COMMENTI AL VANGELO DAL 12 AGOSTO AL 9 SETTEMBRE




CARISSIMI, DA OGGI, CON TANTI FRATELLI CHE ANCHE GRAZIE ALLA VOSTRA GENEROSITA' POTRANNO PARTECIPARVI,  SARO' IMPEGNATO NELLA MISSIONE DI EVANGELIZZAZIONE A DUE A DUE NEL NORD DEL GIAPPONE. APPROFITTO PER RINGRAZIARVI DI CUORE PER L'AMORE CON IL QUALE AVETE RISPOSTO AL MIO APPELLO. CHE DIO VI CONCEDA IL CENTUPLO...

SINO ALLA FINE DELLA PRIMA SETTIMANA DI SETTEMBRE NON POTRO' MANDARVI IL COMMENTO OGNI GIORNO, PER QUESTO VI LASCIO QUI I LINK ALL'AUDIO SU YOUTUBE DOVE POTRETE ASCOLTARE IL COMMENTO DEGLI SCORSI ANNI. SPERO CHE VI POSSANO COMUNQUE AIUTARE. COME SPERO ANCHE DI POTER RICOMINCIARE CON GLI INVII DALLA SECONDA SETTIMANA DI SETTEMBRE, PERCHE' DOPO LA MISSIONE MI TROVERO' IN VIAGGIO FUORI DAL GIAPPONE SINO ALLA META' DEL MESE.

VI CHIEDO COMPRENSIONE E, SOPRATTUTTO, PREGHIERE PER QUESTO TEMPO DI MISSIONE.


CHE DIO VI BENEDICA

Antonello Pbro
 



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SABATO 12 AGOSTO (XVIII SETTIMANA)

https://youtu.be/h4jE-mEQ4O8


LA NUOVA "GENERAZIONE" DI CRISTO

"O generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi". Quale "generazione"? Quella che sorge dai "geni" dell'incredulità, i figli de-generi, che hanno cioè perduto la primo-genitura, l'elezione e la salvezza di Dio, e per questo non sono più suoi figli. La generazione insensata e senza intelligenza che ha creduto all'inganno del demonio e per questo è colpita "dal fuoco" della gelosia di Dio. L'uomo che si prostra dinanzi a Gesù è dunque il portavoce di questa generazione infedele, senza fede, che ha generato un "figlio" unendosi in adulterio con il demonio. Il "figlio" di quell'uomo è proprio il figlio dell'incredulità che appartiene al demonio; è "lunatico", secondo l'originale greco, e non "epilettico" come vorrebbe una traduzione che è già un'interpretazione moderna e positivistica del Vangelo. Segue cioè le fasi lunari, come dire che è in balia degli eventi, sballottato qua e là da qualsiasi vento di dottrina, seguendo i desideri e i criteri della carne. Quel "figlio" è per questo immagine di tutti coloro che incontrano Gesù appena disceso dal monte Tabor: di quel padre, della folla e dei discepoli incapaci di curarlo. E' dunque figlio tuo e mio, oggi. E' il figlio dell'idolatria che segue sempre l'incredulità: "chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto" (Chesterton). Lo dice chiaramente Gesù: "per la vostra mancanza di fede..." e non come recita la traduzione che tradisce il testo: "per la vostra poca fede". Ma come, se avessero avuto "poca fede", simile al "granello di senapa" nulla gli sarebbe stato impossibile"... No, i discepoli non avevano fede! Nell'attesa di Gesù si erano industriati con le loro forze, con i loro