Con Gesù nella tenda della nostra precarietà
La festa delle Capanne era "la" festa perché celebrava il memoriale del dono della Torah e il tempo del deserto, le viscere nelle quali si è formato il popolo di Israele. Il suo catecumenato dove ha imparato a conoscere Dio e a conoscere se stesso. Al tempo di Gesù era una festa con fortissime connotazioni messianiche che cristallizzava nelle celebrazioni l'aria era pregna d'attesa. La schiavitù e l'asservimento a Roma, infatti, erano diventati impossibili. Durante la settimana della festa il popolo si costruiva delle capanne e vi dimorava, sperando di nuovo un deserto che li conducesse finalmente liberi dal giogo romano. Identico al nostro Egitto di oggi, di ieri e di domani. Succot è la nostra festa nel bel mezzo di questa Quaresima, il regalo della Chiesa che desta anche in noi il desiderio di un deserto dove camminare liberi dalla schiavitù al peccato. E oggi come quel giorno a Gerusalemme ecco un Uomo annunciarci la liberazione. Bellissimo, ma abbiamo un problema; è troppo uomo, troppo comprensibile nella sua umanità. No. Non può essere il Messia. Il figlio di un falegname. Il Messia, il Salvatore, deve essere una figura eccezionale e invincibile per porre termine a tutta questa incertezza, alla dura precarietà della vita. E invece "ecce Homo", come tutti, debole, fragile e precario. Ma è proprio questo il segno e la profezia che aspettavamo: La sua debolezza è il segno a cui appoggiarci per credere alla nostra liberazione: non sarà come cedevamo, ma qualcosa di infinitamente migliore. Saremo liberati sì, ma restando deboli e fragili! Come Israele, infatti, abbiamo bisogno della sabbia del deserto dove posare i nostri piedi e conoscere noi stessi e il potere di Dio che si rivela nella povertà di una "tenda". Tra l'Egitto e la Terra Promessa, tra la schiavitù e la libertà non può che esserci il deserto dove imparare a poco a poco come si cammina in una vita nuova che non conosciamo. Per questo "il Verbo si fece carne e costruì la sua “skēnē” (la sua tenda) in mezzo a noi". Anche Dio in una capanna, la vita del Figlio come quella di ciascuno di noi: Nazaret, la Galilea, niente studi, niente portenti. La Buona Notizia che ci spinge verso la Pasqua è proprio la precarietà che sperimentiamo ogni giorno: non dobbiamo più aspettare il Messia, è giù qui tra noi, bussa alla nostra carne per prendervi dimora e farne il Tempio della libertà che solo i figli di Dio conoscono. Questo Uomo che è Dio, infatti, rende divina ogni precarietà. Questa vita che non sopportiamo, perfino il dominio del nuovo Impero Romano che sembra soffocarci con il pensiero unico e totalizzante, ogni lacrima, ogni angoscia, ogni dubbio ogni paura, ogni dolore, tutto è assunto dal Dio fatto uomo, ed è già "deserto" che significa libertà. Ogni istante della nostra vita è dunque un passo in più posato sul cammino che ci conduce al Cielo. Capite? Questa Festa delle Capanne rovescia la nostra prospettiva mondana e religiosa sulla storia: il Messia la illumina rivelandocela come il deserto che ci fa pregustare il nostro destino. Per questo il deserto può apparire oggi come un Giardino. Perché la fede ci fa discernere la Pasqua in ogni evento, il paradiso nel deserto, la vita nella morte. Gesù non deve cambiare nulla delle nostre storie, perché le assume, oggi, come ieri come domani, per farle sue e renderle divine. Coraggio allora, viviamo con Lui nelle capanne, accogliendo la totale precarietà visitata dall'amore incorruttibile di Dio in Cristo Gesù, che fa di ogni nostro giorno un esodo che ci libera dai peccati e ci conduce alla santità per mezzo del suo Spirito riversato in noi.
Nessun commento:
Posta un commento