Mercoledì della VII settimana del Tempo Ordinario




αποφθεγμα Apoftegma

Il cuore di Cristo è il cuore di un Dio che, per amore, si è «svuotato». 
Ognuno di noi che segue Gesù dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. 
Siamo chiamati a questo abbassamento: essere degli «svuotati». 
Essere uomini che non devono vivere centrati su se stessi 
perché il centro è Cristo e la sua Chiesa. 
E Dio è il Deus semper maior, il Dio che ci sorprende sempre. 

Papa Francesco













L'ANNUNCIO

Dal Vangelo secondo Marco 9,38-40

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri».
Ma Gesù disse: «Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me.
Chi non è contro di noi è per noi
». 









OCCHI DI FEDE PER DISCERNERE LE OPERE DI VITA ETERNA COMPIUTE NEL NOME DI CRISTO

Gesù aveva appena preso un bambino e, postolo in mezzo ai discepoli, lo aveva abbracciato, per insegnare l'unico modo con cui si accoglie Lui e Colui che lo ha mandato. Ma niente, non c'era verso; i suoi discepoli continuavano a non capire. Erano con Lui da tempo, ma non lo avevano ancora accolto. Come Pietro, anche Giovanni pensava ancora secondo gli uomini che scartano i piccoli. Camminavano con Gesù, come noi, ma i loro criteri erano ancora mondani. Cercavano la propria identità come al tempo di Babele, quando gli uomini smisero di camminare e si stabilirono in una città. Basta precarietà, bisognava installarsi per difendersi, e così darsi un "nome". La città di Babele è immagine del principio di ogni corruzione, la stessa che segnava ancora il cuore di Giovanni e degli altri discepoli intenti a discutere su chi fosse il più grande, su chi avesse un "nome" più prestigioso da garantire il primo posto. Per questo il "nome di Gesù" appariva loro come la torre che gli uomini tentarono di costruire proprio per darsi un nome, che significa un'identità, un senso nel mondo. Gesù, che, secondo la mentalità orientale era presente nel suo "nome", era per loro il "brand" che distingueva il gruppo, nella perfetta mentalità del mondo. Del resto i discepoli, invece di pregare, discutevano e litigavano proprio per scalare la "società", come si fa in qualunque impresa, per poi competere con le altre. E così, proprio loro che si indignavano per "uno che scacciava i demoni nel nome di Gesù", non riuscivano a scacciarli. Quel "nome", pronunciato da loro, non aveva "potere" perché attraverso di esso cercavano la propria gloria; non era "dynamis" perché si erano installati ed erano entrati in competizione tra loro e con gli altri raggiunti dalla Grazia. Avevano rotto la comunione in nome della carne, e così avevano finito per sbarrare le porte della Chiesa, che dovrebbero restare aperte giorno e notte per accogliere tutti. E' ciò che accade a chi, come spesso anche noi, usa della Chiesa e della comunità per se stesso. Si può stare nella Chiesa con la mentalità del mondo, cercando di raggiungere i propri obbiettivi, schiavi dell'autoreferenzialità. Si può essere accanto a Cristo e ai fratelli ma seguire la volontà del demonio. L'uomo è stato creato per amare, per aprirsi all'altro e donarsi nella comunione; ci definisce l'appartenenza a Dio e ai fratelli, la comunione della Chiesa. Ma il demonio, principio di divisione, ha seminato nei cuori l'invidia e la superbia che spinge a "vedere" l'altro come un nemico. Esattamente come i discepoli hanno "visto" quello che scacciava i demoni in nome di Gesù. E così, proprio loro che non ci riuscivano, "impedivano" a chi "non era dei nostri" di lottare con il male e vincerlo in Cristo. 


