2 agosto. Perdono di Assisi




Quella notte in cui Cristo apparve a san Francesco che pregava in Porziuncola 


All'origine della «Festa del Perdono» c'é un episodio della vita di san Francesco. Una notte del 1216, era immerso nella preghiera alla Porziuncola. All'improvviso entrò una luce fortissima e Francesco vide sopra l'altare il Cristo e alla sua destra la Madonna e gli Angeli. Gli chiesero che cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta fu immediata: «Santissimo Padre, benché io sia misero e peccatore, ti prego di concedere ampio e generoso perdono». La sua richiesta fu esaudita così da quell'anno, dopo aver ricevuto il permesso dal Pontefice Onorio III, il 2 Agosto si celebra la «Festa del Perdono» a Santa Maria degli Angeli ma anche in tutte le parrocchie e le chiese francescane. E' concessa l'indulgenza a chi si comunica, si confessa c prega per il Papa 

Dal mezzogiorno del 1° Agosto alla mezzanotte del giorno seguente si può ottenere, una sola volta l’indulgenza plenaria della Porziuncola.


QUI LA STORIA, LE CONDIZIONI PER RICEVERE L'INDULGENZA E UN BELLISSIMO TESTO DEL CARD. RATZINGER 






Ispirato da Dio in una visione, alla quale alluderà egli stesso, Francesco concepì il disegno di domandare, per la sua Porziuncola, un privilegio che poteva sembrar follia per un luogo così umile e sconosciuto.
Da un antico racconto, che il Sabatier e il Faloci giudicarono la più genuina narrazione dello straordinario evento, sappiamo che il Santo colse il momento dell’elezione di Onorio III per la sua grande richiesta:

“Trovandosi il beato padre Francesco presso santa Maria della Porziuncola, una notte gli fu rivelato dal Signore che doveva recarsi dal sommo Pontefice messer Onorio, che era allora a Perugia, per impetrare l’indulgenza per la chiesa stessa di S. Maria della Porziuncola allora da lui riparata.

Egli, levandosi al mattino, chiamò il suo compagno fra Masseo da Marignano e recatosi dal detto messer Onorio gli disse: ‘Padre santo mio signore, poco tempo fa ho restaurato in onore della Vergine gloriosa una chiesa; supplico la Santità Vostra che vi poniate un’indulgenza senza offerte’. Rispondendogli, il Papa disse: ‘Non è opportuno far questo; chi infatti richiede un’indulgenza, bisogna che stenda la sua mano in aiuto. Ma dimmi quanti anni vuoi e quanto d’indulgenza io vi debba porre’. San Francesco gli rispose: ‘Padre santo, piaccia alla Santità Vostra non darmi anni ma anime!’. E il signor Papa disse: ‘Come, vuoi anime?’. Disse il beato Francesco: ‘Voglio, Padre santo, se piace alla Vostra Santità, che quanti confessati e contriti, e, com’è dovere, assolti dal sacerdote, entreranno in quella chiesa, siano liberati dalla pena e dalla colpa, in cielo e in terra, dal giorno del battesimo fino al giorno e all’ora dell’ingresso nella detta chiesa’. E il signor Papa soggiunse: ‘È assai e grande cosa ciò che tu chiedi, Francesco, ma mai la Curia romana fu solita concedere una tale indulgenza’.

Disse il beato Francesco: ‘Signore, ciò che chiedo, non lo chiedo per mia iniziativa, ma da parte di Colui che mi ha mandato, cioè il Signore Gesù Cristo’. Allora il Papa subito lo interruppe, dicendo per tre volte: ‘Ci piace che tu l’abbia!’. Allora i signori cardinali che erano presenti intervennero: ‘Badate, Signore, che se concedete a costui una tale indulgenza, distruggete quella d’oltremare’.

Il signor Papa rispose: ‘Gliela abbiamo data e concessa; non possiamo né dobbiamo annullare ciò che abbiamo fatto. Ma modifichiamola, affinché sia estesa soltanto a un unico giorno naturale’. Allora richiamò frate Francesco e gli disse: ‘Ecco che da questo momento concediamo che chiunque si recherà alla detta chiesa e vi entrerà contrito e ben confessato, sia assolto dalla pena e dalla colpa. E vogliamo che ciò valga ogni anno in perpetuo, solo per un giorno naturale, dai primi vespri inclusa la notte fino ai vespri del giorno successivo’. Allora il beato Francesco, chinato il capo, usciva dal palazzo. E il signor Papa vedendolo partire lo richiamò dicendogli: ‘O semplicione, come te ne vai? Che cosa porti con te di questa indulgenza?’ Il beato Francesco rispose: ‘Mi è sufficiente la sola vostra parola. Se è opera di Dio, deve Lui manifestare l’opera sua! Di questo non voglio altro documento; ma che soltanto sia la carta la beata Vergine Maria, Cristo sia il notaio e testimoni gli Angeli’”.

Successive tradizioni hanno precisato che il 2 agosto di quello stesso 1216 fu consacrata la cappella della Porziuncola con la partecipazione di sette vescovi dell’Umbria. In quella occasione fu lo stesso san Francesco ad annunciare alla folla dei devoti presenti la straordinaria indulgenza, che aveva ottenuto dal papa.




CONDIZIONI PER RICEVERE L'INDULGENZA PLENARIA DEL PERDONO DI ASSISI,
(per sé o per i defunti) 


· Confessione sacramentale per essere in grazia di Dio (negli otto giorni precedenti o seguenti); 

· Partecipazione alla Messa e Comunione eucaristica; 

· Visita alla chiesa della Porziuncola in Assisi, o ad una chiesa parrocchiale, o ad una chiesa francescana dove si rinnova la professione di fede, mediante la recita del CREDO, per riaffermare la propria identità cristiana; 

· La recita del PADRE NOSTRO, per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo; 

· Una preghiera secondo le intenzioni del Papa, per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice. 

· Una preghiera per il Papa.
 





Joseph Ratzinger. La Porziuncola di San Francesco d’Assisi. Che cosa significa l’indulgenza? 


Se si arriva ad Assisi provenendo da sud, sulla pianura che si estende davanti alla città si incontra dapprima la maestosa basilica di Santa Maria degli Angeli, dei secoli XVI e XVII, con una facciata classicistica del secolo scorso. Per dire la verità, essa mi lascia piuttosto freddo; è difficile cogliere qualcosa della semplicità e dell'umiltà di san Francesco in questo edificio che si presenta con tanta magnificenza esteriore. Quel che cerchiamo, lo troviamo però al centro della basilica: una cappella medievale in cui degli antichi affreschi ci raccontano episodi della storia della salvezza e della vita di san Francesco, che proprio in questo luogo visse importanti esperienze. In quello spazio basso e poco illuminato possiamo percepire qualcosa del raccoglimento e della commozione che vengono dalla fede dei secoli, che qui ha trovato un luogo di riparo e di orientamento. Al tempo di san Francesco il territorio circostante era coperto di boschi, paludoso e disabitato.

Nel terzo anno dalla sua conversione Francesco si imbatté in questa piccola chiesa, ormai del tutto cadente, che apparteneva all'abbazia benedettina del monte Subasio. Come aveva già fatto in precedenza con le due chiese di San Damiano e di San Pietro, restaurate con le sue mani, Francesco si mise al lavoro anche qui, nella chiesetta della Porziuncola dedicata a Santa Maria degli Angeli, in cui egli venerava la Madre di ogni bontà. Lo stato di abbandono in cui si trovavano tutte queste piccole chiese dovette parergli un triste segno della condizione della Chiesa stessa; egli ancora non sapeva che, restaurando quegli edifici, si stava preparando a rinnovare la Chiesa vivente. Ma proprio in questa cappella gli si fece incontro la chiamata definitiva, che diede alla sua missione la sua vera forma e permise la nascita dell'ordine dei Frati Minori, che peraltro all'inizio non fu affatto pensato come ordine religioso, ma come un movimento di evangelizzazione che doveva raccogliere di nuovo il popolo di Dio per il ritorno del Signore.

A Francesco accadde quello che nel terzo secolo era già accaduto a sant'Antonio d'Egitto: udì durante una celebrazione liturgica il vangelo della chiamata dei dodici da parte del Signore, che affidava loro il compito di annunciare il regno di Dio e di mettersi in cammino a questo scopo, senza averi e senza sicurezze mondane. Inizialmente Francesco non aveva compreso del tutto quel testo; se lo fece quindi spiegare dal sacerdote e a quel punto gli fu chiaro che quello era anche il suo compito. Depose le sue calzature, tenne solo una tunica e si accinse ad annunciare il regno di Dio e la penitenza. Attorno a lui si raccolsero a poco a poco dei compagni che, come i dodici, cominciarono a loro volta ad andare di luogo in luogo e ad annunciare il vangelo che per loro, come per Francesco, significava gioia per quel nuovo inizio, gioia per il cambiamento che si era prodotto nelle loro vite, per il coraggio della penitenza.

La Porziuncola era divenuta per Francesco il luogo dove finalmente aveva compreso il vangelo, perché non lo accostava più a teorie e glosse esplicative, ma voleva viverlo alla lettera. Si era infatti accorto che non si trattava di parole del passato, ma di un appello che si rivolgeva direttamente ed esplicitamente a lui come persona.

Per questo sempre alla Porziuncola consegnò a santa Chiara l'abito religioso, dando così inizio al ramo religioso femminile del suo Ordine, chiamato a dare un sostegno interiore al compito evangelico mediante la preghiera.

Per questo, quando si sentì prossimo alla morte, volle essere trasportato proprio in quel luogo.

Porziuncola significa piccola porzione, piccolo pezzo di terra. Francesco non volle mai che essa diventasse di proprietà dei suoi frati, preferì che i benedettini la concedessero loro in uso; e proprio in quel modo, come qualcosa che non era di proprietà, doveva esprimere la vera proprietà e l'autentica novità del suo movimento. Per esso doveva valere la parola del salmo 16, che nell' Antico Testamento esprimeva il particolare destino della tribù sacerdotale di Levi, cui non apparteneva nessuna terra, perché la sua unica terra era Dio stesso: «Tu, o Signore, sei mia parte e mia eredità - sì, della mia eredità mi sono compiaciuto».

La Porziuncola - lo abbiamo visto - è anzitutto un luogo, ma grazie a Francesco d' Assisi è divenuto una realtà dello spirito e della fede, che proprio qui si fa sensibile e diventa un luogo concreto in cui possiamo entrare, ma grazie al quale possiamo anche accedere alla storia della fede e alla sua forza sempre efficace.

Che poi la Porziuncola non ci ricordi solo grandi storie di conversione del passato, non rappresenti solo una semplice idea, ma riesca ancora ad accostarci al legame vivente di penitenza e di grazia, ciò dipende dal cosiddetto perdono d' Assisi, che più propriamente dovremmo chiamare perdono della Porziuncola. Qual è il suo vero significato? Secondo una tradizione che sicuramente risale almeno alla fine del secolo XIII, Francesco nel luglio del 1216 avrebbe fatto visita nella vicina Perugia al papa Onorio III, subito dopo la sua elezione, e gli avrebbe sottoposto una richiesta inusuale: chiese al pontefice di concedere l'indulgenza plenaria per tutta la loro vita precedente a tutti coloro che si fossero recati nella chiesetta della Porziuncola, confessandosi e facendo penitenza dei propri peccati.

Il cristiano di oggi si chiederà che cosa possa significare un tale perdono, dal momento che presupponeva comunque penitenza personale e confessione. Per comprenderlo dobbiamo tener presente che a quel tempo, malgrado tanti cambiamenti, continuavano a valere gli elementi essenziali della disciplina penitenziale dell'antica Chiesa. Tra questi vi era
la convinzione che, dopo il battesimo, il perdono non potesse essere concesso semplicemente con l'atto dell'assoluzione, ma - come già in precedenza nella preparazione al battesimo - che esigesse un cambiamento reale di vita, una rimozione interiore del male. L'atto sacramentale doveva legarsi a un atto esistenziale, a un lavoro profondo e reale sulla propria colpa, che veniva appunto chiamato penitenza. Perdono non significa che questo processo esistenziale diventa superfluo, ma che riceve un senso, che viene fatto proprio.

Al tempo di san Francesco come forma principale di penitenza imposta dalla Chiesa, in stretto rapporto con il perdono dei peccati, era invalso l'uso di intraprendere un grande pellegrinaggio, a Santiago, a Roma e, soprattutto a Gerusalemme. Il lungo, pericoloso e difficile viaggio a Gerusalemme poteva davvero diventare per molti pellegrini un viaggio interiore; tuttavia un aspetto molto concreto era anche il fatto che in Terra Santa le offerte che esso portava con sé erano divenute la fonte più importante per il mantenimento della Chiesa locale. In proposito non si dovrebbe storcere troppo facilmente il naso: in tal modo la penitenza acquistava anche una valenza sociale.

