Venerdì della XXXI settimana del Tempo Ordinario





αποφθεγμα Apoftegma

"Rimetti a noi i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori".
Ogni colpa tra uomini comporta in qualche modo
un ferimento della verità e dell’amore
e si oppone così a quel Dio che è la Verità e l’Amore.
Il superamento della colpa
è una questione centrale di ogni esistenza umana;
la storia delle religioni gira intorno a tale questione.
Colpa chiama ritorsione;
si forma così una catena di indebitamenti,
in cui il male della colpa di continuo
e diventa sempre più difficile sfuggirvi.
Il Signore con questa domanda ci dice:
la colpa può essere superata solo attraverso il perdono,
non attraverso la ritorsione.

J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Vol. I.





L'ANNUNCIO
Dal Vangelo secondo Luca 16,1-8.

Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua.
Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.



Ma che Giustizia è mai questa?


«Che cos'è questo che sento dire di te?». Le voci dei fratelli ci «accusano» di aver «sperperato» e sottratto loro gli «averi» del Signore. Ad essi, infatti, spettava l’amore che Dio ci ha dato in «amministrazione». Invece di gestire con generosità i frutti del suo «giardino», abbiamo allungato la mano avidamente cercando di diventare ricchi come il padrone. Per questo «non possiamo più essere amministratori», «allontanati» da Lui e dai suoi averi. Ma imprevedibilmente, proprio quando dobbiamo «rendere conto», si schiude per noi la porta della conversione, quando ci accorgiamo che senza le «sostanze» di Dio da amministrare siamo nulla, incapaci di qualsiasi cosa. «Non abbiamo forze» per «zappare» un terreno che non darà mai il raccolto d’amore che solo Dio può concedere. Spogliati della nostra identità, ci «vergogniamo di mendicare» la dignità che solo Dio può donarci. Non abbiamo che una possibilità, ripartire da dove abbiamo fallito, dagli «averi» del Signore. Essendone stati amministratori ne abbiamo intuito l’immensa entità; nessuno ci «accuserà» se stavolta sapremo sottrarne qualcosa con la «scaltrezza» del mondo. I «figli della luce» si illudono di poter amministrare con giustizia, ma non tengono conto delle insidie della carne che possono trasformarli in «amministratori di ingiustizia». Accanto alla «semplicità delle colombe» occorre «l’astuzia dei serpenti», la «scaltrezza» «lodata» sorprendentemente da Dio. 
Perché i denari non cadano nelle nostre avide tasche ma siano fecondi per tutti, essa ci insegna a fare come i «figli di questo mondo» usi ai favori illegali e interessati perché «i loro pari» contraccambino nel bisogno: ad essere generosi con i denari altrui, a disporre con magnanimità dei tesori di misericordia di Dio per riscattare noi stessi salvando anche gli altri. Non abbiamo molto tempo, restano i giorni che ci saranno concessi. La nostra missione coincide con la nostra conversione: confidare nella «ricchezza» del Signore e con le parole e i gesti aprire audacemente i suoi forzieri perché giunga ad ogni uomo il condono del proprio debito. Vivere nel miracolo della misericordia, possibile solo perché il Figlio ha coperto ogni ammanco: ci ha fatti suoi «amici» «chiamandoci a sedere» alla mensa del suo corpo e del suo sangue con i quali ha cancellato il nostro debito; risorgendo, ha preparato per noi una «casa» dove accoglierci tutti per l’eternità. Sì, ci ha scelti sapendo che siamo amministratori disonesti. Tutti! Ed è il grande mistero dell'elezione, di Davide e di ogni apostolo, che ha tradito spudoratamente. Ma proprio in questa parabola risplende il segreto di ogni vocazione, di presbitero, di vergine consacrata, di sposo e padre, di sposa e madre: innanzitutto accettare di essere deboli e inadatti alla missione; assumere umilmente la verità, che non potremo mai rifondere il debito delle nostre infedeltà, che, cioè, non saremo noi a riparare agli errori. Ma l'importante è essere sapienti, "scaltri" come lo sono quelli del mondo con le loro cose; e approfittare a mani basse della Grazia per rimettere i debiti di coloro che ci sono affidati. Non siamo noi il centro della missione, ma i tesori di misericordia di Dio. Con essi possiamo farci amici per il cielo, raggiungere ogni uomo per offrirgli la stessa nostra esperienza. 