Ecco il punto. Quell'uomo non seguiva loro! Per questo era da tagliare, escludere, disprezzare, scandalizzare, come dirà poi Gesù. I discepoli avevano fatto della comunità una cosa loro, mondana, nella quale vigevano le regole e gli usi di ogni gruppo umano, trasformandola in un luogo di schiavitù. Come accade spesso alle nostre comunità e alle nostre famiglie, nei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli, tra fidanzati e amici, al punto da assomigliare al board di una società: bisogna produrre i risultati prefissati, raggiungere determinati target, incrementare sempre i guadagni; solo così ci sono i dividendi e la comunità è salva, visto che ha ragione di esistere solo in funzione di questi risultati. Essere "dei nostri" significa essere ammessi nel proprio cerchio magico, tutto carne e passioni. Implica seguirsi a vicenda, e per questo litigare e giudicarsi, invidiarsi ed essere gelosi. Perché chi segue un uomo va dietro ai suoi limiti, e che fallimento diventa allora la vita. Che stoltezza quando un prete vuole farsi seguire e lega a sé le persone, rubandole a Cristo di cui dovrebbe essere l'amico che gioisce nel diminuire perché chi possiede la sposa è lo Sposo. O quando un padre e una madre spingono i figli ad essere come loro, a ricalcarne le orme frustrando le loro personalità e disprezzando le debolezze; non si accorgono che li scandalizzano allontanandoli da Cristo, che li ama e li ha scelti peccatori e liberi, unici e irripetibili. O un fidanzato quando cerca di assorbire la fidanzata nel proprio tempo, nei gusti e nei desideri, obbligandola a servire le proprie concupiscenze, dando inizio così alla rovina certa del matrimonio. La corruzione non può che generare corruzione. E disprezzo per i piccoli; chi si illude di dover essere seguito, chi scrive leggi ispirate dagli slogan, chi partorisce ideologie non si accorgerà dei piccoli che muovono i primi passi. Sarà geloso del proprio posto e guarderà tutti come a dei potenziali usurpatori. Per questo Gesù aveva preso un bambino e lo aveva abbracciato: per mostrare profeticamente che cosa è la Chiesa. Essa è una comunità abbracciata da Cristo, dove ciascuno è amato così come è, nella sua piccolezza, nelle sue miserie. Nella Chiesa è preservata la libertà di ciascuno, anche di sbagliare, perché tutti seguono Cristo che sale alla Croce, per entrare con Lui nel Cielo, in un'appartenenza nuova che trascende la carne. Nella Chiesa non si è "dei nostri", ma tutti sono suoi, riscattati dal sangue di Cristo. Non c'è omologazione ma comunione nella diversità. Per questo Giovanni, pur con le sue turbolenze di "figlio del tuono", con la sua irruenza, dà voce a una questione sempre viva nella Chiesa: che fare con la debolezza che ci scandalizza e, soprattutto, con la diversità che impaurisce, le irruzioni impreviste dello Spirito? Giovanni è immagine del carisma, dei tuoni dello Spirito che irrompono e fanno tremare l'istituzione quando essa si è troppo installata e mondanizzata. E' vero che anche lui "ha vietato" l'operare di quell'uomo, ma è soprattutto vero che lui e non altri sottopone la questione a Gesù; non è una semplice affermazione la sua, è quasi un lasciare in sospeso la cosa, nell'attesa di un chiarimento. Giovanni quasi si identifica con quell'uomo che non è con loro, sembra che qualcosa lo incalzi dentro, ed è come