criteri, con la loro religiosità. E non avevano potuto nulla contro il demonio... Per questo Gesù si adira con loro e con il padre di quel ragazzo, come oggi si adira seriamente con ciascuno di noi. C'è nella tua vita un figlio indemoniato? Ci sono, cioè, nella tua vita opere figlie dell'incredulità? Senza dubbio... In famiglia, al lavoro, nella comunità cristiana, ovunque... Guarda bene se non hai dei rancori, se sei impotente di fronte a quell'offesa e a quell'ingiustizia... Guarda se per caso non riesci ad accettare quella malattia... Ebbene, se è così, è perché ti sei costruito un vitello d'oro, nell'incapacità di seguire il Signore nel compimento del volontà del Padre. Sei un per-verso, hai cioè cambiato strada, e stai camminando quella che segue la tua "luna", i tuoi sentimenti, gli ormoni, le concupiscenze o le illusioni pseudoreligiose. Hai generato figli con il demonio, accettalo! Accetta allora il "fuoco" con cui Mosè ha bruciato il vitello, e l' "acqua" nella quale ne ha disperso la polvere, gli stessi elementi nei quali si gettava il fanciullo indemoniato. Accetta che quello che ti accade è a causa della tua incredulità, figlia della menzogna del demonio a cui hai dato ascolto. Accetta che Cristo si sia stancato di te. Sì, accetta che ti mostri la tua realtà, e accetta le conseguenze dei tuoi peccati. Allora potrai ascoltare la Buona Notizia celata nel Vangelo di oggi: "portatelo qui da me". Al colmo dell'indignazione esplode in Cristo la sua misericordia! Allora fatti "portare" dalla Chiesa ai piedi di Gesù, ascolta la sua Parola che scaccia dal tuo cuore il demonio dell'incredulità, e accostati ai sacramenti che depongono in te il piccolissimo "granello di senapa" della fede. Convertiti, e potrai dire a "questo" monte di "spostarsi da qui a là"; dirai cioè non a un monte qualsiasi, ma proprio al Tabor alle cui pendici si trovava in quel momento Gesù, di spostarsi e venire da te, perché anche tu possa essere avvolto dalla stessa luce pasquale che ri-genera in te la natura divina, la primo-genitura. La luce di misericordia che ricrea in te il figlio di Dio. Il brano odierno, infatti si conclude con un versetto inspiegabilmente tagliato nella versione liturgica: "Questa generazione di demoni" (Gesù usa lo stesso termine con cui ha indicato gli increduli) si scaccia solo con il digiuno e la preghiera", esattamente come fece Mosè sul Sinai durante i quaranta giorni che precedettero la teofania. Quaranta come il cammino nel deserto, come la quaresima, vestigia del catecumenato primitivo. Ecco, il Signore ci chiama oggi a camminare nella Chiesa dove, accogliendo la fede, essa diventi adulta e ci prepari alle nozze con il Signore, quando Egli ci donerà, compiuta, la Parola perché si faccia carne in noi. 