Il cuore di Dio è un abisso di misericordia che sconvolge ogni schema. Il suo amore è infinito. Chi ha posto la propria tenda - la vita tutta intera - nel fondo di questo abisso, ascolta questo Vangelo ed esulta. Poveri amministratori disonesti, abbiamo una sola possibilità: approfittare audacemente dell'amore di Dio. Fare nostri i suoi tesori di misericordia e dispensarli. Appropriarci delle sue sostanze per riscattare i nostri peccati, le nostre infedeltà d'ogni giorno. E farci amici per il Regno dei Cieli: amare, perdonare, cancellare ogni debito. Come quotidianamente Dio fa con ciascuno di noi.

Chi conosce per esperienza il cuore di Dio, sa che può approfittare di lui, subentrare nel  lavoro di suo Figlio, e ricevere, paradossalmente, quanto non ha seminato. Il Signore ha gettato la propria vita come un seme, senza riserve: ha offerto misericordia, il frutto della Croce, la linfa, la sostanza della sua esistenza; così possiamo accostarci con fiducia e raccoglierne a piene mani per esserne ricolmi al punto di beneficare chiunque si avvicini a noi. Sì, possiamo oggi distribuire le sostanze dell' "uomo ricco", il nostro Signore Gesù, che le fa nostre senza alcun nostro merito. E' la nostra unica possibilità. Possiamo oggi rendere conto delle nostre ingiustizie: ci siamo impossessati dei beni che ci sono stati dati, gratuitamente, in amministrazione; possiamo renderli addirittura moltiplicati,  convertendoci, ripensando il nostro operare e riconducendo la vita alla Grazia, lasciandoci giustificare

La disonestà infatti è dimenticare la Grazia, amministrare credendo d'essere i padroni e rubando i beni per noi stessi. Ecco la fonte dei giudizi, dei rancori, delle invidie, delle frodi. Ecco il mondo attaccato alla carne, incapace di vedere il Cielo. Ecco le voci della moglie, del marito, dei figli, dei compagni di lavoro, dei fratelli che, frodati dell'amore, della pazienza, del rispetto di cui avevano diritto, dicono al Signore della nostra ingiusta e cattiva amministrazione. Ma Egli giunge anche oggi alla nostra vita, con amore ci chiama, ci scruta, ci interroga. Scriveva sant'Agostino: "torna in te stesso; nell’uomo interiore abita la verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che tu trascendi un’anima che ragiona. Tendi dunque là dove si accende la luce della ragione” (De vera religione, 39, 72).

«Che cos'è questo che sento dire di te?». Le voci dei fratelli ci «accusano» di aver «sperperato» e sottratto loro gli «averi» del Signore. Ad essi, infatti, spettava l’amore che Dio ci ha dato in «amministrazione». Invece di gestire con generosità i frutti del suo «giardino», abbiamo allungato la mano avidamente cercando di diventare ricchi come il padrone. Per questo «non possiamo più essere amministratori», «allontanati» da Lui e dai suoi averi: è il capolinea di una vita di menzogna, di compromessi e di frodi. E' la verità che ci scuote e ci apre gli occhi. Abbiamo amministrato male, ma abbiamo una speranza invincibile, che il mondo non conosce; in Dio non vi sono crisi finanziarie, crolli di borse, pericoli di default... Le sostanze del nostro Signore non sono come quelle dei ricchi di questo mondo: esse sono infinite, al punto di poter osare di tutto per salvarci, attingendo anche alla scaltrezza umana. 