Se dunque - come vuole la tradizione - Francesco aveva avanzato la richiesta che tutto questo potesse essere ottenuto con la visita orante al santo luogo della Porziuncola, ciò era legato davvero a qualcosa di nuovo: una indulgenza, che doveva cambiare l'intera prassi penitenziale. Si può senz'altro comprendere che i cardinali fossero scontenti della concessione di questo privilegio da parte del papa e temessero per il sostentamento economico della Terra Santa, tanto che il perdono della Porziuncola fu inizialmente ridotto a un solo giorno all'anno, quello della dedicazione della Chiesa, il 2 agosto.

A questo punto, però, ci si domanda se il papa potesse far questo così semplicemente. Può un papa dispensare da un processo esistenziale, quale era quello previsto dalla grande prassi penitenziale della Chiesa? Ovviamente, no. Quel che è un' esigenza interiore dell'esistenza umana, non può essere reso superfluo mediante un atto giuridico. Ma non si trattava affatto di questo. Francesco, che aveva scoperto i poveri e la povertà, nella sua richiesta era spinto dalla sollecitudine per quelle persone a cui mancavano i mezzi o le forze per un pellegrinaggio in Terra Santa; coloro che non potevano dare nulla, se non la loro fede, la loro preghiera, la loro disponibilità a vivere secondo il vangelo la propria condizione di povertà. In questo senso l'indulgenza della Porziuncola è la penitenza di coloro che sono tribolati, che la vita stessa carica già di una penitenza sufficiente. Senza dubbio a ciò si legava anche un 'interiorizzazione del concetto stesso di penitenza, sebbene non mancasse certamente la necessaria espressione sensibile dal momento che implicava comunque il pellegrinaggio al semplice e umile luogo della Porziuncola, che allo stesso tempo doveva essere anche un incontro con la radicalità del vangelo, come Francesco l'aveva appresa proprio in quel posto.

È innegabile che all'idea di indulgenza che proprio qui gradatamente assunse il suo carattere specifico, si legava anche il pericolo di abusi, come la storia ci ha insegnato in termini sufficientemente drammaticiMa se alla fine si conserva solo il ricordo degli abusi, allora si è caduti in una perdita di memoria e in un atteggiamento di superficialità, con cui si danneggia soprattutto se stessi. Come sempre, infatti, ciò che è grande e puro è più difficile da vedere di ciò che è rozzo e meschino.

Ora non posso certo spiegare tutto il complesso intreccio di esperienze e di conoscenze che si è sviluppato a partire dall'evento della Porziuncola. Voglio solo cercare di tracciare le linee più importanti. Dopo la concessione di questa particolare indulgenza si arrivò ben presto a un passo ulteriore. Proprio le persone umili e di fede semplice finirono per chiedersi: perché solo per me stesso? Non posso forse comunicare anche ad altri quel che mi è stato dato in ambito spirituale, come avviene in ambito materiale? Il pensiero si rivolgeva soprattutto alle povere anime, a coloro che nella vita erano stati loro vicini, che li avevano preceduti nell'altro mondo e il cui destino non poteva essere loro indifferente. Si sapeva degli errori e delle debolezze delle persone che erano state care o dalle quali si erano forse ricevuti anche dei dispiaceri. Perché non ci si poteva preoccupare di loro? Perché non cercare di fare loro del bene anche al di là della tomba, di accorrere in loro aiuto, laddove possibile, nel difficile viaggio delle anime?

Qui si fa evidente un sentimento antico dell'umanità, che ha trovato molteplici espressioni nei culti degli antenati e dei morti lungo tutta la storia dell'umanità. La fede cristiana non ha affatto negato valore a tutto ciò, ma ha cercato di purificare questo sentimento e di farlo emergere nel suo senso più autentico. «Se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore», dice Paolo (Rm 14,8). Questo significa: il vero limite non è più la morte, ma l'appartenere o il non appartenere al Signore. Se gli apparteniamo, allora siamo vicini gli uni agli altri per mezzo di lui e in lui.

Per questo - era la conseguenza logica - c'è un amore che va al di là dei limiti della morte. Così, a chi chiedeva se qualcosa della forza donata dal perdono potesse essere comunicato anche all'aldilà, veniva risposto di sì, con la formula per modum suffragii - per mezzo della preghieraLa preghiera per i defunti, da sempre appartenente alla Chiesa, guadagnava così una particolare intensità. E questa promessa fu proprio ciò che fece dell'indulgenza un grande invito alla preghiera, al di là di tutti gli abusi e di tutti gli equivoci.

Qui devo aggiungere che nel corso del tempo l'indulgenza in un primo momento riservata solo al luogo della Porziuncola, fu poi estesa prima a tutte le chiese francescane e, infine, a tutte le chiese parrocchiali per il 2 agosto. Nei ricordi della mia giovinezza il giorno del perdono d'Assisi è rimasto come un giorno di grande interiorità, come un giorno in cui si ricevevano i sacramenti in un clima di raccoglimento personale, come un giorno di preghiera. Nella piazza antistante la nostra chiesa parrocchiale in quel giorno regnava un silenzio particolarmente solenne. Entravano e uscivano in continuazione persone dalla chiesa. Si sentiva che il cristianesimo è grazia e che questa si dischiude nella preghiera.
Indipendentemente da ogni teoria sull'indulgenza, era quello un giorno di fede e di silenziosa speranza, di una preghiera che si sapeva certamente esaudita e che valeva soprattutto per i defunti.

Nel corso del tempo, tuttavia, a tutto questo si aggiunse un'altra idea, che oggi può apparirci alquanto estranea, ma che, peraltro, contiene un'importante verità. Quanto più l'indulgenza veniva intesa come un porsi a sostegno degli altri, tanto più si faceva strada un altro concetto, che dava un fondamento teologico a questa nuova forma e, nel contempo, la avviava verso sviluppi ulteriori. La preghiera indirizzata all'altro mondo implicava necessariamente l'idea della comunione dei santi e della comunicazione dei beni spirituali.

A questo punto vi chiederete ancora una volta: ma che cosa significa tutto questo? non si tratta forse di un insensato mercantilismo religioso? La domanda si fa più acuta se si tiene conto che si parlava proprio di tesoro della Chiesa, che consisteva nei meriti accumulati dai santi. Che cosa si intendeva dire? Non è forse vero che ognuno deve rispondere personalmente di se stesso? Che significato possono avere per me le buone opere compiute da un altro? Sono queste le domande che ci poniamo, perché, malgrado tutti gli ideali socialisti, continuiamo a vivere del meschino e ristretto individualismo dell'epoca moderna. In realtà, però, nessun uomo è chiuso in se stesso. Ciascuno di noi vive in rapporto con gli altri e dipende dagli altri, non solo dal punto di vista materiale, ma anche da quello spirituale, culturale e morale.

Cerchiamo di esemplificare questo concetto cominciando dal suo versante negativo. Vi sono persone che non distruggono solo se stesse, ma portano alla rovina anche gli altri, lasciando dietro di sé forze di distruzione che spingono verso il negativo intere generazioni. Se pensiamo ai grandi seduttori del nostro secolo, sappiamo quanto ciò sia reale. La negazione di uno diventa una malattia contagiosa, che coinvolge anche gli altri.

Ma, grazie a Dio, ciò non vale solo per il negativo. Vi sono persone che lasciano dietro di sé una sorta di sovrappiù d'amore, di dolore sofferto e vissuto fino in fondo, di letizia, sincerità e verità, che prende anche gli altri, li accompagna e li sostiene. Esiste davvero qualcosa come la sostituzione vicaria nel più profondo dell'esistenza. Tutto il mistero di Cristo poggia proprio su questo.

Ora si può dire: bene, è così. Ma allora basta il sovrappiù dell'amore di Cristo, non c'è bisogno d'altro. Lui solo libera e redime, tutto il resto sarebbe presunzione, come se noi dovessimo aggiungere qualcosa all'infinità del suo amore con la nostra finitudine. È vero, ma non è vero del tutto. Infatti la grandezza dell'amore di Cristo è tale che non ci lascia nella condizione di chi riceve passivamente, ma ci coinvolge fino in fondo nella sua opera e nella sua passione. Lo afferma un celebre passo della lettera ai Colossesi: «Compio nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo, per il suo corpo» (Col 1,24).

Ma vorrei far riferimento anche a un altro passo neotestamentario, in cui mi pare che questa verità sia espressa in modo meraviglioso. L'Apocalisse di san Giovanni parla della sposa, la Chiesa, in cui è raffigurata l'umanità salvata. Mentre la meretrice Babilonia appare vestita di abiti e ornamenti lussuosi e appariscenti, la sposa indossa solo una semplice veste di lino bianco, sia pure di quel bisso puro e splendente che è particolarmente prezioso. In proposito il testo osserva: «Questa veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,8). Nella vita dei santi viene tessuto questo radioso bisso bianco, che è l'abito dell'eternità.

Usciamo dalla metafora: nell'ambito spirituale tutto appartiene a tutti. Non c'è nessuna proprietà privata. Il bene di un altro diventa il mio e il mio diventa suo. Tutto viene da Cristo, ma poiché noi gli apparteniamo, anche ciò che è nostro diventa suo ed è investito di forza salvifica. È questo ciò che si intende con le espressioni «tesoro della Chiesa» o «meriti» dei santi.

Chiedere l'indulgenza significa entrare in questa comunione di beni spirituali e mettersi a propria volta a sua disposizione. La svolta nell'idea di penitenza, che ha avuto inizio alla Porziuncola, ha conseguentemente portato a questo punto: anche spiritualmente nessuno vive per se stesso. E solo allora la preoccupazione per la salvezza della propria anima si libera dall'ansia e dall'egoismo, proprio perché diventa preoccupazione per la salvezza degli altri.

Così la Porziuncola e l'indulgenza che da lì ha avuto origine diventa un compito, un invito a mettere la salvezza degli altri al di sopra della mia e, proprio in questo modo, a trovare anche me stesso. Si tratta di non chiedere più: sarò salvato? ma: che cosa vuole Dio da me perché altri siano salvati?

L'indulgenza rinvia alla comunione dei santi, al mistero della sostituzione vicaria, alla preghiera come via per diventare una cosa sola con Cristo e con il suo volere. Egli ci invita a partecipare alla tessitura dell'abito bianco della nuova umanità, che proprio nella sua semplicità è la vera bellezza.

L’indulgenza in fondo è un po' come la chiesa della Porziuncola: come bisogna percorrere gli spazi piuttosto freddi ed estranei del grande edificio per trovare al suo centro l'umile chiesetta che tocca il nostro cuore, così occorre attraversare il complesso intreccio della storia e delle idee teologiche per giungere a ciò che è davvero semplice: alla preghiera, con cui ci lasciamo cadere nella comunione dei santi, per cooperare con essi alla vittoria del bene sull'apparente onnipotenza del male, sapendo che alla fine tutto è grazia.







IL DILOMA DI TEOBALDO
Fonti Francescane 3391-3399

Il “Diploma” scritto da Teobaldo (frate minore e vescovo di Assisi), emanato dalla curia vescovile il 10 agosto 1310, rappresenta il punto d’arrivo e il perfezionamento formale della documentazione riguardante la complessa vicenda dell’origine dell’Indulgenza della Porziuncola. Per questa sua caratteristica di ufficialità, il Diploma è chiamato anche “Canone Teobaldino”. Il documento, per quanto motivato da preoccupazione polemica contro i detrattori dell’Indulgenza, è impostato con impeccabile rigore narrativo e giuridico, saldamente ancorato alla realtà del momento drammaticamente teso ad evadere dal dilemma “vero-falso” per rifugiarsi nel “vero” dell’Indulgenza.
Nel corso dei secoli la concessione subirà molte variazioni, fino ad un massimo d’estensione, a tutti i giorni per la chiesa della Porziuncola, per tutte le chiese francescane e non il solo 2 agosto. La disciplina attuale è stata fissata da Paolo VI nella Lettera Apostolica Sacrosancta Porziuncolae Ecclesia del 14 luglio 1966, inviata al Vicario Generale dell’Ordine dei Frati Minori, fr Costantino Koser in occasione del 750° anno della concessione dell’Indulgenzia della Porziuncola.
Segue il testo, in italiano, del Diploma di Teobaldo e il video di una parziale lettura che se ne fa nella Basilica Papale di Santa Maria degli Angeli il mezzogiorno del 1 agosto, dichiarando così l’apertura della Solennità del Perdono di Assisi o Indulgenza della Porziuncola.