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DOMENICA 13 AGOSTO (XIX DEL TO. ANNO A) 

https://youtu.be/7vAh0ac3IG4  (E' UN COMMENTO AL BRANO DEL VANGELO PREPARATO PER UN'ALTRA OCCASIONE)

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LUNEDI 14 AGOSTO (XIX SETTIMANA)

https://youtu.be/UKmNrkWD7rw


PESCATI ALL'AMO DELLA CROCE SIAMO LIBERI PER CONSEGNARCI A TUTTI SENZA RISERVE

C'è qualcosa che giace più molto più in fondo dei problemi contingenti e delle soluzioni da offrire e scegliere. In ogni evento, infatti, è il Signore che ci visita, e ci chiede: "Che te ne pare?". In questa domanda, non a caso rivolta a Pietro, si legge in filigrana quella che Gesù gli ha posto poco prima: "Voi, chi dite che io sia?". Ecco, anche davanti alla dichiarazione dei redditi, i cristiani si trovano di fronte a Cristo, in un dialogo d'amore che non si spegne mai. Non c'è aspetto della vita, sia essa quella privata, familiare o sociale e dello Stato, che non ci interpelli: in nulla Dio è irrilevante, perché in tutto è presente per illuminare e guidare i suoi "figli". La questione che emerge nel brano di oggi è il contributo da offrire al mantenimento del Tempio, una tassa che, secondo quanto ci testimonia Filone, "i donatori portano allegramente e con gioia, in previsione che il pagamento porterà loro la liberazione dalla schiavitù o la guarigione dalle malattie e il godimento di una libertà garantita e una sicura protezione dai pericoli" (Leggi speciali, 1,77). Il Tempio era il cuore di Israele, e se esso avesse smesso di battere sarebbero morti tutti, senza più alcuna speranza. Il Tempio era la Presenza di Dio con il Popolo, nonostante il dominio di Roma. Per questo era anche la profezia più certa della libertà che tutti aspettavano. La tassa era dunque un atto d'amore e di fiducia, un segno che esprimeva e contribuiva a mantenere viva la speranza. Per comprendere le parole di Gesù occorre partire da qui. Egli non parla di tasse giuste o ingiuste, ma invita Pietro ad alzare lo sguardo diritto davanti a sé e a professare ancora la fede che né carne e né sangue gli hanno rivelato, ma il Padre che è nei Cieli: Gesù è il Figlio di Dio, il Messia che sta inaugurando un nuovo culto, in Spirito e Verità. Dio è presente in quel momento "a Cafarnao", la città natale di Pietro. Non è più il Tempio a delimitare il perimetro della Presenza di Dio: come già ai tempi dell'Esilio, Egli è libero, e scende ad abitare laddove vivono i suoi figli. In quel momento il nuovo Tempio è a Cafarnao; è la casa di Pietro dove Gesù era ospitato; è la vita di ogni figlio della Chiesa, la sua famiglia, il suo lavoro, la sua scuola, il campo sportivo dove si sgranchisce le gambe, il letto d'ospedale dove lo inchioda la malattia. Gesù è con Pietro e la sua comunità ovunque si trovino, perché sempre e in ogni luogo, essi possano vivere nella "libertà" dei figli di Dio. Per questo, infatti, "sarà consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà". E' Lui stesso la "tassa" pagata per il nuovo Tempio, per riscattare e far vivere eternamente il Nuovo Israele. Non a caso il gesto che Gesù chiede a Pietro per trovare la moneta con cui pagare la tassa è una profezia del suo Mistero Pasquale: come il "primo pesce pescato all'amo", attraverso la sua Croce, Gesù è stato pescato dal "mare" della morte come il primogenito della nuova creazione. La sua "bocca" si è "aperta" la sera di Pasqua, consegnando agli apostoli impauriti rinchiusi nel cenacolo, la "moneta d'argento" sulla quale è incisa l'immagine del Figlio di Dio. Con essa ha pagato il nostro riscatto, la sua vita offerta sino alla fine. "Pescandola" con Pietro, ovvero nella Chiesa, accostandoci con "l'amo" della fede ai sacramenti e alla Parola di Dio, siamo trasformati a poco a poco in Cristo, per partecipare al suo Mistero Pasquale. Siamo chiamati ogni giorno ad inoltrarci nel "mare" della morte, di ciò che ci fa soffrire e ci incute timore, e pescare il Primogenito, per essere, con Lui, vittoriosi sulla morte, bel al di là di ciò che angustia il mondo che non conosce il Padre. Siamo "figli nel Figlio", non più "estranei" alla famiglia di Gesù; proprio per questo la Chiesa è "esente" dal pagare qualsiasi tributo; nel senso che essa sa che non sono le tasse che assicurano la vita; non è un sistema politico e non sono gli statisti a provvedere alla salute, al benessere, alla libertà delle persone. La Chiesa vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio, è abbandonata con fiducia al suo amore e alla sua provvidenza. Sa che nella storia è celato un piano divino che annulla i disegni delle nazioni e porta a compimento la salvezza eterna di ogni uomo. In questo discernimento legge e interpreta gli eventi.