se chiedesse a Gesù: "Maestro" - e così gli riconosce l'autorità per insegnare - "glielo abbiamo vietato", ma è giusto o no? In fondo non sta con noi, è un irregolare. Forse è un bambino che sta balbettando la sua fede, ma ha creduto, e nel Tuo nome ha vinto il male. Nella sua vita si vedono opere di vita eterna... Proprio in virtù di questo segno Gesù risponde a Giovanni e ai discepoli, alla Chiesa di ogni generazione e a ciascuno di noi: "Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi". Si mette con loro, al centro della comunità, con autorità. E ci detta la linea, il criterio per discernere, la luce per camminare. Quell'uomo è immagine dei figli che non seguono le nostre regole, come di chiunque cammina al nostro lato senza seguire le nostre idee, come dei piccoli che hanno cominciato a credere in Gesù, come dei carismi che visitano e fanno tremare la Chiesa. C'è un criterio per discernere: il "nome" di Gesù ha potere in lui? Perché se i fatti testimoniano dell'opera soprannaturale di Dio, allora è di Cristo, "non potrà rinnegarlo". La Chiesa non segue un ideale o una moda; non difende la maglia di una squadra; non si identifica in un inno nazionale e una bandiera; non si irrigidisce in schemi atrofizzati e immutabili; non schiaccia i piccoli obbligandoli a diventare come esigono i modelli umani. La Chiesa è il tempio della libertà, dove ciascuno segue Cristo che ha infranto ogni schema, ha accettato d'essere cacciato e crocifisso fuori di Gerusalemme, come un bestemmiatore eretico da estirpare dal Popolo. Dio, capite?, Dio è quell'uomo fuori del gruppo dei discepoli, è Gesù vivo nel suo "nome" che scaccia i demoni. L'invidia dunque e la gelosia possono "vietare" a Cristo di operare miracoli, come accadde a Nazaret a causa dell'incredulità dei suoi compatrioti. Non è cambiato nulla nella tua famiglia? Forse stai vietando a Cristo di scacciare il demonio, magari giudicando e frustrando tuo figlio, o disprezzando tua moglie o tuo marito. Non è difficile se ci muove la carne... Dio, infatti, per operare lo straordinario appare sempre dove meno ce lo aspettiamo, nell'ordinario più insignificante e nei piccoli, a Betlemme come nella vita di tuo figlio, a Nazaret come nel carattere di tuo marito, sulla Croce, fuori da ogni criterio buonista e religioso. Dio si è fatto il più piccolo, l'ultimo tra gli ultimi, perché nessuno fosse escluso. Se si esclude il piccolo, l'insignificante, chi sfugge ai nostri criteri, si esclude Cristo, e quindi il Padre, e quindi non c'è più posto neanche per noi. Se si "impedisce" ai carismi di operare miracoli "nel nome di Gesù" si stringe un cappio al collo della Chiesa in una superbia suicida che lascia fuori i più deboli, quelli per i quali Dio suscita proprio i carismi. Allo stesso modo se i carismi si chiudono in se stessi rimirandosi allo specchio e autocelebrandosi sfregiano il dono ricevuto per il mondo e tradiscono il "nome di Gesù". Per questo, nelle parole successive, il Signore metterà in guardia i discepoli dallo scandalizzare i piccoli che credono in Lui. E' meglio "tagliare" qualcosa di se stessi, circoncidere la propria carne, che ferire la comunione; "chi non è contro Cristo e la sua Chiesa è per noi", è a nostro favore, ci aiuta a uscire da noi stessi, a convertirci, ad amare Cristo e "scacciare il demonio, l'unico autentico avversario. 