Frate Teobaldo, per grazia di Dio vescovo di Assisi, augura a tutti i fedeli di Cristo, che vedranno la presente lettera, la salvezza nel Salvatore di tutti.
A motivo della maldicenza di alcuni detrattori che, animati dallo zelo dell’invidia o forse dell’ignoranza, con facce di bronzo parlano contro l’Indulgenza di Santa Maria degli Angeli presso Assisi, siamo costretti a rendere noto a tutti i fedeli con la presente lettera le modalità e le caratteristiche dell’Indulgenza e in quali circostanze il beato Francesco, mentre era in vita, l’ottenne da papa Onorio.
Il beato Francesco risiedeva presso Santa Maria della Porziuncola, ed una notte gli fu rivelato dal Signore che si recasse dal sommo pontefice Onorio, che in quel tempo dimorava a Perugia, per impetrare una Indulgenza a favore della medesima chiesa di Santa Maria della Porziuncola, riparata allora da lui stesso. Egli, alzatosi di mattina, chiamò frate Masseo da Marignano, suo compagno, col quale si trovava, e si presentò al cospetto di papa Onorio, e disse: “Santo Padre, di recente, ad onore della Vergine Madre di Cristo, riparai per voi una chiesa. Prego umilmente vostra santità che vi poniate un’Indulgenza senza oboli”. Il papa rispose: “Questo, stando alla consuetudine, non si può fare, poiché è opportuno che colui che chiede un’Indulgenza la meriti stendendo la mano ad aiutare, ma tuttavia indicami quanti anni vuoi che io fissi riguardo all’Indulgenza”. San Francesco gli rispose: “Santo Padre, piaccia alla vostra santità concedermi, non anni, ma anime”. Ed il papa riprese: “In che modo vuoi delle anime?”. Il beato Francesco rispose: “Santo Padre, voglio, se ciò piace alla vostra santità, che quanti verranno a questa chiesa confessati, pentiti e, come conviene, assolti dal sacerdote, siano liberati dalla colpa e dalla pena in cielo e in terra, dal giorno del battesimo al giorno ed all’ora dell’entrata in questa chiesa”. Il papa rispose: “Molto è ciò che chiedi, o Francesco; non è infatti consuetudine della Curia romana concedere una simile indulgenza”. Il beato Francesco rispose: “Signore, ciò che chiedo non viene da me, ma lo chiedo da parte di colui che mi ha mandato, il Signore Gesù Cristo”. Allora il signor papa, senza indugio proruppe dicendo tre volte: “Ordino che tu l’abbia”.
I cardinali presenti obiettarono: “Badate, signore che se concedete a costui una tale Indulgenza, farete scomparire l’Indulgenza della Terra Santa e ridurrete a nulla quella degli apostoli Pietro e Paolo, che sarà tenuta in nessun conto”. Rispose il papa: “Gliela abbiamo data e concessa, non possiamo né è conveniente annullare ciò che è stato fatto, ma regoliamola in modo tale che la sua validità si estenda solo per una giornata”.
Allora chiamò san Francesco e gli disse: “Ecco, da ora concediamo che chiunque verrà ed entrerà nella predetta chiesa, opportunamente confessato e pentito, sia assolto dalla pena e dalla colpa; e vogliamo che questo valga ogni anno in perpetuo ma solo per una giornata, dai primi vespri compresa la notte, sino ai vespri del giorno seguente”.
Mentre il Beato Francesco, fatto l’inchino, usciva dal palazzo, il papa, vedendolo allontanarsi, chiamandolo disse: “O semplicione dove vai? Quale prova porti tu di tale Indulgenza?”. E il Beato Francesco rispose: “Per me è sufficiente la vostra parola. Se è opera di Dio, tocca a Lui renderla manifesta. Di tale Indulgenza non voglio altro istrumento, ma solo che la Vergine Maria sia la carta, Cristo sia il notaio e gli Angeli siano i testimoni”.
Egli poi, lasciando Perugia e ritornando verso Assisi, a metà strada, in una località che è chiamata Colle, ove era un lebbrosario, riposandosi un po’ con il compagno, si addormentò. Al risveglio, dopo la preghiera, chiamò il compagno e gli disse: “Frate Masseo, ti dico da parte di Dio che l’Indulgenza concessami dal sommo pontefice è confermata in cielo”. E questo lo riferisce frate Marino, nipote del detto frate Masseo, che lo udì di frequente dalla bocca del proprio zio. E questo frate Marino da poco tempo, verso il 1307, carico d’anni e di meriti, si è addormentato nel Signore.
Dopo la morte del beato Francesco poi, frate Leone, uno dei suoi compagni, uomo di vita esemplare, così come l’aveva udita dalla bocca di san Francesco e frate Benedetto d’Arezzo, parimenti compagno di san Francesco e frate Rainerio d’Arezzo, come l’avevano udita da frate Masseo, riferirono attorno a questa Indulgenza molte cose, sia ai frati sia ai laici, molti dei quali sono ancora in vita e attestano tutte queste cose.
Con quanta solennità poi fu resa pubblica l’Indulgenza nell’occasione della consacrazione della stessa chiesa da parte di sette vescovi, non intendiamo scrivere se non soltanto quello che Pietro Zalfani, presente a detta consacrazione, affermò davanti a frate Angelo ministro provinciale, a frate Bonifazio, frate Guido, frate Bartolo da Perugia e ad altri frati del convento della Porziuncola: e cioè che egli era presente alla consacrazione di quella chiesa, che fu celebrata il 2 agosto ed aveva ascoltato il Beato Francesco mentre predicava alla presenza di quei vescovi; che egli aveva in mano la “cedola” (foglio di pergamena) e diceva: “Io vi voglio mandare tutti in paradiso e vi annuncio una Indulgenza che ho ottenuto dalla bocca del sommo pontefice. Tutti voi che siete venuti oggi, e tutti coloro che ogni anno verranno in questo giorno, con buona disposizione di cuore e pentiti, abbiano l’Indulgenza di tutti i loro peccati”.
Pertanto, abbiamo premesso queste cose, riguardo all’Indulgenza, per coloro che ne erano all’oscuro, affinché non siano scusati più a lungo per la loro ignoranza e soprattutto per gli invidiosi e i detrattori, che in alcune parti si adoperano a distruggere, sopprimere e condannare quello che tutta l’Italia, la Francia, la Spagna e le altre province, sia al di qua che al di là dei monti, anzi quello che Dio stesso, ad onore della sua Madre santissima, da cui si intitola l’indulgenza, con frequenti ed evidenti miracoli, quasi ogni giorno magnificano, glorificano e diffondono. In quale modo essi potranno, con i loro perversi ragionamenti infirmare ciò che da tanto tempo dura in tutta la sua forza e vigore, davanti a tutta la Curia romana? Infatti, lo stesso signor papa Bonifacio VIII, anche ai nostri giorni, ha inviato a questa Indulgenza alcuni rappresentanti ufficiali, perché la predicassero solennemente in suo nome, nel giorno del perdono. Inoltre, anche alcuni cardinali, venendo di persona a questa Indulgenza, nella speranza di conseguire il perdono, con la loro presenza l’approvarono come vera e certa.
A testimonianza e in fede di tutto ciò, abbiamo inviato questa lettera munita del nostro sigillo.


Dato in Assisi, nella festa di San Lorenzo dell’anno del Signore 1310.




LE PRIME TESTIMONIANZE

Voci di genti di lingue diverse ...

Il papa, vedendolo allontanarsi, chiamandolo disse: “O semplicione dove vai? Quale prova porti tu di tale Indulgenza?”.
E il Beato Francesco rispose: “Per me è sufficiente la vostra parola. Se è opera di Dio, tocca a Lui renderla manifesta. Di tale Indulgenza non voglio altro istrumento, ma solo che la Vergine Maria sia la carta, Cristo sia il notaio e gli Angeli siano i testimoni”.

Dell’Indulgenza, nelle Vite di san Francesco più antiche e autorevoli, non si trovano esplicite testimonianze. Solo nella Vita seconda del Celano il mistero sembra infrangersi. Parlando ancora della Porziuncola, scelta da san Francesco come “particella del mondo per sé e per i suoi”, conclude: “Il Padre beato soleva dire essergli stato rivelato da Dio che la beata Vergine, tra le altre chiese costruite nel mondo in suo onore, quella prediligeva; e perciò il Santo l’amava più delle altre”. Proprio a questo punto, il Celano inserisce questa visione: “Un santo frate, prima della sua conversione, aveva avuto, a proposito di S. Maria degli Angeli, una visione degna di essere riferita. Stava osservando innumerevoli ciechi, che con gli occhi dolorosamente spenti e la faccia rivolta al cielo, erano inginocchiati attorno alla detta chiesa. Tutti, con voce di pianto e le mani protese in alto, gridavano a Dio, chiedendo luce e misericordia. Ed ecco, scese dal cielo uno splendore, che, irradiandosi su tutti, donò a ciascuno la luce e la salvezza desiderata”. È quasi impossibile - soprattutto se si considera la collocazione di questo racconto - non vedervi un’allusione assai trasparente all’Indulgenza.
Stando ai documenti ritrovati le primissime testimonianze scritte risalgono a sei decenni dopo quell’annuncio giunto fino a noi: “Voglio mandarvi tutti in paradiso!”. Particolarmente preziosa, nel 1277, è la testimonianza di Pietro Zalfani, un nobile assisano, il quale dichiarò di aver assistito, nel 1216, alla consacrazione della Porziuncola e di aver udito da san Francesco la proclamazione dell’Indulgenza.
Non sappiamo quanto numeroso fosse l’uditorio che il 2 agosto 1216 ascoltò san Francesco promulgare l’Indulgenza, né possiamo dare sicura fiducia all’elenco, trasmesso da Michele Bernardi, di nobili di Assisi, di Perugia, di Foligno e di altri paesi vicini. Ma da un lavoro di Arnaldo Fortini, attraverso il quale si è risaliti ad una precisa identificazione storica di alcuni dei nobili elencati, si traggono elementi a favore dell’autenticità di quell’evento per quanto fosse rimasto inizialmente circoscritto.
Nel giro di un sessantennio dal 1216, la notizia della straordinaria concessione fatta a san Francesco, anche se divulgata con prudente cautela dopo il primo solenne annuncio, per non accrescere opposizioni e invidiose gelosie che subito si manifestarono, si diffuse a macchia d’olio, attirando alla Porziuncola folle sempre più numerose da regioni via via più lontane, e ben presto fu nota nel mondo come il “Perdono d’Assisi”. E tutto questo avvenne sotto gli occhi della Curia romana, che mai intervenne per arginare o sospendere questo afflusso crescente di fedeli verso Santa Maria degli Angeli.
L. Wadding attesta che il beato Francesco da Fabriano si recò alla Porziuncola, giovane novizio francescano, per lucrare l’Indulgenza nel 1268. Qui egli incontrò frate Leone, uno dei primi compagni di San Francesco, e ne lesse gli “scritti”.
Il 31 ottobre 1277fra Benedetto d’Arezzo e fra Raniero di Mariano d’Arezzo attestarono di aver udito da fra Masseo, che aveva accompagnato a Perugia san Francesco, la narrazione della concessione dell’Indulgenza. Allo stesso racconto di fra Masseo si riferiscono le testimonianze che vengono attribuite a fra Oddone d’Acquasparta e a fra Marino d’Assisi, nipote di fra Masseo, che asserisce di aver udito dallo stesso zio le cose che attesta.
Il 19 agosto, probabilmente dello stesso 1277frate Angelo raccolse la testimonianza di Giacomo Coppoli di Perugia, il quale disse di aver avuto da fra Leone la conferma della validità dell’Indulgenza, perché accreditata dal racconto di san Francesco stesso proprio a lui, frate Leone. A questi, il Santo avrebbe raccomandato di tener segreto il fatto fin verso la fine della sua vita. Un particolare, questo, che potrebbe spiegare la ragione del lungo silenzio letterario sull’Indulgenza.
Indipendente dalla raccolta di frate Angelo, ma attribuibile, pare, agli anni 1279-’80, è laQuaestio de Indulgentia Portiunculae di Pier Giovanni Olivi. Il celebre teologo che, intorno al 1279, si recò, forse ripetutamente, alla Porziuncola, sentì il bisogno di dare una giustificazione teologica al grande privilegio dell’Indulgenza, della quale mostra di conoscere i particolari storici.
Attesta, tra l’altro, l’impressionante afflusso di pellegrini all’Indulgenza e riferisce di aver sentito, da un uomo degno di fede, che questi aveva spesso sentito frate Egidio, compagno di san Francesco, narrare come il Santo invitasse frequentemente i primi compagni ad ascoltare ciò che egli sentiva, cioè “voci di genti di lingue diverse” dirette verso la Porziuncola; e che lo stesso frate Egidio era solito dire che se il mondo sapesse le grazie compiute in quel luogo, non soltanto dai luoghi vicini dovrebbero venire, ma anche dai confini della terra; e non solo i fedeli, ma gli stessi infedeli”. Parole misteriose, che sembrano confermare il “teneas secretum...” imposto a frate Leone. Questa prima serie di testimonianze sembrò momentaneamente tacitare l’opposizione, che ben presto riprese sempre accanita.
Fu allora che il vescovo di Assisi Teobaldo Pontani, quasi certamente il 10 agosto 1310, redasse il documento, oggi noto come “Diploma di Teobaldo”, del quale continuano ad affiorare da vari archivi d’Italia e d’Europa le varie copie spedite da Assisi con data aggiornata al momento della spedizione. Teobaldo, dopo aver narrato il fatto della concessione fatta a san Francesco da Onorio III, riportava, a conferma, i vari nomi di fra Marino, fra Leone, Benedetto d’Arezzo, Pietro Zalfani già da noi citati, dichiarando di avere scritto queste cose sia per illuminare gli ignoranti, sia “soprattutto per gli invidiosi e i detrattori, che in alcune parti si adoperano a distruggere e condannare quello che tutta l’Italia, la Francia, la Spagna e altre provincie […] quasi ogni giorno magnificano, glorificano e diffondono”.
E concludeva chiedendosi come si potesse infirmare “ciò che da tanto tempo dura, in tutta la sua forza e vigore, davanti a tutta la Curia romana”; infatti lo stesso Bonifacio VIII aveva inviato recentemente “a questa Indulgenza, rappresentanti ufficiali, perché la predicassero solennemente in suo nome, nel giorno del Perdono; e alcuni cardinali, venendo di persona a questa Indulgenza, nella speranza di conseguire il Perdono, con la loro presenza l’approvavano come vera e certa”. Già prima di Teobaldo, nel 1305, aveva espresso una testimonianza importante sull’Indulgenza il teologo Ubertino da Casale, che fin dal 2 agosto 1284, era venuto, proveniente da Greccio dove ne aveva avuta notizia da fra Giovanni da Parma, alla Porziuncola per lucrare l’Indulgenza, ricevendone una speciale illuminazione e stimolo a più intensa vita spirituale.
Quasi a suggello del perentorio documento teobaldino, il 24 luglio 1311, il beato Giovanni della Verna, confermava, in una deposizione fatta sul sacro monte dove abitava, tutte le attestazioni raccolte da frate Angelo da Perugia. Di lui, più volte confessore alla Porziuncola per la festa del “Perdono”, sappiamo dal Wadding (dai suoi Annales) che, forse nel 1309, aveva incontrato a Santa Maria degli Angeli, un penitente quasi centenario, dal quale aveva saputo che san Francesco, ospite spesso in casa sua, era stato accolto da suo padre anche quando andava a Perugia per domandare l’Indulgenza al papa; e, proprio per questo, fin da giovane, non era mai mancato alla celebrazione del 2 agosto alla Porziuncola. Le numerose testimonianze raccolte sull’autenticità dell’Indulgenza della Porziuncola avrebbero dovuto chiudere definitivamente, in modo positivo, ogni discussione e dissolvere ogni dubbio.
Anche il beato Francesco da Pesaro, guarito da una grave malattia, nella prima metà del 1300si recò in pellegrinaggio ad Assisi per lucrare l’Indulgenza della Porziuncola e ringraziare il Signore.
La soluzione evidente e sicura è quella che il papa Martino IV espresse a fra Matteo d’Acquasparta: “[...] non è verosimile che un sì gran Santo facesse e predicasse qualcosa pubblicamente nella Chiesa di Dio senza avere un sicuro e stabile fondamento”. A questo criterio si è attenuta la Chiesa, che, lungo i secoli, ha ampliato il “Perdono d’Assisi”, estendendolo prima a tutte le chiese francescane (papa Gregorio XV, 1622), poi a tutte le cattedrali, poi, a meno che esista vicino una chiesa francescana, a tutte le chiese parrocchiali. In virtù del Breve Pontificio “Constat Apprime” di Benedetto XV del 16 aprile 1921 l’Indulgenza si può lucrare alla Porziuncola tutti i giorni dell’anno. Francesco aveva ottenuto dal papa un’Indulgenza plenaria, per il 2 agosto, perché ne fossero personalmente rinnovate le anime dei devoti visitatori della Porziuncola.