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MARTEDI' 15 AGOSTO ASSUNZIONE DELLA VERGINE MARIA

https://youtu.be/HxHxfUqJi9Y


I NOSTRI OCCHI ASSOMIGLIANO A QUELLI DI MARIA, DISEGNATI PER VEDERE DIO IN OGNI ISTANTE

Maria è l’immagine della storia di salvezza che Dio ha preparato per ogni uomo, lo specchio fedele di quello che ci accade ogni giorno: in noi è già seminato ed è vivo il miracolo della vita eterna, ma le nostre forze non hanno ancora potuto darlo alla luce. Intuiamo d’essere fatti per qualcosa che non si corrompa, che non resti impigliato nei ricordi e nei rimpianti. Ma, come per Elisabetta, abbiamo bisogno d’una visita che ci “colmi di Spirito Santo”,perché il miracolo di Grazia “sussulti nel grembo”, e lo prepari a nascere. Abbiamo bisogno di Maria. Non vi è altro motivo che l’amore gratuito e infinito di Dio, a spingere Maria, immagine della Chiesa, a “venire da noi” per annunciarci e donarci suo Figlio. Il suo “saluto” che risuona dove si cela il seme di eternità, è l’annuncio del Vangelo che desta la vita in un’ “esultanza” di gioia: Dio s’è fatto carne nella nostra carne per fare santa la nostra vita. “Shalom” annuncia Maria ad Elisabetta, come una profezia delle parole del Figlio risorto. “Pace” ci annuncia la Chiesa, come un’eco della vittoria di Cristo, laddove il mondo ode invece una dichiarazione di guerra, e arma l’ira, la ribellione, l’indignazione, i conati di chi sente defraudato dalle ingiustizie. Dove i giudei hanno visto solo una donna rimasta incinta prima di sposarsi, e in Gesù solo carne e sangue uguali a quelli di tutti, Dio svelava il Mistero che ci avrebbe salvato: in Maria Egli gestava la carne di Gesù che avrebbe reso divina ogni carne. Per questo la storia ci dice “Pace!”: nella carne è disceso Dio, e tutto è ormai parte di un Cielo che non abbiamo ancora visto ma che possiamo cominciare a sperimentare. Tutto di Maria era, da sempre, per il suo Figlio, e così tutto di Lui è stato per Lei. Maria ha offerto tutta se stessa per dare la vita terrena al suo Figlio, ed Egli ha donato a Lei la Vita immortale. “Questo è il nucleo della nostra fede nell’Assunzione: noi crediamo che Maria, come Cristo suo Figlio, ha già vinto la morte e trionfa già nella gloria celeste nella totalità del suo essere, in anima e corpo” (Benedetto XVI).  Ma non si tratta di un dogma solo perché proclamato da Pio XII il 1° novembre del 1950. In quel giorno il Papa ha sigillato la fede e l’esperienza viva e incontrovertibile della Chiesa. Essa crede e annuncia ciò che sperimenta quotidianamente: Cristo è risorto ed è asceso al Cielo e da lì ha donato alla Chiesa il suo Spirito. Da quel giorno la vita della Chiesa, come il corpo e l’anima di Maria, è “assunta” in Cielo: pur camminando nella storia essa vive la vita di Cristo. I passi veloci della Figlia di Sion sul crinale delle montagne di Giuda sono, da allora, i passi urgenti degli apostoli di ogni tempo che annunciano il Vangelo; ma sono anche i passi degli eventi e delle persone che, guardati con gli occhi di fede di Maria, ogni giorno ci abbracciano in un saluto che rivela l’autentico progetto di Dio: “Io so i pensieri che medito per voi, pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza” (Ger. 29,11). Per esperienza i cristiani, nella moglie, nel marito, nei figli e colleghi, anche quando si fanno nemici e tolgono la vita, sanno discernere l’ “avvenire” celeste che li attende; con ferma “speranza” possono allora consegnarsi alla croce e alla morte del proprio “io” che l’amore suppone, nella certezza che, proprio dove il mondo non può resistere e divorzia, abortisce, trascina in tribunale e scatena guerre, vi è deposta la Vita che non muore. La fede di Maria, infatti, attesta che in loro accadrà quello che Lei ha sperimentato: la “beatitudine” per aver creduto alla predicazione e la “benedizione tra tutte le donne” e gli uomini per la fede che vince il mondo; la “benedizione” di vivere per Gesù, il “frutto del loro grembo”; donando la propria carne a Lui nell’amore, la vedranno trasfigurata e incorruttibile in Cielo, del quale sono una primizia i momenti più difficili, i roveti ardenti nei quali vivono, come Maria, senza che il fuoco delle passioni li consumi. Così anche noi siamo chiamati ad annunciare che il Cielo esiste: attraverso la debolezza della nostra carne, evidente nella scontrosità del carattere, nelle nevrosi e nelle insicurezze, anche nelle ferite inferte dai peccati rese gloriose dal sangue di Cristo, dalle quali la sua luce filtra e illumina i luoghi e i tempi della nostra vita. Essa ha già conosciuto il riscatto dalla tirannia della superbia, non attende futuri che non si realizzeranno mai – società civili senza macchia, con politici onesti, giudici giusti, banche solidali, famiglie senza tensioni. Il Cielo, infatti, si affaccia sulla terra in coloro che, nella Chiesa, imparano a vivere come Maria.