Imprevedibilmente, proprio quando dovremmo «rendere conto», si schiude per noi la porta della conversione. Quando il mondo condanna, Dio ci grazia. Ci tende la sua mano mentre ci accorgiamo che senza le «sostanze» di Dio da amministrare siamo nulla, «non abbiamo forze» per «zappare» un terreno che non darà mai il raccolto d’amore che solo Lui può concedere. Sì, è da questa verità che nasce la vita nuova, come dalla fine del catecumenato, nel quale i cristiani della Chiesa primitiva imparavano a conoscersi deboli per appoggiarsi in Dio. 

Quando la storia spoglia della sua identità l'uomo vecchio che ha amministrato con l'orgoglio la natura divina, e ormai ci «vergogniamo di mendicare» nel mondo la dignità che solo Dio può donarci, allora si schiude per noi l'unica possibilità di salvezza, quella che non delude:  ripartire da dove abbiamo fallito, dagli «averi» del Signore. 

Essendone stati amministratori ne abbiamo intuito l’immensa entità; nessuno ci «accuserà» se stavolta sapremo sottrarne qualcosa con la «scaltrezza» del mondo. I «figli della luce» si illudono di poter amministrare con giustizia, ma non tengono conto delle insidie della carne che possono trasformarli in «amministratori di ingiustizia». Accanto alla «semplicità delle colombe» occorre «l’astuzia dei serpenti», la «scaltrezza» «lodata» sorprendentemente da Dio. Perché i denari non cadano nelle nostre avide tasche ma siano fecondi per tutti, essa ci insegna a fare come i «figli di questo mondo» usi ai favori illegali e interessati perché «i loro pari» contraccambino nel bisogno: ad essere generosi con i denari altrui, a disporre con magnanimità dei tesori di misericordia di Dio per riscattare noi stessi salvando anche gli altri. 

Possiamo capovolgere la situazione che ci vede debitori e incapaci di fare alcunché per rifondere quanto rubato. Non abbiamo forze perché troppa terra dovremmo zappare per raccogliere e rendere i frutti di cui ci siamo appropriati: quanta fatica per ricomporre con le nostre forze i dissidi con il coniuge, con i figli o con chi sia... Ci vergogniamo di mendicare perché nessuno sarebbe disposto a donare a un ladro avido e avaro: come pensare di essere perdonati laddove abbiamo sparso rancore, giudizi, e abbiamo ritratto la mano mentre ci venivano chieste un po' di pazienza e misericordia... 

Eppure possiamo ancora amministrare bene mettendo la scaltrezza mondana al servizio della Sapienza divina: è il paradosso del Vangelo di oggi. Le membra messe al servizio dell'ingiustizia, immerse nel battesimo di misericordia che Lui ci offre, possono essere messe a servizio della giustizia e della verità. Il comportamento che fa la cresta rubando per rifondere quanto rubato, nel mondo sarebbe disonesto, un espediente che assicuri la gratitudine dei beneficiari ormai legati all'amministratore con una truffa molto consistente (cento barili d’olio equivalgono a circa 3.500 litri, e cento misure di grano corrispondono a circa 600 quintali); nell'economia divina invece proprio questo atteggiamento diviene invece oggetto di lode. 

E' la chance che il Signore ci offre: sei stato furbo nel rubare? usa la stessa furbizia per restituire; hai accumulato disonestamente? dona onestamente, perché prendere le sostanze del Signore per distribuirle ai poveri suoi debitori è l'onestà secondo il cuore di DioTi sei fatto padrone essendo un semplice amministratore? Ebbene comportati davvero, e sino in fondo, come il tuo Padrone: ama gratuitamente. Lasciati amare e ama. Lui, essendo Dio, ha pagato al posto nostro, ha cancellato ogni debito segnato sulla ricevuta della nostra vita e di quella di ogni uomo. Ci ha chiamato, ci ha fatto sedere alla sua mensa, e si è accollato i debiti di tutti, nessuno escluso.

