamente dove lo posa Lui, perchè "amarsi non vuol dire guardarsi l'un l'altro, ma guardare insieme nella stessa direzione" (Antoine de Saint-Exupéry). Pecore ogni giorno smarrite e ogni giorno ritrovate, i discepoli, forse senza neanche rendersene conto, seguono Gesù solo perchè caricati e stretti sulle sue spalle.
"Una cosa era certa: Dio, ella lo sapeva, aveva stretto un patto con lei, un patto d'amore col quale la legava a sé in eterno, indipendentemente dalla sua volontà, dai suoi pensieri terreni, questo amore era esistito sempre in lei, aveva agito come il sole sulla terra che dà alla fine i suoi frutti. Questi frutti nessuno avrebbe potuto distruggerli, né il fuoco dei desideri carnali, né l'orgoglio, né l'ira folle. Era stata serva di Dio, anche se ribelle, restia, infedele nel cuore, con una preghiera falsa sulle labbra; una serva maldestra, insofferente davanti alla fatica, indecisa, ma Dio aveva voluto mantenerla lo stesso al suo servizio". (S. Undset, Kristin figlia di Lavrans).
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