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MERCOLEDI' 16 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/iOpsPxiFB2g


LA SINFONIA DELLA COMUNIONE

La comunione è uno tra i beni più preziosi donati dallo Sposo alla Sposa; rivelando l'amore e l'unità tra i "fratelli", essa è il segno che Dio offre al mondo perché "creda". Il termine greco "koinonia" traduce l'ebraico "khaburah"; entrambi indicavano, in origine, una cooperativa, una società, come quella dei pescatori Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma khaburah indicava anche la comunità di almeno dieci persone riunita per celebrare la Pasqua. Quindi anche gli apostoli riuniti con Gesù nel Cenacolo formavano una khaburah: nella comunione umana, la partecipazione al Mistero Pasquale del Signore gettava le fondamenta della comunione celeste! Dio che s'era fatto carne, provocando scandalo e rifiuto, diveniva tanto prossimo all'uomo da farsi pane da mangiare e sangue da bere, fondando così la comunione tra gli uomini nella comunione con Gesù; in virtù del suo Mistero Pasquale, il Figlio di Dio "comunica" se stesso ai suoi apostoli che, uniti a Lui, divengono così figli del suo stesso Padre. Cristo, infatti, si è “legato a noi in terra” nella Chiesa attraverso la Parola e i sacramenti, per “legarci anche in cielo" al Padre. “Sciogliendoci in terra” dal potere del demonio e dai lacci del peccato, infatti, ci “ha sciolto anche in cielo" dalla condanna che meritavamo, ha rotto ogni barriera tra noi e Dio e così ci ha “legato” in terra ai fratelli nel suo amore. Per questo, Cristo freme di compassione in ogni cristiano nel vedere un “fratello” che si sta separando consegnandosi di nuovo all’inganno del demonio. Ogni passo che Gesù oggi indica alla Chiesa per "guadagnare il fratello" è quindi l'attualizzazione nella storia e l'annuncio salvifico di quello che ha fatto Lui per ogni suo “fratello” perduto: fattosi peccato, è stato accusato nell'assemblea e alla fine è stato gettato fuori, a morire crocifisso, "come un pagano e un pubblicano", per scendere nella tomba di ogni fratello che si è separato e, risorgendo con lui, "scioglierlo" dalla morte per "legarlo" di nuovo al Padre. Ma tu, hai a cuore il destino del fratello?  O meglio, quello che ti è accanto è davvero “tuo fratello” al punto che se si è perduto a causa di un peccato - un tradimento del coniuge, un rancore incancrenito - senti che hai perduto una parte di te? O forse lo stai giudicando, e lo hai già perduto perché lo hai rifiutato nel tuo cuore? Se è così, allora le parole di Gesù sono innanzi tutto una chiamata a conversione per te, perché ti umili profondamente, chiedi perdono a Dio, ti confessi e fai penitenza, per "guadagnare" il fratello nel tuo cuore. Così forse ti renderai conto che, prima di andare a correggerlo, dovrai incamminarti per inginocchiarti dinanzi a lui e chiedergli perdono. Sino a che l'altro non è tuo fratello non potrai correggere nessuno... Può darsi, infatti, che quello che abbiamo visto nel fratello sia solo apparenza. "Se qualcuno ha peccato": è importante quel “se”... Spesso noi lo omettiamo, in preda ai nostri giudizi e pregiudizi. Allora il criterio migliore è mettersi dalla parte del fratello; solo quando avrai esaurito ogni possibile giustificazione del suo operato, allora potrai avvicinarti a lui, non senza esserti prima immedesimato in lui. Avvicinarsi cioè senza dimenticare la trave che è nel tuo occhio: tu sei stato lui, anzi, senza la misericordia di Dio, tu saresti molto peggio di lui. Se non c'è questo atteggiamento, allora è meglio lasciar perdere, perché "correggere" significa "reggere insieme". La correzione è un frutto purissimo dell'amore, forse la sua incarnazione più difficile. Per correggere occorre amare l'altro al punto di desiderare di portare con lui il peso dei suoi peccati. Ogni "fratello" di Gesù, infatti, sa che "se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà". Si accorderanno, con il greco originale saranno una "sinfonia"! Note diverse per innalzare al Padre la stessa preghiera... Per questo va a cercare il "fratello" e lo "ammonisce", solo a solo; lo corregge smascherando il