CHIEDERE NEL NOME DI CRISTO LA GIOIA PIENA DELL'AMORE



La nostra vita è inquinata da un pensiero malvagio. Spesso non chiediamo per paura di non essere esauditi; preferiamo non desiderare per non essere delusi. Soffochiamo i desideri pensando che sia l'atteggiamento più idoneo ad un cristiano di fede certa. Ma non è così. Questo atteggiamento denuncia al contrario una sfiducia di fondo, il veleno dell'incredulità. Guardiamo alla nostra vita come ad un oggetto uscito difettoso dalla fabbrica: così del lavoro, dell'amicizia, del fidanzamento e del matrimonio, delle vacanze. E' grave, è un pensar male di Dio, creatore sì, geniale sì, ma, nella migliore delle ipotesi, sbadato, comunque non attento ai dettagli, al punto di non accorgersi dei difetti di quanto prodotto. E come si può consegnare davvero la vita a qualcuno di cui non si ha piena fiducia? Come vivere abbandonati alla volontà di chi, comunque la si metta, non prevede la gioia, il compimento dei desideri, delle speranze? E così cerchiamo alternative, per ogni situazione prepariamo una "exit strategy", come i contratti pre-matrimoniali stipulati in vista di un eventuale divorzio; progettiamo il futuro seguendo criteri carnali e mondani, che prevedano comunque, in caso di fallimento, la possibilità di acciuffare qualche scampolo di felicità e divertimento. E scivoliamo, forse senza rendercene conto, in un carpe diem che ci faccia arraffare subito, ora, quanto più possibile, perché domani chissà... Ma le parole del Vangelo di oggi giungono ad illuminarci: "finora non avete chiesto nulla nel mio nome". La chiave è in questa frase di Gesù. Abbiamo pregato, implorato, digiunato, sperato. E pensiamo di non aver ottenuto, o al massimo ottenuto solo parzialmente, con quel retrogusto amaro che è come una tassa sulla felicità, che ci impedisce la pienezza della gioia. E ci siamo chiusi, e siamo scappati, e abbiamo risolto di prenderci comunque, tanto per non sbagliare, delle "soddisfazioni", laddove si fosse presentata l'occasione. Nella sessualità, con il denaro, nel rapporto con i colleghi di lavoro. Meglio l'uovo oggi che la gallina domani... Abbiamo pregato, ma non abbiamo chiesto nulla nel suo nome. Abbiamo chiesto nel nostro nome, credendo che fosse il suo. Senza malizia, almeno al principio. Così, dall'esperienza della preghiera, dalle delusioni patite e dai pensieri e dagli atteggiamenti che ne sono scaturiti, ci rendiamo conto che non conosciamo il Signore. Sbattiamo sempre sulla stessa parete che ci separa dalla libertà, dal Regno, dalla vita eterna. Chiedere nel proprio nome significa porre i propri criteri come l'assoluto, quasi che in se stessi abbiano il potere, ovvero il diritto, di realizzare e compiere i desideri e i progetti, escludendo a priori altre possibilità per la nostra vita; significa essere schiavi di un idolo. Pregare nel proprio nome è come guardarsi in uno specchio e chiedere a se stessi. Atteggiamento stolto e insipiente. Come recita il Salmo 92: "Quanto sono grandi le tue opere Signore, quanto profondi i tuoi pensieri! L'uomo insipiente non comprende, e lo stolto non capisce". L'insipiente è colui che si lascia condurre dagli istinti animali, l'essere brutale, secondo il significato della parola ebraica del testo originale; è incapace di "conoscere": il verbo ebraico è jada', il verbo dell'esperienza integrale, che in greco sarà tradotto con oida, vedere e conoscere in pienezza, quasi nell'appartenenza all'oggetto visto e conosciuto. Lo stolto, kesil in ebraico, riconduce allo stesso significato, all'incapacità di leggere, nella storia, l'opera di Dio. Ma vi è anche un'altra parola per definire lo stolto: nabal, un uomo irragionevole, che nega l'esistenza e la potenza di Dio, e per questo è colui al quale non si può dire nulla. Chi non ha visto Cristo risorto e non ha sperimentato il suo potere non può che vivere stoltamente, soprattutto se ha verniciato la sua esistenza di cristianesimo e di pratiche religiose. Per questo oggi il Signore ci invita ad uscire da noi stessi, a pregare nel suo nome. Ci chiama ad un esodo dall'Egitto - dalla schiavitù angosciante di chi vive obbligato ad innalzare piramidi al proprio ego, gli sforzi per realizzare i propri progetti e la frustrazione di vederli frantumarsi - alla Terra Promessa della libertà e della gratuità. Uscire dal proprio nome per entrare nel nome di Cristo. I costruttori della torre di Babele dicevano tra loro: “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono.Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la faccia della terra. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.” (Gen 11,1-9). Emigrando dall'oriente, ovvero divenendo stolti e insipienti, senza più orientamento. E' la condizione di chi confida solo in se stesso e nelle sue parole, sarà suo pastore la morte. Chi non ha un punto fisso dove guardare, la stella polare, non può orientarsi nella notte della vita. Il senso più profondo delle parole di Gesù del vangelo di oggi è quello di uscire dal proprio nome, smettere di fondare la propria vita su se stessi, e mettersi in cammino, come Abramo, uscendo dalla città nella quale sedersi, installarsi e difendersi da Dio e dagli altri, per entrare nella precarietà nomade, la libertà di chi si appoggia solo alla volontà di Dio. E' il cammino opposto a quello della nostra Babele, dove costruiamo destini credendo di scalare il Cielo perchè poi Dio benedica la nostra confusione, le troppe lingue che parla il nostro cuore, le pulsioni istintive che reclamano gioie a buon mercato. Per questo, allo stesso modo che Dio scese a vedere la città e la torre, Cristo risorto e asceso al Padre, scende oggi dal Cielo a vedere in che pasticci ci siamo cacciati, e con la luce della sua Pasqua e il dono del suo Spirito disperde ogni nostro pensiero malvagio. La Sapienza dello Spirito Santo che sostiene la speranza perchè non sia delusa, la piccola speranza con la sua gioia fresca e innocente di cui scrive Peguy, la tela che intesse i nostri giorni riconducendoli dalla dispersione all'origine di ogni evento: l'amore più forte della morte. "Il nome crea la possibilità dell'invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che cosa, positivamente, sia inteso col nome di Dio: Dio stabilisce una relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui." (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Volume I). Chiedere nel nome di Gesù significa entrare in relazione con Lui, che ci "ha fatto conoscere il nome" di suo Padre: "Ciò che ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo. Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani." (J. Ratzinger - Benedetto XVI, Ibid.). Nel nome di Gesù amiamo Dio, ne abbiamo l'esperienza viva e reale, perchè vediamo e conosciamo la vittoria sul peccato e sulla morte. Il nome di Gesù ci svela il nome del Padre: Abbà, Papà. Così si apre di nuovo dinanzi a noi l'oriente, l'orizzonte infinito nel quale è deposta la nostra vita.


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