QUI IL DISCORSO DI PAPA FRANCESCO ALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA CIRCA IL RINNOVAMENTO DEL CLERO




DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Aula del Sinodo
Lunedì, 16 maggio 2016




Cari fratelli,
a rendermi particolarmente contento di aprire con voi questa Assemblea è il tema che avete posto come filo conduttore dei lavori –Il rinnovamento del clero –, nella volontà di sostenere la formazione lungo le diverse stagioni della vita.

La Pentecoste appena celebrata mette questo vostro traguardo nella giusta luce. Lo Spirito Santo rimane, infatti, il protagonista della storia della Chiesa: è lo Spirito che abita in pienezza nella persona di Gesù e ci introduce nel mistero del Dio vivente; è lo Spirito che ha animato la risposta generosa della Vergine Madre e dei Santi; è lo Spirito che opera nei credenti e negli uomini di pace, e suscita la generosa disponibilità e la gioia evangelizzatrice di tanti sacerdoti. Senza lo Spirito Santo – lo sappiamo – non esiste possibilità di vita buona, né di riforma. Preghiamo e impegniamoci a custodire la sua forza, affinché «il mondo del nostro tempo possa ricevere la Buona Novella […] da ministri del Vangelo, la cui vita irradi fervore» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80).

Questa sera non voglio offrirvi una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote. Proviamo, piuttosto, a capovolgere la prospettiva e a metterci in ascolto, in contemplazione. Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità; lasciamo che il volto di uno di loro passi davanti agli occhi del nostro cuore e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi?

Vi auguro che queste domande possano riposare dentro di voi nel silenzio, nella preghiera tranquilla, nel dialogo franco e fraterno: le risposte che fioriranno vi aiuteranno a individuare anche le proposte formative su cui investire con coraggio.

1. Che cosa, dunque, dà sapore alla vita del “nostro” presbitero? Il contesto culturale è molto diverso da quello in cui ha mosso i primi passi nel ministero. Anche in Italia tante tradizioni, abitudini e visioni della vita sono state intaccate da un profondo cambiamento d’epoca.

Noi, che spesso ci ritroviamo a deplorare questo tempo con tono amaro e accusatorio, dobbiamo avvertirne anche la durezza: nel nostro ministero, quante persone incontriamo che sono nell’affanno per la mancanza di riferimenti a cui guardare! Quante relazioni ferite! In un mondo in cui ciascuno si pensa come la misura di tutto, non c’è più posto per il fratello.

Su questo sfondo, la vita del nostro presbitero diventa eloquente, perché diversa, alternativa. Come Mosè, egli è uno che si è avvicinato al fuoco e ha lasciato che le fiamme bruciassero le sue ambizioni di carriera e potere. Ha fatto un rogo anche della tentazione di interpretarsi come un “devoto”, che si rifugia in un intimismo religioso che di spirituale ha ben poco.

È scalzo, il nostro prete, rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa. Non si scandalizza per le fragilità che scuotono l’animo umano: consapevole di essere lui stesso un paralitico guarito, è distante dalla freddezza del rigorista, come pure dalla superficialità di chi vuole mostrarsi accondiscendente a buon mercato. Dell’altro accetta, invece, di farsi carico, sentendosi partecipe e responsabile del suo destino.

Con l’olio della speranza e della consolazione, si fa prossimo di ognuno, attento a condividerne l’abbandono e la sofferenza. Avendo accettato di non disporre di sé, non ha un’agenda da difendere, ma consegna ogni mattina al Signore il suo tempo per lasciarsi incontrare dalla gente e farsi incontro. Così, il nostro sacerdote non è un burocrate o un anonimo funzionario dell’istituzione; non è consacrato a un ruolo impiegatizio, né è mosso dai criteri dell’efficienza.

Sa che l’Amore è tutto. Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali. Servo della vita, cammina con il cuore e il passo dei poveri; è reso ricco dalla loro frequentazione. È un uomo di pace e di riconciliazione, un segno e uno strumento della tenerezza di Dio, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi.

Il segreto del nostro presbitero – voi lo sapete bene! – sta in quel roveto ardente che ne marchia a fuoco l’esistenza, la conquista e la conforma a quella di Gesù Cristo, verità definitiva della sua vita. È il rapporto con Lui a custodirlo, rendendolo estraneo alla mondanità spirituale che corrompe, come pure a ogni compromesso e meschinità. È l’amicizia con il suo Signore a portarlo ad abbracciare la realtà quotidiana con la fiducia di chi crede che l’impossibilità dell’uomo non rimane tale per Dio.