Dall'esperienza del suo perdono scaturisce la libertà di approfittarne senza paura, per osare di perdonare l'imperdonabile vergato sulle ricevute dei debitori. E' la nostra vita nella quale, misteriosamente, si fondano la stessa nostra elezione e missione; siamo amministratori disonesti graziati dal suo amore e, per questo, chiamati ad annunciare a tutti la stessa Grazia. Chi ci è intorno, in famiglia, al lavoro, ovunque, non è un nostro debitore: è debitore nei riguardi di Dio. In questa luce che scaturisce dalla profonda conoscenza di noi stessi, ogni relazione cambia radicalmente. 

Siamo inviati ogni giorno a nostra moglie, al marito, ai figli, ai fedeli della parrocchia, ai colleghi di lavoro, ai fratelli della comunità, al fidanzato, alla fidanzata, agli amici, per invitarli a sedere alla mensa della misericordia: in Cristo, ogni nostra parola, ogni sguardo, ogni atto diviene un cancellare la cifra del debito che il prossimo ha con Dio. E' la libertà che non abbiamo mai sperimentato, schiavi come siamo della menzogna secondo la quale ci sentiamo sempre in credito con gli altri. La consapevolezza del nostro debito e della nostra cattiva amministrazione ci fanno scendere sino alla realtà di chi ci è vicino, ci fa sperimentare di essere debitori come loro dell'unico Signore, per accompagnare tutti all'incontro con la sua misericordia. Scompaiono allora i giudizi, si schiude il cuore alla compassione e così poter  perdonare del perdono di Dio, per essere accolti nelle case dei fratelli.

Il Paradiso infatti, di cui possiamo gustare le primizie su questa terra, è comunione, accoglierci gli uni gli altri nella propria intimità dove abita Cristo: le case dei debitori sono infatti il posto che Gesù ci è andato a preparare attraverso il suo mistero pasquale: Lui ha pagato il nostro debito e ci ha fatti suoi amici, per accoglierci proprio quando, per i peccati e l'infedeltà, siamo allontanati dall'amministrazione. E' questo l'incomprensibile attuare di Dio: proprio quando meritiamo di essere "licenziati" per frode, quando sperimentiamo l'allontanamento dalla familiarità con il Signore e dall'amministrazione dei suoi beni, Lui ha pronto per noi un posto, la sua stessa casa. 

Non solo il fondo oscuro della lontananza da Dio diviene il luogo dove sperimentare il perdono; è molto di più: Egli stesso ha sperimentato sulla Croce l'abbandono e nel sepolcro l'estrema lontananza dal Padre; ma proprio lì ha sperimentato anche la sua intimità più prossima che lo ha risuscitato e introdotto alla sua destra per l'eternità: "Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa" (Sal. 16). Così anche noi, nell'allontanamento possiamo sperimentare la follia dell'amore di Dio che, in cambio dei peccati, ci dona molto più di un reintegro nell'amministrazione: ci accoglie addirittura nella sua casa, divenuta nostra per il sacrificio di Cristo. Ci scopriamo amministratori disonesti e ci troviamo, per pura Grazia, figli nel Figlio, coeredi con Lui delle sostanze del Padre. Per questo ogni atto d'amore gratuito che si compie in noi, ogni perdono offerto, è un atto escatologico: annuncia, compie e anticipa il Cielo.

Se qui nel nostro pellegrinaggio restiamo intimamente uniti a Lui, le sue sostanze divengono le nostre, per essere donate. La sua vita è la nostra vita, per essere consegnata a chiunque, a sua volta, è suo debitore. Solo donando riconsegniamo a Dio, fruttificato, quanto ci ha dato in amministrazione. La vita ci è donata per essere donata. Ovunque, e a chiunque. Perdere la vita è averla per l'eternità. La sapienza carnale issata sulla Croce diviene la Sapienza celeste di chi ha conosciuto la propria debolezza e il proprio egoismo e sa che il tempo di vita che gli è donato costituisce il kairos offerto per amare senza misura. 