La notte delle stimmate. Da La sapienza di un povero

"Dio, mio Signore - esclamò allora Francesco - tu hai soffiato sulla mia lampada. Ed eccomi immerso nelle tenebre con tutti coloro che mi avevi affidato. Io son diventato per essi un oggetto di paura. Mi sfuggono ormai anche i seguaci già più fedeli. Tu hai allontanato da me i miei amici e i miei compagni della prima ora. Ascolta, o Signore, la mia supplica! La notte non mi è stata già, forse, abbastanza dura? Accendi nel mio cuore una nuova fiamma. Rivolgi verso di me la Tua faccia, perché la luce della Tua aurora riprenda a risplendermi in viso, e perché i miei seguaci non abbiano a brancolare nel buio. Abbi pietà di me, Signore, per il bene loro. Francesco andò a sedersi ai piedi d'una rupe. Il cuculo cantava nel bosco. L'aria era tiepida e dorata. Ma Francesco non vedeva il sole, né udiva il cuculo. Aveva freddo e pensava a frate Rufino e agli altri: agli altri tutti, dal primo all'ultimo. Se uno dei suoi primi seguaci, quale Rufino, aveva potuto allontanarsi tanto facilmente da lui, che assegnamento poteva farsi sulla fedeltà di quella folla di frati appena conosciuti? La piaga dell'anima sua, già lenita da Chiara, tornava ora a riaprirsi e a sanguinare. Quindici anni di sforzi, di vigilanza, di esortazioni per giungere a questo triste risultato! La sua fatica era stata del tutto vana. Era uno scacco, il suo, un duro scacco. Ed egli ne risentiva l'offesa, non già a se stesso, ma a Dio, all'onore di Dio.

L'indomani, il Venerdì Santo, Francesco volle trascorrere l'intera giornata in solitudine, meditando sulla Passione di Cristo. Aveva scelto a tale scopo un luogo selvaggio la cui austerità si intonava al grande evento che gli colmava il pensiero ed il cuore. Volendo immedesimarsi coi sentimenti del Signore, Francesco prese a declamare il Salmo già recitato da Cristo sulla Croce. Ad ogni versetto faceva una pausa per consentire alle parole di invaderlo fin nel fondo dell'anima. Ora, mentr'egli pronunciava le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?», Francesco si sentì più che mai colto da quel senso di abbandono già espresso dal Signore. Si sentì d'improvviso affratellato a Cristo nel dolore. Queste parole non gli erano mai parse chiare come ora. Gli si eran fatte familiari. Da mesi Francesco andava cercando il volto di Cristo. Da mesi aveva l'impressione che Dio si fosse distolto da lui e dal suo Ordine. Ora capiva l'agonia di Gesù: come un'assenza del Padre, come un senso di fallimento e come un moto fatale ed assurdo degli eventi nel corso dei quali l'uomo e le sue buone intenzioni vengono disperse e sopraffatte da un gioco di forze inesorabili. La Parola del Salmo si impossessava del cuore dì Francesco, senza provocare il ripiegamento su se stesso e senza rinchiuderlo nel suo dolore. La parola del Salmo lo apriva, al contrario, alla parola di Cristo fin dal fondo dell'anima sua. A Francesco sembrava di non aver contemplato questo dolore se non dall'esterno. Ora lo vedeva dal di dentro e vi prendeva parte. Ne faceva personalmente l'esperienza fino alla nausea. Ora egli si sentiva del tutto immedesimato col Cristo. Da lungo tempo Francesco aspirava ad imitare in tutto il Signore. Da quando s'era convertito non aveva desistito da questo sforzo. Ma per quanto ci si adoperasse, non sapeva ancora in verità cosa fosse l'immedesimazione col Signore. E come avrebbe potuto saperlo? L'uomo non può conoscere altro che i dati della propria esperienza. Seguire Cristo a piedi nudi, con la sola tonaca indosso, senza bastone, senza borsa, senza viveri, era già qualcosa, di certo. Ma non era che un inizio, un primo passoBisognava seguirlo fino in fondo e lasciarsi condurre, come Cristo da Dio, attraverso un abisso di squallore fino a gustare, in una solitudine atroce, l'aspro sapore della morte del Figlio dell'uomo.
Quel giorno del Venerdì Santo fu molto stancante e molto lungo. Ma pur venne la sera con tutta la sua pace. Fu una pace profonda, come la pace dei campi al termine dei lavori agresti. Allora la terra è sconvolta e squarciata. Essa non oppone più alcuna resistenza, ben aperta e docile. La frescura della sera la imbeve tutta. Tornando verso l'eremo, Francesco si sentiva avvolto e pervaso della pace dei campi. Tutto era stato consumato. Cristo era morto, e si era rimesso alla volontà del Padre. Aveva accettato il suo scaccoLa sua vita d'uomo, il suo onore d'uomo, la sua pena d'uomo, s'erano cancellati dai suoi occhi. Tutto ciò non contava più. Non restava più che una sola verità smisurata: Dio esiste. Questo solo contava e bastava: che Dio fosse Dio. Tutto il suo essere s'era inchinato dinanzi a questa sola realtà. Aveva adorato l'Essere unico ed era morto in questa accettazione senza riserve. In questa estrema povertà era morto Gesù, e in questa suprema accoglienza del Padre. E la gloria di Dio lo aveva rapito e lo aveva fatto suo.
- Dio esiste, e tanto basta - mormorò Francesco.
Da uno spiraglio tra i rami, Francesco contemplò il cielo che era sgombro di nuvole. Vi spaziava un nibbio rosso. Il suo volo tranquillo e solitario pareva che dicesse alla terra: «Dio solo è l'Onnipotente. Egli è l'Eterno. Basta che Dio sia Dio». Francesco sentì l'anima sua alleggerita. Possente e leggera, insieme, come un colpo d'ala.
- Dio esiste, e tanto basta - ripeté Francesco.
Queste semplici parole lo colmavano d'una luce nuova. Esse acquistavano per lui una infinita risonanza. Francesco tese l'orecchio. Lo chiamava una voce che non era umana. Essa aveva un accento di misericordia e parlava al suo cuore, dicendo:
- Povero piccolo uomo! Sappi, dunque, ch'io sono Dio, e smettila per sempre d'esser turbato. Perché t'ho fatto pastore del mio gregge, devi forse dimenticare che il pastore principale son io? Ti ho prescelto, o uomo semplice, perché sia ben chiaro agli occhi di tutti che quanto io ho operato in te, anziché alla tua abilità, si deve alla mia grazia. Son io che t'ho chiamato. Son io che custodisco il gregge e lo faccio pascolare. Io sono il Signore e il Pastore. Questo è affar mio. Perciò non preoccuparti d'altro.
- Dio! Dio! - esclamò sottovoce Francesco. - Tu sei protezione. Tu sei guardiano e protettore. Sei grande e ammirevole, o Signore. Tu basti a noi tutti. Amen. Alleluia.
L'anima di Francesco grondava pace e letizia. Egli camminava d'un passo felice. Anziché camminare, gli pareva di danzare. Giunse Francesco ad un luogo donde il suo sguardo poteva spaziare molto lontano sulla campagna. Di lì si dominavano le colline circostanti e oltre ad esse la pianura che sfumava all'orizzonte. Francesco si fermò un istante a contemplare il paesaggio. Su una delle colline un armento di vacche tornava dal pascolo. Era minuscola quella visione. Si distinguevano le bestie, e dietro di loro l'uomo in cammino. Tutt'intorno dovevan esserci dei cani, ma si distinguevano a mala pena. Quando una delle bestie si allontanava troppo dalle altre, essa veniva ricondotta nel gruppo come da una forza invisibile. L'uomo doveva urlare e i suoi cani abbaiare. Ma a quella distanza e a quella altezza non se ne percepivano le singole voci. La scena era pervasa di silenzio. Essa sembrava fusa con la vita silenziosa della natura. L'affaccendarsi del guardiano assumeva in quel complesso le sue giuste proporzioni. Era qualcosa di minuscolo, di quasi insignificante.
- Tu solo sei grande - esclamò Francesco.




Ancora da La sapienza di un povero.