suo peccato, per illuminare profeticamente la sua situazione e annunciargli la vittoria di Cristo e il suo amore, e così indurlo ad "accordarsi" con lui per domandare, insieme, il perdono al Padre. Ogni correzione è, infatti, un annuncio del Vangelo. Per questo Gesù dice "se non ti ascolterà": la fede nell'amore e nel perdono viene donata, infatti, attraverso la stoltezza della predicazione. E perché il "fratello" possa ascoltare ed essere "guadagnato" si fa di tutto: si coinvolgono i fratelli più vicini e con cui egli è più in confidenza, i pastori e i catechisti, che sono i "testimoni" dell'opera di Dio in lui e della sua misericordia. Se il suo cuore è tanto duro da non ascoltare neanche loro allora si coinvolge l' "assemblea", perché l'amore di tutti sciolga le sue resistenze. Tutto per annunciare al fratello che Cristo, vivo nella comunità, vuole "guadagnarlo" alla felicità, alla libertà, alla vita di figlio di Dio. Tutto per testimoniargli l'amore infinito che i fratelli hanno per lui, che fremono di compassione nel vederlo schiavo della menzogna. Per dirgli che non possono perdere una parte così bella e unica di se stessi... A volte però è necessaria la massima severità, che è il segno della più grande misericordia. La Chiesa sa che Dio ha creato l'uomo libero sino al punto di ostinarsi sino alla fine nel peccato. La Chiesa non è buonista ma realista, e per questo ama i suoi figli nella realtà in cui si trovano. Proprio per amore della libertà, di fronte al rifiuto, non c'è altra soluzione che lasciare che il "fratello" la usi sino in fondo, sino alle sue più dolorose conseguenze. Il peccato rompe la comunione, e, non accogliendo il perdono e perseverando in esso, si torna a vivere come prima dell'incontro con Cristo, come prima del Battesimo: come "un pubblicano e un pagano". Far finta di niente, in una falsa misericordia che scioglie la verità, sarebbe rendere vana la Croce di Cristo; sarebbe anche fare torto alla dignità del "fratello", obbligandolo a vivere come lui non vuole. Alleandosi con il peccato che rompe la comunione egli se ne è chiamato fuori; ogni segno che esprima la comunione sarebbe solo un'ipocrisia che, paradossalmente, gli impedirebbe la conversione e frustrerebbe la missione della Chiesa. Una comunità divisa perché qualche "fratello ha commesso una colpa" e non si è lasciato "guadagnare" al perdono, non può compiere la sua missione nel mondo. Le accade come al Popolo di Israele, quando a causa anche di uno solo che aveva peccato e lo aveva occultato, non poteva resistere ai suoi nemici. "Se qualcuno ha peccato" non si può restare indifferenti, vi è di mezzo la conquista della Terra Promessa, il Cielo da schiudere agli uomini attraverso la Chiesa. Per questo, quando c’è ostinazione nel peccare, solo la verità delle conseguenze amare del peccato può percuotere, alla lunga, il cuore più indurito inducendolo alla conversione; come accadde al figlio prodigo, ormai lontano dalla casa paterna, che proprio lì, nella solitudine affamata, è rientrato in se stesso spinto dalla nostalgia della comunione che aveva sperimentato, la cui pienezza non aveva più gustato peccando. Per questo, “considerare un fratello" come un pagano e un pubblicano” significa “amarlo sino alla fine”, sino a dove non ci sono più parole, ma solo la preghiera e l’offerta di se stessi, ovvero i dolori, le angosce, le malattie, tutto per "guadagnare il fratello" che in quel momento non si vuole far "guadagnare". Sino a prendere i suoi peccati su di noi, perché così Cristo ci ha “guadagnato” mentre lo rifiutavamo ostinatamente... Così anche noi siamo chiamati a non disperare mai, anche quando gli eventi e le persone ci inducono alla severità della verità. Essa è sempre sinonimo dell'amore e della libertà che Dio ha dato a ciascuno, e ne abbiamo esperienza... Così sapremo educare i nostri figli che scelgono di non obbedire, ammonire il coniuge e i fratelli che peccano, nella speranza invincibile che la nostalgia di casa e la memoria struggente della comunione con il Padre e i fratelli, li faccia rientrare in se stessi per tornare, in un cammino di penitenza sincera, all'amore e all'unità.