2. Diventa così più immediato affrontare anche le altre domande da cui siamo partiti. Per chi impegna il servizio il nostro presbitero?La domanda, forse, va precisata. Infatti, prima ancora di interrogarci sui destinatari del suo servizio, dobbiamo riconoscere che il presbitero è tale nella misura in cui si sente partecipe della Chiesa, di una comunità concreta di cui condivide il cammino. Il popolo fedele di Dio rimane il grembo da cui egli è tratto, la famiglia in cui è coinvolto, la casa a cui è inviato. Questa comune appartenenza, che sgorga dal Battesimo, è il respiro che libera da un’autoreferenzialità che isola e imprigiona: «Quando il tuo battello comincerà a mettere radici nell’immobilità del molo – richiamava Dom Hélder Câmara – prendi il largo!». Parti! E, innanzitutto, non perché hai una missione da compiere, ma perché strutturalmente sei un missionario: nell’incontro con Gesù hai sperimentato la pienezza di vita e, perciò, desideri con tutto te stesso che altri si riconoscano in Lui e possano custodire la sua amicizia, nutrirsi della sua parola e celebrarLo nella comunità.

Colui che vive per il Vangelo, entra così in una condivisione virtuosa: il pastore è convertito e confermato dalla fede semplice del popolo santo di Dio, con il quale opera e nel cui cuore vive. Questa appartenenza è il sale della vita del presbitero; fa sì che il suo tratto distintivo sia la comunione, vissuta con i laici in rapporti che sanno valorizzare la partecipazione di ciascuno. In questo tempo povero di amicizia sociale, il nostro primo compito è quello di costruire comunità; l’attitudine alla relazione è, quindi, un criterio decisivo di discernimento vocazionale.

Allo stesso modo, per un sacerdote è vitale ritrovarsi nel cenacolo del presbiterio. Questa esperienza – quando non è vissuta in maniera occasionale, né in forza di una collaborazione strumentale – libera dai narcisismi e dalle gelosie clericali; fa crescere la stima, il sostegno e la benevolenza reciproca; favorisce una comunione non solo sacramentale o giuridica, ma fraterna e concreta. Nel camminare insieme di presbiteri, diversi per età e sensibilità, si spande un profumo di profezia che stupisce e affascina. La comunione è davvero uno dei nomi della Misericordia.

Nella vostra riflessione sul rinnovamento del clero rientra anche il capitolo che riguarda la gestione delle strutture e dei beni: in una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio.

3. Infine, ci siamo chiesti quale sia la ragione ultima del donarsi del nostro presbitero. Quanta tristezza fanno coloro che nella vita stanno sempre un po’ a metà, con il piede alzato! Calcolano, soppesano, non rischiano nulla per paura di perderci… Sono i più infelici! Il nostro presbitero, invece, con i suoi limiti, è uno che si gioca fino in fondo: nelle condizioni concrete in cui la vita e il ministero l’hanno posto, si offre con gratuità, con umiltà e gioia. Anche quando nessuno sembra accorgersene. Anche quando intuisce che, umanamente, forse nessuno lo ringrazierà a sufficienza del suo donarsi senza misura.
Ma – lui lo sa – non potrebbe fare diversamente: ama la terra, che riconosce visitata ogni mattino dalla presenza di Dio. È uomo della Pasqua, dallo sguardo rivolto al Regno, verso cui sente che la storia umana cammina, nonostante i ritardi, le oscurità e le contraddizioni. Il Regno – la visione che dell’uomo ha Gesù – è la sua gioia, l’orizzonte che gli permette di relativizzare il resto, di stemperare preoccupazioni e ansietà, di restare libero dalle illusioni e dal pessimismo; di custodire nel cuore la pace e di diffonderla con i suoi gesti, le sue parole, i suoi atteggiamenti.

* * *

Ecco delineata, cari fratelli, la triplice appartenenza che ci costituisce: appartenenza al Signore, alla Chiesa, al Regno. Questo tesoro in vasi di creta va custodito e promosso! Avvertite fino in fondo questa responsabilità, fatevene carico con pazienza e disponibilità di tempo, di mani e di cuore.


Prego con voi la Vergine Santa, perché la sua intercessione vi custodisca accoglienti e fedeli. Insieme con i vostri presbiteri possiate portare a termine la corsa, il servizio che vi è stato affidato e con cui partecipate al mistero della Madre Chiesa. Grazie.






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