 "Per seguire il richiamo di Dio, uno si dedica tutto ad un'opera, con passione e con entusiasmo. È bene e necessario che sia così. L'entusiasmo solo è creatore. Ma creare qualcosa significa imporle la nostra firma e significa impossessarcene. Allora il servo di Dio si espone al suo più grande pericolo. L'opera compiuta diventa per l'autore che vi si attacca, il centro del mondo: essa lo mette in uno stato di indisponibilità radicale. Potrà liberarsene solo a costo d'una frattura. Grazie a Dio, tale frattura può prodursi. Ma i mezzi di cui dispone la Provvidenza per ottenerla sono terribili. Essi consistono nell'incomprensione, nella contraddizione, nella sofferenza e nello scacco. E, talora, anche nello stesso peccato, permesso da Dio. La vita di fede subisce allora la sua crisi, la più profonda e la più decisiva. Né può evitarsi questa crisi che, prima o poi, si produce in tutte le condizioni della vita. L'uomo s'è dedicato, anima e corpo, all'opera sua e s'è illuso di dedicarla alla gloria di Dio. Sennonché, Dio par che lo abbandoni a se stesso e non si interessi del suo lavoro. Anzi, par che Dio gli chieda di rinunciare al suo lavoro, d'abbandonare l'opera alla quale l'uomo ha dedicato per anni ed anni tutte le proprie forze, ora nella gioia ed ora nel dolore.

«Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami tanto, e va nel paese di Moria ed offrilo in olocausto». Questa terribile ingiunzione rivolta da Dio ad Abramo, non c'è servo di Dio che non se la senta rivolgere un giorno a se stesso. Abramo aveva prestato fede alla promessa che Dio gli aveva fatta di dargli una discendenza; per vent'anni aveva atteso che tale promessa si realizzasse. Non aveva perso ogni speranza. E quando finalmente nacque il figlio, frutto della promessa divina, Dio ingiunse ad Abramo di sacrificarglielo, senza nessuna spiegazione. Fu un colpo ben duro e incomprensibile. Orbene, anche a noi, un giorno o l'altro, Dio fa la stessa ingiunzione. Fra Dio e l'uomo par che non si parli più la stessa lingua. Essi non si intendono più. Dio aveva chiamato e l'uomo aveva risposto. Ora è l'uomo che chiama, ma Dio non risponde. È un momento tragico, questo, in cui la vita religiosa confina con la disperazione: l'uomo lotta da solo, nelle tenebre con l'inafferrabile. Egli aveva creduto che gli sarebbe bastato fare questo o quello per entrare nelle grazie di Dio. Ma è lui che Dio vuole. L'uomo non può salvarsi per mezzo delle proprie opere, per quanto buone esse siano. Egli deve diventare l'opera di Dio. Egli deve farsi tra le mani di Dio più malleabile e docile dell’argilla nelle mani del vasaio. Deve farsi più cedevole e paziente dei vimini tra le mani del panieraio. Deve farsi più povero e più abbandonato dei rami secchi nei boschi d'inverno. Solo in virtù di questo stato di abbandono e di questo voto di povertà, l'uomo può aprire a Dio un credito illimitato, offrendogli l'iniziativa assoluta della propria vita e della propria salvezza. L'uomo accede, in tal modo, ad uno stato di santa obbedienza. Egli si fa bambino e partecipa al gioco divino della creazione. Ben oltre la gioia e il dolore, l'uomo attinge l'ebbrezza e la potenza. Egli può considerare con la stessa gravità e con la stessa allegria il sole e la morte".


Testamento (1226)


Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo.
E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
E il Signore mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.
Poi il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi.
E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà.
E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri.
E questi santissimi misteri sopra ogni cosa voglio che siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi.
E dovunque troverò i nomi santissimi e le sue parole scritte in luoghi indecenti, voglio raccoglierle, e prego che siano raccolte e collocate in un luogo decoroso.
E dobbiamo onorare e rispettare tutti i teologi e coloro che annunciano la divina parola, così come coloro che ci danno lo spirito e la vita.
E dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere e il signor Papa me lo confermò.
E quelli che venivano per ricevere questa vita, davano ai poveri tutte quelle cose che potevano avere; ed erano contenti di una sola tonaca rappezzata dentro e fuori, quelli che volevano, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più.
E dicevamo l’ufficio, i chierici come gli altri chierici; i laici dicevano i Pater noster; a assai volentieri rimanevamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e soggetti a tutti. E io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare, e tutti gli altri frati voglio che lavorino di lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio. Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore chiedendo l’elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessi questo saluto: Il Signore ti dia pace.
Si guardino i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non siano come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, ovunque sono, non osino chiedere lettera alcuna nella curia romana direttamente o per mezzo di interposta persona, né per le chiese, né per altri luoghi, né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi, ma, dove non saranno ricevuti, fuggano in altra terra a far penitenza con la benedizione di Dio.
E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di darmi. E così io voglio essere schiavo nelle sue mani che non possa andare e fare oltre l’obbedienza e la sua volontà, poiché egli è mio signore. E sebbene sia semplice ed infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico che mi reciti l’ufficio, così come è detto nella Regola.
E tutti gli altri frati siano tenuti ad obbedire così ai loro guardiani e a recitare l’ufficio secondo la Regola. E se si trovassero dei frati che non recitano l’ufficio secondo la Regola o volessero comunque variarlo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque sono, siano tenuti per obbedienza, appena trovato uno di essi, a consegnarlo al custode più vicino al luogo dove l’avranno trovato. E il custodia sia tenuto fermamente per obbedienza, a custodirlo severamente come un uomo in prigione, giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano, finché personalmente lo consegni nelle mani del suo ministro.
E il ministro sia tenuto fermamente per obbedienza a farlo scortare per mezzo di frati che lo custodiscano giorno e notte come un prigioniero, finché non lo consegnino al cardinale di Ostia, che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternità.
E non stiano a dire i frati che questa è un’altra Regola; poiché questa è un ricordo, un’ammonizione, una esortazione e il mio testamento che io frate Francesco poverello faccio a voi, fratelli miei benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore.
E il ministro generale e tutti gli altri ministri e custodi per obbedienza siano tenuti a non aggiungere e a non togliere niente a queste parole.
E sempre tengano con sé questo scritto insieme con la Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole. E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente per obbedienza che non aggiungano spiegazioni alla Regola e a queste parole dicendo: Così si devono intendere; ma come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere la Regola e queste parole con semplicità e purezza, così semplicemente e senza commento dovete comprenderle e santamente osservarle sino alla fine.
E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’altissimo Padre, e in terra sia ripieno della benedizione del diletto Figlio suo col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i santi. Ed io, frate Francesco, il più piccolo dei frati, vostro servo, come posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen.

Piccolo testamento


(Siena, maggio 1226)


Scrivi il modo in cui benedico tutti i miei frati che sono ora nell’Ordine e che vi entreranno fino alla fine del mondo. E siccome per la mia debolezza e per la sofferenza della malattia non posso parlare, in tre parole mostrerò brevemente la mia volontà e la mia intenzione a tutti i frati presenti e futuri.

Cioè: in ossequio alla mia memoria, alla benedizione e al testamento, sempre si amino tra loro come io li ho amati e li amo; sempre amino ed osservino nostra signora la santa povertà; e sempre siano fedeli sudditi dei prelati e chierici della santa madre Chiesa.

 



BENEDETTO XVI PRESENTA LA FIGURA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI


Catechesi per l'Udienza generale del mercoledì, 27 gennaio 2010

Cari fratelli e sorelle,

in una recente catechesi, ho già illustrato il ruolo provvidenziale che l’Ordine dei Frati Minori e l’Ordine dei Frati Predicatori, fondati rispettivamente da san Francesco d’Assisi e da san Domenico da Guzman, ebbero nel rinnovamento della Chiesa del loro tempo. Oggi vorrei presentarvi la figura di Francesco, un autentico "gigante" della santità, che continua ad affascinare moltissime persone di ogni età e di ogni religione.
"Nacque al mondo un sole". Con queste parole, nella Divina Commedia (Paradiso, Canto XI), il sommo poeta italiano Dante Alighieri allude alla nascita di Francesco, avvenuta alla fine del 1181 o agli inizi del 1182, ad Assisi. Appartenente a una ricca famiglia – il padre era commerciante di stoffe –, Francesco trascorse un’adolescenza e una giovinezza spensierate, coltivando gli ideali cavallereschi del tempo. A vent’anni prese parte ad una campagna militare, e fu fatto prigioniero. Si ammalò e fu liberato. Dopo il ritorno ad Assisi, cominciò in lui un lento processo di conversione spirituale, che lo portò ad abbandonare gradualmente lo stile di vita mondano, che aveva praticato fino ad allora. Risalgono a questo periodo i celebri episodi dell’incontro con il lebbroso, a cui Francesco, sceso da cavallo, donò il bacio della pace, e del messaggio del Crocifisso nella chiesetta di San Damiano. Per tre volte il Cristo in croce si animò, e gli disse: "Va’, Francesco, e ripara la mia Chiesa in rovina". Questo semplice avvenimento della parola del Signore udita nella chiesa di S. Damiano nasconde un simbolismo profondo. Immediatamente san Francesco è chiamato a riparare questa chiesetta, ma lo stato rovinoso di questo edificio è simbolo della situazione drammatica e inquietante della Chiesa stessa in quel tempo, con una fede superficiale che non forma e non trasforma la vita, con un clero poco zelante, con il raffreddarsi dell’amore; una distruzione interiore della Chiesa che comporta anche una decomposizione dell’unità, con la nascita di movimenti ereticali. Tuttavia, in questa Chiesa in rovina sta nel centro il Crocifisso e parla: chiama al rinnovamento, chiama Francesco ad un lavoro manuale per riparare concretamente la chiesetta di san Damiano, simbolo della chiamata più profonda a rinnovare la Chiesa stessa di Cristo, con la sua radicalità di fede e con il suo entusiasmo di amore per Cristo. Questo avvenimento, accaduto probabilmente nel 1205, fa pensare ad un altro avvenimento simile verificatosi nel 1207: il sogno del Papa Innocenzo III. Questi vede in sogno che la Basilica di San Giovanni in Laterano, la chiesa madre di tutte le chiese, sta crollando e un religioso piccolo e insignificante puntella con le sue spalle la chiesa affinché non cada. E’ interessante notare, da una parte, che non è il Papa che dà l’aiuto affinché la chiesa non crolli, ma un piccolo e insignificante religioso, che il Papa riconosce in Francesco che Gli fa visita. Innocenzo III era un Papa potente, di grande cultura teologica, come pure di grande potere politico, tuttavia non è lui a rinnovare la Chiesa, ma il piccolo e insignificante religioso: è san Francesco, chiamato da Dio. Dall’altra parte, però, è importante notare che san Francesco non rinnova la Chiesa senza o contro il Papa, ma solo in comunione con lui. Le due realtà vanno insieme: il Successore di Pietro, i Vescovi, la Chiesa fondata sulla successione degli Apostoli e il carisma nuovo che lo Spirito Santo crea in questo momento per rinnovare la Chiesa. Insieme cresce il vero rinnovamento.
Ritorniamo alla vita di san Francesco. Poiché il padre Bernardone gli rimproverava troppa generosità verso i poveri, Francesco, dinanzi al Vescovo di Assisi, con un gesto simbolico si spogliò dei suoi abiti, intendendo così rinunciare all’eredità paterna: come nel momento della creazione, Francesco non ha niente, ma solo la vita che gli ha donato Dio, alle cui mani egli si consegna. Poi visse come un eremita, fino a quando, nel 1208, ebbe luogo un altro avvenimento fondamentale nell’itinerario della sua conversione. Ascoltando un brano del Vangelo di Matteo – il discorso di Gesù agli apostoli inviati in missione –, Francesco si sentì chiamato a vivere nella povertà e a dedicarsi alla predicazione. Altri compagni si associarono a lui, e nel 1209 si recò a Roma, per sottoporre al Papa Innocenzo III il progetto di una nuova forma di vita cristiana. Ricevette un’accoglienza paterna da quel grande Pontefice, che, illuminato dal Signore, intuì l’origine divina del movimento suscitato da Francesco. Il Poverello di Assisi aveva compreso che ogni carisma donato dallo Spirito Santo va posto a servizio del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; pertanto agì sempre in piena comunione con l’autorità ecclesiastica. Nella vita dei santi non c’è contrasto tra carisma profetico e carisma di governo e, se qualche tensione viene a crearsi, essi sanno attendere con pazienza i tempi dello Spirito Santo.
In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia. La verità è che san Francesco ha avuto realmente una relazione immediatissima con Gesù e con la parola di Dio, che voleva seguire sine glossa, così com’è, in tutta la sua radicalità e verità. E’ anche vero che inizialmente non aveva l’intenzione di creare un Ordine con le forme canoniche necessarie, ma, semplicemente, con la parola di Dio e la presenza del Signore, egli voleva rinnovare il popolo di Dio, convocarlo di nuovo all’ascolto della parola e all’obbedienza verbale con Cristo. Inoltre, sapeva che Cristo non è mai "mio", ma è sempre "nostro", che il Cristo non posso averlo "io" e ricostruire "io" contro la Chiesa, la sua volontà e il suo insegnamento, ma solo nella comunione della Chiesa costruita sulla successione degli Apostoli si rinnova anche l’obbedienza alla parola di Dio.
E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi. Sapeva sempre che il centro della Chiesa è l'Eucaristia, dove il Corpo di Cristo e il suo Sangue diventano presenti. Tramite il Sacerdozio, l'Eucaristia è la Chiesa. Dove Sacerdozio e Cristo e comunione della Chiesa vanno insieme, solo qui abita anche la parola di Dio. Il vero Francesco storico è il Francesco della Chiesa e proprio in questo modo parla anche ai non credenti, ai credenti di altre confessioni e religioni.
Francesco e i suoi frati, sempre più numerosi, si stabilirono alla Porziuncola, o chiesa di Santa Maria degli Angeli, luogo sacro per eccellenza della spiritualità francescana. Anche Chiara, una giovane donna di Assisi, di nobile famiglia, si mise alla scuola di Francesco. Ebbe così origine il Secondo Ordine francescano, quello delle Clarisse, un’altra esperienza destinata a produrre frutti insigni di santità nella Chiesa.
Anche il successore di Innocenzo III, il Papa Onorio III, con la sua bolla Cum dilecti del 1218 sostenne il singolare sviluppo dei primi Frati Minori, che andavano aprendo le loro missioni in diversi paesi dell’Europa, e persino in Marocco. Nel 1219 Francesco ottenne il permesso di recarsi a parlare, in Egitto, con il sultano musulmano Melek-el-Kâmel, per predicare anche lì il Vangelo di Gesù. Desidero sottolineare questo episodio della vita di san Francesco, che ha una grande attualità. In un’epoca in cui era in atto uno scontro tra il Cristianesimo e l’Islam, Francesco, armato volutamente solo della sua fede e della sua mitezza personale, percorse con efficacia la via del dialogo. Le cronache ci parlano di un’accoglienza benevola e cordiale ricevuta dal sultano musulmano. È un modello al quale anche oggi dovrebbero ispirarsi i rapporti tra cristiani e musulmani: promuovere un dialogo nella verità, nel rispetto reciproco e nella mutua comprensione (cfr Nostra Aetate, 3). Sembra poi che nel 1220 Francesco abbia visitato la Terra Santa, gettando così un seme, che avrebbe portato molto frutto: i suoi figli spirituali, infatti, fecero dei Luoghi in cui visse Gesù un ambito privilegiato della loro missione. Con gratitudine penso oggi ai grandi meriti della Custodia francescana di Terra Santa.
Rientrato in Italia, Francesco consegnò il governo dell’Ordine al suo vicario, fra Pietro Cattani, mentre il Papa affidò alla protezione del Cardinal Ugolino, il futuro Sommo Pontefice Gregorio IX, l’Ordine, che raccoglieva sempre più aderenti. Da parte sua il Fondatore, tutto dedito alla predicazione che svolgeva con grande successo, redasse una Regola, poi approvata dal Papa.
Nel 1224, nell’eremo della Verna, Francesco vede il Crocifisso nella forma di un serafino e dall’incontro con il serafino crocifisso, ricevette le stimmate; egli diventa così uno col Cristo crocifisso: un dono, quindi, che esprime la sua intima identificazione col Signore.
La morte di Francesco – il suo transitus - avvenne la sera del 3 ottobre 1226, alla Porziuncola. Dopo aver benedetto i suoi figli spirituali, egli morì, disteso sulla nuda terra. Due anni più tardi il Papa Gregorio IX lo iscrisse nell’albo dei santi. Poco tempo dopo, una grande basilica in suo onore veniva innalzata ad Assisi, meta ancor oggi di moltissimi pellegrini, che possono venerare la tomba del santo e godere la visione degli affreschi di Giotto, pittore che ha illustrato in modo magnifico la vita di Francesco.
È stato detto che Francesco rappresenta un alter Christus, era veramente un’icona viva di Cristo. Egli fu chiamato anche "il fratello di Gesù". In effetti, questo era il suo ideale: essere come Gesù; contemplare il Cristo del Vangelo, amarlo intensamente, imitarne le virtù. In particolare, egli ha voluto dare un valore fondamentale alla povertà interiore ed esteriore, insegnandola anche ai suoi figli spirituali. La prima beatitudine del Discorso della Montagna - Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3) - ha trovato una luminosa realizzazione nella vita e nelle parole di san Francesco. Davvero, cari amici, i santi sono i migliori interpreti della Bibbia; essi, incarnando nella loro vita la Parola di Dio, la rendono più che mai attraente, così che parla realmente con noi. La testimonianza di Francesco, che ha amato la povertà per seguire Cristo con dedizione e libertà totali, continua ad essere anche per noi un invito a coltivare la povertà interiore per crescere nella fiducia in Dio, unendo anche uno stile di vita sobrio e un distacco dai beni materiali.
In Francesco l’amore per Cristo si espresse in modo speciale nell’adorazione del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Nelle Fonti francescane si leggono espressioni commoventi, come questa: "Tutta l’umanità tema, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, vi è Cristo, il Figlio del Dio vivente. O favore stupendo! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi per la nostra salvezza, sotto una modica forma di pane" (Francesco di Assisi, Scritti, Editrici Francescane, Padova 2002, 401).
In quest’anno sacerdotale, mi piace pure ricordare una raccomandazione rivolta da Francesco ai sacerdoti: "Quando vorranno celebrare la Messa, puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo" (Francesco di Assisi, Scritti, 399). Francesco mostrava sempre una grande deferenza verso i sacerdoti, e raccomandava di rispettarli sempre, anche nel caso in cui fossero personalmente poco degni. Portava come motivazione di questo profondo rispetto il fatto che essi hanno ricevuto il dono di consacrare l’Eucaristia. Cari fratelli nel sacerdozio, non dimentichiamo mai questo insegnamento: la santità dell’Eucaristia ci chiede di essere puri, di vivere in modo coerente con il Mistero che celebriamo.
Dall’amore per Cristo nasce l’amore verso le persone e anche verso tutte le creature di Dio. Ecco un altro tratto caratteristico della spiritualità di Francesco: il senso della fraternità universale e l’amore per il creato, che gli ispirò il celebre Cantico delle creature. È un messaggio molto attuale. Come ho ricordato nella mia recente Enciclica Caritas in veritate, è sostenibile solo uno sviluppo che rispetti la creazione e che non danneggi l’ambiente (cfr nn. 48-52), e nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest’anno ho sottolineato che anche la costruzione di una pace solida è legata al rispetto del creato. Francesco ci ricorda che nella creazione si dispiega la sapienza e la benevolenza del Creatore. La natura è da lui intesa proprio come un linguaggio nel quale Dio parla con noi, nel quale la realtà diventa trasparente e possiamo noi parlare di Dio e con Dio.
Cari amici, Francesco è stato un grande santo e un uomo gioioso. La sua semplicità, la sua umiltà, la sua fede, il suo amore per Cristo, la sua bontà verso ogni uomo e ogni donna l’hanno reso lieto in ogni situazione. Infatti, tra la santità e la gioia sussiste un intimo e indissolubile rapporto. Uno scrittore francese ha detto che al mondo vi è una sola tristezza: quella di non essere santi, cioè di non essere vicini a Dio. Guardando alla testimonianza di san Francesco, comprendiamo che è questo il segreto della vera felicità: diventare santi, vicini a Dio!
Ci ottenga la Vergine, teneramente amata da Francesco, questo dono. Ci affidiamo a Lei con le parole stesse del Poverello di Assisi: "Santa Maria Vergine, non vi è alcuna simile a te nata nel mondo tra le donne, figlia e ancella dell’altissimo Re e Padre celeste, Madre del santissimo Signor nostro Gesù Cristo, sposa dello Spirito Santo: prega per noi... presso il tuo santissimo diletto Figlio, Signore e Maestro" (Francesco di Assisi, Scritti, 163).



Da La sapienza di un povero


- Ascoltami bene. - disse Francesco al termine d'un breve silenzio. - Non voglio lasciarti nella illusione. Ti parlerò ben chiaro, dal momento che me lo chiedi. Io non mi considererei un frate minore se non fossi nelle seguenti condizioni: io sono il Superiore del mio Ordine, partecipo al Capitolo, faccio la predica, esprimo le mie osservazioni; e quando ho esaurite le mie mansioni, mi si dice: «Tu non hai le qualità che ci vogliono per noi. Tu sei ignorante e disprezzabile. Non ti vogliamo più come nostro Superiore, perché non sai parlare e perché sei sempliciotto e limitato». Mi si caccia via con ignominia, e tutti mi disprezzano. Ebbene, se io non accetto le suddette accuse con viso immutato, con la stessa allegrezza e conservando l'identica volontà di santificazione, ciò significa che io non sono punto un vero frate minore.


- Tutto questo sta bene, ma non risolve la questione - obiettò Tancredi.

- Quale questione? - chiese Francesco.

Tancredi lo fissò, tutto stupito.

- Quale questione? - tornò a chiedere Francesco.

- Ebbene, la questione dell'Ordine! - esclamò Tancredi. Tu mi hai rivelato ora il tuo stato d'animo, ch'io posso anche approvare. Ma tu non puoi limitarti a questo punto di vista del tutto personale e preoccuparti soltanto della tua perfezione. Ci sono anche gli altri. Tu sei il loro Padre e la loro guida! Non puoi tu abbandonarli a loro stessi. Essi hanno diritto al tuo aiuto. Non devi trascurarli.

- È vero, Tancredi. Ci sono gli altri; ed io, credi, penso molto ad essi - soggiunse Francesco. - Ma non s'aiuta a praticare la dolcezza e la pazienza evangelica, sferrando colpi contro tutti coloro che non la pensano come noi.

- Ma cosa ne fai tu della collera di Dio? ribatté vivamente Tancredi. - Ci son sante collere. Cristo ha fatto schioccare la frusta sul capo dei profanatori del Tempio, e non sul loro capo soltanto. Bisogna talora cacciare dal Tempio i profanatori. E bisogna farlo senza mezzi termini. Anche questo è un modo di imitare il Signore.

Tancredi s'era animato e parlava ad alta voce e con foga, accompagnando le sue parole con gesti violenti. Il suo viso s'era acceso. Fece per alzarsi, ma Francesco lo trattenne, posandogli la mano sulla spalla.

- Orsù, fratello Tancredi, prestami un po' ascolto - disse Francesco con tono pacato. - Se il Signore volesse bandire dal suo cospetto ogni traccia di corruzione umana, credi tu che saremmo in molti ad esserne risparmiati? Saremmo spazzati via tutti quanti, caro mio! Noi non meno degli altri. Non c'è tanta diversità fra gli uomini da questo punto di vista. Per nostra fortuna Dio non pulisce la casa facendone un deserto. E in questo sta la nostra salvezza. Egli ha cacciato un giorno i profanatori dal Tempio. Ma lo ha fatto al fine di dimostrarci che poteva farlo, che ne aveva pieno diritto e che era padrone in casa sua. Ma lo ha fatto, bada bene, una sola volta e come per gioco, o per caso. In seguito si è offerto lui stesso ai colpi dei suoi persecutori. Ci ha rivelato in tal modo in che consista la pazienza di Dio. Non in una impotenza a punire con rigore, ma in una volontà d'amore che non si rinnega mai.

- Sì, Padre, ma così facendo, tu non fai che disertare la partita. L'Ordine si perderà. E la Chiesa avrà a soffrirne moltissimo. Anziché rinnovarsi, essa si corromperà ancor più. Ecco tutto concluse Tancredi.

- Ebbene, io son certo che l'ordine sopravvivrà ad ogni prova - affermò Francesco con gran decisione - purché mantenga la sua calma. Il Signore me lo ha assicurato. È affar suo provvedere all'avvenire dell'Ordine. Se i frati saranno infedeli, Dio ne susciterà ben altri al posto loro. Forse, questi nuovi frati sono già nati. Per quanto mi riguarda, il Signore non mi ha chiesto di far opera di persuasione per mezzo dell'eloquenza e della cultura, né tanto meno di far opera di costrizione sugli uomini. Egli non mi ha imposto che di vivere secondo i dettami del Vangelo. E, non appena ebbi dei seguaci, io mi affrettai a redigere una Regola di poche e semplici parole. Ne ebbi l'approvazione del Papa. Non avevo pretese, ed ognuno di noi era sottomesso a tutti gli altri. Io intendo serbar fede a questo principio fino alla mia morte.

- Dobbiamo, dunque, lasciare che gli altri agiscano a loro modo, e subire ogni offesa senza un moto di protesta! - ribatté Tancredi.