Non ne abbiamo molto, solo i giorni che ci saranno concessi. La nostra missione coincide con la nostra conversione: confidare nella «ricchezza» del Signore e con le parole e i gesti aprire audacemente i suoi forzieri perché giunga ad ogni uomo il condono del proprio debito. Vivere nel miracolo della misericordia, possibile solo perché il Figlio ha coperto ogni ammanco: ci ha fatti suoi «amici» «chiamandoci a sedere» alla mensa del suo corpo e del suo sangue con i quali ha cancellato il nostro debito; risorgendo, ha preparato per noi una «casa» dove accoglierci tutti per l’eternità.

E' l'esperienza che possiamo contemplare nella vita di San Francesco: ha scoperto un solo Padre che lo ha amato e perdonato; in Lui la sua vita è divenuta un'offerta d'amore e di pace per chiunque: povero tra i poveri, debitore tra i debitori è divenuto immagine fedele di Colui che "da ricco che era si è fatto povero per farci ricchi della sua povertà". Così anche noi in Cristo, possiamo essere trasformati in autentici amministratori che hanno a cuore le sostanze del Signore divenuto Padre, per distribuirle ai suoi figli dispersi; signori nel Signore, ricchi della sua ricchezza, la povertà di Colui che ha donato tutto perché il suo tutto non si esaurisce mai: e così raggiungere ogni debitore, sino ai confini della terra, per offrire gratuitamente il ritorno alla casa di Colui che lo ha reso suo amico per sempre, libero da ogni fardello: "Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna" (1 Tim. 1, 15-16).


APPROFONDIMENTI


Dall'Omelia del Santo Padre Benedetto XVI

domenica 23 settembre 2007 (Lc 16,1-13)

Ma che cosa vuole dirci Gesù con questa parabola? Con questa conclusione sorprendente? Alla parabola del fattore infedele, l’evangelista fa seguire una breve serie di detti e di ammonimenti circa il rapporto che dobbiamo avere con il denaro e i beni di questa terra. Sono piccole frasi che invitano ad una scelta che presuppone una decisione radicale, una costante tensione interiore. La vita è in verità sempre una scelta: tra onestà e disonestà, tra fedeltà e infedeltà, tra egoismo e altruismo, tra bene e male. Incisiva e perentoria la conclusione del brano evangelico: “Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. In definitiva, dice Gesù, occorre decidersi: “Non potete servire a Dio e a mammona” (Lc 16,13). Mammona è un termine di origine fenicia che evoca sicurezza economica e successo negli affari; potremmo dire che nella ricchezza viene indicato l’idolo a cui si sacrifica tutto pur di raggiungere il proprio successo materiale e così questo successo economico diventa il vero dio di una persona. È necessaria quindi una decisione fondamentale tra Dio e mammona, è necessaria la scelta tra la logica del profitto come criterio ultimo nel nostro agire e la logica della condivisione e della solidarietà. La logica del profitto, se prevalente, incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure un rovinoso sfruttamento del pianeta. Quando invece prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo, per il bene comune di tutti. In fondo si tratta della decisione tra l’egoismo e l’amore, tra la giustizia e la disonestà, in definitiva tra Dio e Satana. Se amare Cristo e i fratelli non va considerato come qualcosa di accessorio e di superficiale, ma piuttosto lo scopo vero ed ultimo di tutta la nostra esistenza, occorre saper operare scelte di fondo, essere disposti a radicali rinunce, se necessario sino al martirio. Oggi, come ieri, la vita del cristiano esige il coraggio di andare contro corrente, di amare come Gesù, che è giunto sino al sacrificio di sé sulla croce.




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