- Per quanto mi concerne - aggiunse Francesco - io intendo sottomettermi a tutti gli uomini e a tutte le creature del mondo, per quanto Dio me lo consente. Ecco quel che significa esser frate minore.

- No, Padre. Non posso seguirti per questa via, né posso comprenderti disse Tancredi.

- Tu non mi comprendi riprese Francesco perché questo mio atteggiamento umile e sottomesso ti sembra vile e passivo. Ma si tratta di ben altro. Anch'io, per lungo tempo non ho capito. Mi son dibattuto nel buio come un povero uccello nella pania. Ma il Signore ha avuto pietà di me e mi ha rivelato che la più alta attività dell'uomo e la sua maturità consistono anziché nella ricerca di un ideale, per quanto nobile e santo, nell'accettare con gioia la realtà, tutta la realtà. L'uomo che vagheggia il suo ideale, rimane chiuso in se stesso. Egli non comunica veramente con gli altri, né prende conoscenza dell'universo. Gli mancano il silenzio, la profondità e la pace. La profondità dell'uomo non è altro che la sua disposizione ad accogliere il mondo. Gli uomini restano, quasi tutti, isolati in se stessi, ad onta delle apparenze. Essi sono simili ad insetti che non riescono a spogliarsi del loro guscio. Essi si agitano, disperati, nel cerchio dei loro limiti. In fin dei conti, essi si ritrovano al punto,di partenza. Essi credono d'aver cambiato qualcosa, e non s'avvedono di morire senz'aver visto la luce del giorno. Gli uomini non sono mai del tutto svegli alla realtà. Hanno vissuto in sogno.

Tancredi ascoltava in silenzio. Le parole di Francesco gli suonavano tanto strane. Quale dei due sognava? Francesco o lui? Lo irritava il pensiero di esser considerato un sognatore. Tancredi era sicuro di sé, di quel che vedeva e di quel che sentiva.

- Allora, sono tutti dei sognatori coloro che tentano di fare qualcosa in questo mondo! - esclamò Tancredi dopo un breve silenzio.

- Non dico questo - replicò Francesco. - Ma penso che è difficile accettare la realtà. In verità, nessuno l'accetta in blocco. Noi aspiriamo sempre ad aggiungere, in qualche modo, una spanna alla nostra statura. È questo il fine di quasi tutte le nostre azioni. Anche quando si crede di operare per il Regno di Dio, non cerchiamo che di farci più grandi, fino al giorno in cui, sconfitti, non ci rimane che questa sola smisurata realtà: Dio esiste. Allora scopriamo che Lui solo è Onnipotente, che Lui solo è santo, che Lui solo è buono. L'uomo che accetta questa realtà e se ne compiace, trova in cuor suo la serenità. Dio esiste, ed è tutto. Qualunque cosa gli succeda, c'è Dio e c'è la luce di Dio. Basta che Dio sia Dio. L'uomo che accetta integralmente Dio, si rende capace di accettare se stesso. Egli si libera di ogni volontà particolare. Più nulla disturba in lui il gioco divino della creazione. La sua volontà s'è fatta più semplice e, al tempo stesso, vasta e profonda come il mondo. Semplice e pura volontà di Dio che tutto abbraccia ed accoglie. Più nulla separa in tal modo l'uomo dall'atto creativo. L'uomo si fa del tutto disponibile all'azione di Dio che lo plasma e lo conduce a suo piacimento. Questa santa obbedienza dispone l'uomo ad accedere alle profondità dell'universo, alla potenza che muove gli astri e fa fiorire gli umili fiori campestri. Egli penetra col suo sguardo l'interno del mondo e scopre quella bontà sovrana che è alla radice di tutti gli esseri e che un giorno sarà tutta intera in noi, ma egli la vede già diffusa e sbocciata in ciascuna creatura. Egli partecipa alla bontà universale, e diventa misericordioso e solare come il Padre che fa risplendere il sole con la stessa prodigalità sui buoni e sui cattivi. Deh, fratello Tancredi! Quant'è grande la gloria di Dio! E quanto è colma la terra della sua bellezza e della sua misericordia!

- Ma nel mondo - obiettò Tancredi - esistono anche il male e la colpa. Noi non possiamo eluderli. E, dinanzi ad essi, noi non abbiamo il diritto di serbarci indifferenti. Guai a noi, se per via del nostro silenzio e della nostra pigrizia, i cattivi si rafforzano nel male e trionfano sui buoni.

- È vero: noi non abbiamo il diritto di serbarci indifferenti dinanzi al male e alla colpa – riprese Francesco. - Ma non dobbiamo adirarci né turbarci di questo. Il nostro turbamento e la nostra irritazione non possono che compromettere il senso di carità, nostra ed altrui. Dobbiamo imparare a considerare il male e la colpa come li considera Dio. Ed è proprio questa la cosa più difficile. Giacché, dove noi vediamo una colpa da condannare e da punire, Dio ci vede, innanzi tutto, uno stato di smarrimento da soccorrere. L'Onnipotente è anche il più dolce e il più paziente degli esseri. In Dio non v'è traccia, neppur minima, di risentimento. Quando la sua creatura gli si ribella e lo offende, essa non cessa di restare agli occhi Suoi la sua creatura. Dio potrebbe annientarla, s'intende. Ma che gusto ne avrebbe Dio a distruggere l'opera sua, frutto di tanto amore? L'intero creato serba profonde radici nel cuore del suo Autore. Questi è del tutto disarmato in faccia alle sue creature, come una madre al cospetto del figlio. In ciò consiste il segreto di quella enorme pazienza divina che talvolta ci scandalizza. Dio è simile a quel padre che diceva ai suoi figli già grandi ed assetati di indipendenza: «Volete partire, siete impazienti di vivere ciascun a modo suo? Ebbene, prima che andiate intendo dirvi: se un giorno vi troverete a mal partito, sappiate che io sono sempre qui. La mia porta resta aperta per voi giorno e notte. Voi potete sempre accedervi. Voi sarete in casa vostra e io farò di tutto per aiutarvi. Allor che tutte le porte vi saranno chiuse, la mia resterà per voi sempre aperta». Dio è fatto così, fratello Tancredi. Non c'è nessuno che sia capace di amare come Lui. Ma noi dobbiamo sforzarci di imitarlo, finora non abbiamo fatto ancor nulla in tal senso. Cominciamo dunque a far qualcosa.

- Ma da che parte cominceremo, Padre? Dimmi chiaramente qual è la necessità più urgente - chiese Tancredi.

- Innanzitutto - rispose Francesco - dobbiamo aspirare ad avere lo Spirito del Signore. Lui solo può renderci buoni, buoni fin nel profondo dell'anima.

Francesco fece una breve pausa e poi riprese:

- Il Signore ci ha mandati ad evangelizzare le genti. Ma hai tu mai riflettuto cosa ciò significhi? Evangelizzare un uomo significa dirgli: «Anche tu sei amato da Dio in Cristo». Né basta dirglielo: bisogna esserne convinti. Né basta essere convinti: dobbiamo comportarci con quell'uomo, in modo che egli avverta e scopra in se stesso qualcosa che è stato salvato, qualcosa di più grande e di più nobile che egli non pensasse, e dobbiamo, infine, provocare in lui il risveglio di una nuova coscienza di se stesso. Ciò significa annunciargli la buona novella. Sennonché, non potrai ottenere questo bel risultato se non offrendo a quell'uomo la tua amicizia: una amicizia reale, disinteressata, senza condiscendenza, tutta nutrita di fiducia e di stima profonda. 



LARRAÑAGA IGNACIO

NOSTRO FRATELLO DI ASSISI


“Di questa costa, là dov’ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange”.
Dante, Paradiso XI, 49-51

Tra saggio e romanzo, il volume del francescano Larrañaga vuole rivisitare soprattuttto la biografia interiore di san Francesco, cercando di capire e interpretare le sue stesse sensazioni, i desideri, i sentimenti, i contrasti.

Si percepisce chiaramente l’affetto reverenziale che l’Autore prova verso il santo, ma non si è qui in presenza di un’agiografia o di un libro di edificazione religiosa, dal momento che non vengono nascosti i momenti di buio e di desolazione - la terribile “notte di Dio” – vissuti da Francesco fin quasi alla fine della sua vita.
L’immagine del povero di Assisi risulta contestualizzata nella storia del suo tempo, concreta, non idealizzata, molto umana eppure non priva della sua dimensione trascendente e di uno straordinario e intenso rapporto con Dio e la sua grazia, un rapporto simile a quello dei profeti, inviati ad annunciare rinnovamento e spirito nuovo.
Né pazzo, né esaltato, né antesignano degli ecologisti, Francesco è una personalità sensibile trasformata dall’incontro con Dio attraverso una “transizione progressiva”, cioè non per improvvisazione o folgorazione repentina. Ogni suo cambiamento è frutto di preghiera, grazia e meditazione e richiede un certo tempo per attuarsi. Francesco agisce secondo il Vangelo, applicandolo alla lettera giorno per giorno senza piani precostituiti.
Larrañaga, basandosi sulle fonti – un vero peccato che manchi una bibliografia finale – colloca l’inizio del cambiamento di Francesco nella “notte di Spoleto”.
Nel 1198, a venticinque anni, Francesco parte per la guerra insieme ad altri giovani di Assisi per unirsi, nel Sud Italia, alle milizie papali che stanno sconfiggendo quelle imperiali. Arrivati a Spoleto pare che durante la notte Francesco abbia avuto “un’esperienza infusa di Dio”, cioè la presenza divina si manifestò improvvisamente in forma imprevista, invadente, sproporzionata e vivissima. Fu una rivoluzione.
Il mattino seguente Francesco ritorna a casa: ha preso coscienza che niente altro è importante se non il Signore, gli altri impegni, legami, attese possono venir messi da parte.
Nel giro di tre anni Francesco cambia gradualmente, lascia le feste e i divertimenti con gli amici, non gli interessa l’attività commerciale paterna, ricerca invece momenti di solitudine tra i boschi del Subasio per dialogare con Dio e adorare.
Man mano che questo rapporto matura cresce anche la straordinaria sensibilità di Francesco verso i poveri: Larrañaga sottolinea come, grazie alla chiamata del Signore, il santo riesca ad amare i più miserevoli, addirittura i lebbrosi, che gli avevano sempre suscitato ribrezzo. Non arriva a Dio attraverso l’uomo, si realizza invece il processo contrario, Dio lo conduce fuori da se stesso e lo spinge a conoscere e accudire personalmente gli stessi lebbrosi, che predilige con materna dedizione.
Francesco fa in pratica quello che Gesù realizza con l’incarnazione: spoglia se stesso e risponde alla chiamata in modo pieno e totale. Solo una forte motivazione può rendergli positivo ciò che comunemente è ributtante e miserabile.
Così il giovane brillante e ricco di Assisi s’allontana da quello che tutti immaginavano sarebbe stato il suo mondo: via dal godimento, via dalla gloria militare, s’avvia a diventare un “cavaliere di Cristo”, paladino di madonna Povertà. Nel suo agire infatti Francesco ha stile e classe, dà sempre contorni cavallereschi alle sue scelte e le riveste di luce e di gioia purissime, è libero, perché nulla possiede e dunque nulla può legarlo a sé, se non il Signore.
Nella prima fase della sua vita Francesco pensa solo a vivere la Parola giorno per giorno, non ha programmi, progetti o idee chiare sul futuro, non sospetta che Dio gli manderà molti fratelli e che dovrà mettere per iscritto la sua Regola.
Di fronte a compiti organizzativi si sentirà sempre impreparato, poco abile ad argomentare o a tenere discorsi complicati.
Dopo aver avuto da Dio l’incarico di restaurare la chiesa di san Damiano, convocato dal padre di fronte al vescovo, Francesco si spoglia dei suoi abiti, rinuncia ai beni, al nome e se ne va, nudo e libero, nel mondo.
La povertà, da lui abbracciata in modo totale, lo conduce alla pace e alla gratitudine verso Dio e il creato, verso ciò che riceverà in dono dagli altri per il suo sostentamento.
“Che cosa posso fare? Solo chi non possiede nulla può fare esperienza della liberalità di colui che alimenta gli uccelli e i fiori. Gli uccelli sono liberi perché non hanno granai. Solo chi riceve sa dare. Per amare bisogna essere poveri”. (p.82)
La vita di Francesco si svolge tra lavoro, preghiera e aiuto ai poveri, molte ore sono dedicate al colloquio con Dio.
Straordinario è l’umanesimo di Francesco: egli ama l’uomo come creatura, a prescindere dalle sue qualità. Di solito si ama una persona per le sue qualificazioni, ciascuno ha un suo polo d’attrazione (simpatia, ricchezza, bontà, fama) e viene perciò reso accattivante da tale polo. Se una creatura è priva di poli d’attrazione, chi la guarderà? Solo un cuore puro può farlo, un cuore purificato da Dio. Francesco sa guardare il “semplicemente uomo”, la creatura priva di ornamenti.
Egli pose venerazione dove non c’erano motivi di venerazione; pose stima dove non c’era motivo di stima. Amò in forma superlativa coloro che non offrivano ragioni per essere amati. Il suo affetto verso le persone aumentava in proporzione inversa ai poli di attrazione”. (p.96)
Sulla scia del suo esempio altri giovani lo seguono, l’amico Bernardo in primis. Lasciano beni e famiglie e condividono la sua estrema povertà. Lui li accoglie, li conosce uno per uno e li ama con dolcezza materna. Si può dire che Francesco riveli il volto materno di Dio, in questo forse c’è un retaggio del rapporto di tenerezza e affinità che ebbe sempre con la madre, madonna Pica, donna sensibile e raffinata, forse d’origine provenzale (e Francesco conosceva la lingua provenzale, probabilmente il parlar materno, nel quale intonava spesso canzoni).
Opposto all’uomo teorico, Francesco è un esploratore, l’uomo della concretezza e del senso letterale, l’uomo della sorpresa capace di stupirsi e d’improvvisare, di collocarsi fuori da qualsiasi schema: né monaco, né sacerdote, non cerca guide spirituali, semplicemente applica il Vangelo alla lettera e agisce di conseguenza.
Dio gli manda dei fratelli, destinati a diventare un seguito una moltitudine.
I primi due anni costituiscono l’epoca d’oro della storia francescana: dalla povertà assoluta Francesco fa scaturire il senso della fraternità e di qui la dimensione della gioia. Nulla è predeterminato in questi primi tempi e le difficoltà vengono risolte man mano che si presentano. La forza di Francesco sta tutta nell’esempio, nella limpida coerenza tra le sue parole e la sua vita.
Per risolvere il problema del loro sostentamento senza gravare sulle popolazioni chiedendo l’elemosina, Francesco lascia che i suoi fratelli lavorino come salariati, a giornata, e che ricevano il pagamento in alimenti o vestiti per sé e per gli altri. È una grande novità, che permette di raggiungere due scopi: il mantenimento quotidiano e la presenza profetica dei fratelli tra il popolo, specie tra i lavoratori.
Nei primi anni i frati s’impegnano nelle atttività più diverse: portano acqua dalle sorgenti alle borgate, tagliano legna nei boschi, fanno i calzolai, ripuliscono mobili, tessono ceste, seppelliscono i morti specie durante le epidemie. Raccolgono, a seconda delle stagioni: grano, olive, frutta, uva.
In seguito si mescoleranno a marinai e pescatori o faranno i cuochi presso i signori feudali.
Francesco li lascia liberi rispetto alle ore e alle modalità di lavoro, purchè mantengano spazi per la preghiera.
La professione di ciascuno non viene abbandonata all’ingresso in fraternità, ma viene considerata il campo normale dove esercitare l’apostolato. Francesco valorizza i talenti di ciascuno e non pretende l’impossibile. “Nella formazione del fratello bisogna usare molto rispetto, molta pazienza e, soprattutto, un’invincibile speranza”. (p.129)
“Quasi tutti erano giovani, poveri e felici, forti e pazienti, austeri e dolci. Tra loro erano cortesi e affettuosi. Non imprecavano contro i nobili, né contro il clero, né contro alcuno. La loro bocca pronunciava sempre parole di pace, povertà e amore. Si mescolavano di preferenza tra i gruppi degli ammalati, poveri ed emarginati. La loro parola possedeva autorità morale perché il loro esempio precedeva la parola” (p.129).
Periodicamente e secondo il dettato evangelico Francesco manda i fratelli in misisone, a coppie, nei paese e nelle città: affrontano rifiuti, disprezzo, prese in giro, ostilità, soffrono fame, freddo, prepotenze senza ottenere alcun successo apostolico. Francesco continua però a insegnare umiltà e povertà, considera il martirio la forma più alta di apostolato, forme nobilissime erano: il perdono delle offere, la gioia nelle tribolazioni, pregare per i persecutori, aver pazienza nei maltrattamenti, cambiare il male con il bene, non maledire chi maledice, non turbarsi per le calunnie.
All’inizio la predicazione vera e propria veniva in secondo piano, la forza del messaggio era costituita tutta dall’esempio e le parole erano poche e semplici.
Questo tipo di apostolato è più difficile di quello organizzato o ministeriale, perché non è possibile toccare con mano i risultati e si deve procedere alla luce della fede, è un ‘attività apostolica che richiede non tanto una preparazione intellettuale quanto piuttosto una permanente conversione del cuore.
Il percorso esistenziale di Francesco fu comunque tutt’altro che lineare: la sua fede fu grande, ma non gli furono risparmiate né le sofferenze fisiche nell’ultima parte della sua vita, né quelle spirituali.
Ebbe i suoi momenti d’insicurezza, la paura di non farcela a condurre i fratelli (non era colto, né abile a parlare), d’imporre loro un peso troppo grande da portare con il severo sposalizio con madonna Povertà.
La crisi nasce nel momento in cui Francesco pensa di appoggiarsi solo a sé stesso e alle sue forze e non a Dio. Lanciarsi nelle braccia di Dio implica un autentico “salto spirituale” non facile, né scontato neppure per una persona non comune come il povero d’Assisi.
Quando egli si affida totalmente all’Altro riacquista serenità e libertà e può essere di nuovo guida e luce per i suoi fratelli.La forza di Francesco sta nella debolezza: non ha nulla, è debole come Cristo sulla croce e proprio così diviene forte e dimostra che solo Dio è il salvatore, non l’uomo, né la ricchezza, né il potere.
Ricevuto a Roma dal papa, Francesco suscita non poche discusisoni e scompiglio, ma affascina tutti con la sua innocenza e spontaneità e per la forza con cui applica il Vangelo.
Francesco vive con semplicità e immediatezza disarmanti il messaggio di Gesù. Dalla povertà in cui vivono le prime comunità di fratelli si genera la fraternità, che apre i singoli l’uno verso l’altro. Se uno soffre, soffrono tutti, gioie e dolori, sentimenti ed esperienza vengono condivisi come il cibo quotidiano. In questo modo il senso di comunione cresce e si consolida. Francesco codifica questa scelta di vita solo negli ultimi anni, quando le fraternità sono diventate numerose e comprendono non solo italiani.
“Poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, con quanto più affetto uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale!” (p.183)
Sola sicurezza dei fratelli, privi di beni o proprietà, è il Signore, unico in grado di salvare.
Man mano che l’ordine s’allarga oltre ogni previsione del suo fondatore, si fa sentire la necessità di dargli una regola scritta, la stesura della quale fu tormentata. Francesco non era un legislatore ed ha contrasti con i suoi stessi vicari, vive anni difficili di silenzio di Dio e “notte dello spirito”. Quel che gli appare certo è che suo compito nella Chiesa sia quello d’imitare Cristo povero e umile, non Cristo maestro e dottore.
Lui e i suoi fratelli non sono chiamati a organizzare battaglie intellettuali o a difendere il prestigio della Chiesa.
Francesco non abiurerà mai al suo ideale di povertà e umiltà e si sentirà sempre un “cavaliere di Cristo”, animato da un ideale ai suoi occhi così limpido ed evidente da non aver neanche biosgno di essere dimostrato.
“Ha bisogno forse la luce di aggredire le tenebre per vincerle? È sufficiente che la luce scopra il suo volto e le tenebre si ritirano spaventate”. (p.244)
Una prima stesura della regola andò perduta (fu fatta sparire?) e Francesco dovette riscriverla con non poca fatica. Tra le norme innovative, oltre al precetto del lavoro manuale, c’è quella per cui se un ministro ordinasse qualcosa di contrario all’ideale, i fratelli non sono obbligati a obbedire. Inoltre, se i ministri andassero fuori dallo spirito della Regola, i frati devono correggerli e, se non si ravvedono, devono essere denunciati nel capitolo generale.
Per non provare rancore contro i suoi oppositori Francesco lavora su se stesso, prega molto e trova pace e consolazione, diviene libero da pensieri e opere non conformi a Cristo. Francesco è consapevole che è sbagliato trasformare l’avversario ideologico in nemico del cuore, perché così si chiudono le possibilità d’intesa e dialogo. Non ci può essere armonia con Dio, né con la terra mentre esistono dissonanze tra fratelli.
“La creazione è un immenso sacramento di Dio. […]
Il primo comandamento consiste nel credere nel bene. Che guadagno ci può essere nell’aggredire le tenebre? Basta solo accendere la luce e le tenebre fuggono spaventate. Se tu pretendi di distruggere una guerra con un’altra guerra, creerai un conflitto mondiale. Anche s enon è così evidente, la pace è più forte del male, perché Dio è il sommo bene.” (p.340)
Larrañaga descrive Francesco trasfigurato e già proiettato verso l’aldilà nell’ultima parte della sua vita, seppure tormentato da grandi sofferenze fisiche, che comunque affronta con serenità riuscendo a sublimarle.

Nasce in questa fase finale il Cantico di Frate Sole o Laudes creaturarum, straordinaria preghiera e documento letterario:
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si', mi Siignore, per sora Luna e le stelle:
il celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.
Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si', mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.
Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infermitate et tribulatione.
Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.
Il 3 ottobre 1226, a quarantacinque anni, Francesco si spegne attorniato dall’affetto dei suoi frati e delle popolazioni circostanti. Ha portato nella Chiesa uno spirito assolutamente nuovo, ha realizzato un rapporto privilegiato con la creazione, immagine di Dio, e con Cristo, ha vissuto in modo totalizzante e assoluto la sua vocazione. È stato un uomo autentico.

AFFINITÁ ELETTIVE
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più su» mi disse «ala cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogni voto accetta
che caritate a suo piacer conforma».

Dante, Paradiso III, 97-102


Profondamente affine a san Francesco è la luminosa figura di santa Chiara d’Assisi. Di famiglia aristocratica, giovanissima fuggì nottetempo da casa per consacrarsi al Signore e seguire l’esempio di Francesco.

Fu donna di grande costanza e fortezza, che rappresentò sempre per il povero d’Assisi sostegno, aiuto e consiglio. Il loro rapporto fu di grande affinità e nobiltà.
L’idea originaria di Chiara era di seguire la scelta di Francesco e dei suoi fratelli: povertà, servizio ai lebbrosi, forse anche vita itinerante, ma i tempi non erano ancora maturi per questo e non si concepiva una vita religiosa femminile diversa da quella monacale.
Chiara così si dedicò alla vita contemplativa, una dimnesione che fu sempre carissima a Francesco, che egli praticò spesso, ma forse non quanto avrebbe desiderato.
“Si ha l’impressione che Francesco fosse un eterno insoddisfatto nella sua insaziabile sete di Dio, e che una parte importante della sua anima sia rimasta incompleta, quasi frustrata. Se fosse dipeso da lui sarebbe stato un felice e perpetuo anacoreta in una qualsiasi roccia dell’Appennino. Fu il vangelo a tirarlo fuori dalla solitudine” (p.212).
La vita contemplativa apparentemente non serve a nulla, è semplicemente adorazione e dimostra che Dio è così grande chemerita donargli l’esistenza intera. Larrañaga la paragona all’olocausto, nel quale l’animale immolato veniva interamente bruciato come offerta al Signore. Nel sacrificio invece le carni servivano ai leviti e ai servitori del tempio.
L’originalità delle clarisse è rappresentata dalla povertà. Le novizie dovevano rinunciare a tutti i loro beni, mentre in quel tempo le nobildonne che si consacravano portavano al convento una ricca dote.
Chiara attuò una sorta di rivoluzione: le monache dovevano vivere del loro lavoro e, se questo non bastava al loro sostentamento, potevano chiedere la carità.
Nella regola, scritta un anno prima della morte, Chiara attua la fraternità ed elimina la verticalità dell’autorità, affidando alla comunità l’uso del potere.
Come Francesco, Chiara abbraccia in pieno il “privilegio dell’altissima povertà”: le comunità da lei fondate vivono senza rendite o beni sicuri, fatto inconcepibile all’epoca. Papi e cardinali cercarono più volte di convincere Chiara a rinunciare a questo suo ideale, che loro ritenevano irrealizzabile, alla fine, solo nel monastero di Monticelli – unico su ventiquattro – rimase in vigore il “privilegio”.
Tutto questo nei ventisette anni che Chiara sopravvisse a Francesco.
Ciò nonostante la santa rimase fedele all’ideale e, prima di morire, riuscì a convincere il papa a rinnovare il “privilegio” per le generazioni future.

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