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GIOVEDI 17 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/IJsvsdKlo-w


IL PERDONO TRASFORMA IL CUORE NELLA LIBERTA' DI AMARE

Con la parabola di oggi Gesù vuole illuminare Pietro e quindi la Chiesa sul "perdono d cuore", quello autentico, l"accordarsi" tra due fratelli di cui aveva parlato poco prima. Esso è una Grazia, la più grande che potremmo ricevere da Dio. E' l'unica esperienza che cambia radicalmente la vita, simile a quella di un condannato a morte che, nel momento in cui si sta eseguendo la sentenza, riceve appunto "la grazia" e vede aprirsi le porte della cella: la sua pena è stata cancellata, è libero e vivo. Per il "servo" della parabola, il dover rifondere diecimila talenti era proprio come una condanna capitale; si trattava, infatti, di una somma esorbitante, se si pensa che un talento era pari a seimila denari e che uno stipendio medio era di trenta denari: per radunare tale cifra un lavoratore dipendente avrebbe dovuto lavorare centosessantaquattromila anni! Per questo "il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito". Per salvarsi, quel servo poteva sperare solo in un atto di clemenza del re. Infatti, "essendo caduto" recita l'originale greco, il servo comincia a "supplicare" il re, ma solo "di avere pazienza con lui perché gli avrebbe restituito ogni cosa" e non di "avere pietà e condonargli il debito", che sarebbe stata la sua unica possibilità di salvezza. Il "servo", infatti, era stato "venduto", ormai solo un atto di clemenza del re avrebbe potuto salvarlo, perché il debito con Dio è inestinguibile, se non a prezzo della vita, come la stessa Legge prescriveva. E non solo con la propria, ma anche con quella della moglie e dei figli, come appare nel vangelo. Il peccato che rompe con Dio, infatti, distrugge "tutto", la famiglia, il futuro dei figli, si sparge come un'epidemia, rende schiavi e uccide. Allora, perché il servo si infila in una promessa che non sarebbe stato in grado di mantenere? Per capire bisogna guardare al contesto ebraico della parabola. Già il salmo 38 affermava che "nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo"; infatti "per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine e non vedere la tomba" (Sal 48,8-10). Solo Dio può offrire il "kofer" del riscatto, un termine derivante dal radicale ebraico "kpr" che significa "coprire - espiare", presente nel termine "kippur", la festa dell'espiazione e del "perdono", che potrebbe essere il contesto di questa parabola. Essa infatti risponde alla domanda di Pietro sul "perdono" al fratello, originata dalle parole di Gesù circa l'atteggiamento da avere nel caso di un fratello che abbia peccato contro un altro fratello. Yom Kippur si celebrava dieci giorni dopo Rosh Ha-Shanah, il capodanno civile ebraico. Esso si chiamava anche Yom Ha-Din, “giorno del giudizio”.   I giorni di festa erano giorni di giudizio. Secondo la Mishnà, nel giudizio ”Dio passa in rassegna il suo gregge", come facevano i pastori che “esaminavano”, le pecore.  I rabbini dicevano che durante il primo giorno dell’anno sono chiamati tutti gli uomini per passare dinanzi al Trono di Dio; seduto sul suo trono Dio giudica il suo popolo, come un generale passa in rassegna l’esercito, o come un pastore le sue pecore. Ogni uomo è registrato in uno dei tre libri che sono davanti al re: quello dei peccatori ostinati per i quali non c'è speranza, quello dei santi, e quello dei mediocri, per i quali ancora c'è speranza. Ed è esattamente quello che accade nella parabola, nella quale il regno dei cieli è paragonato "a un re che volle fare i conti con i suoi servi". Gli "viene presentato uno che è debitore di una cifra che non ha". Attenzione che questo è importantissimo, perché con questa scena inizia il giudizio. Il servo passa davanti al trono del Re, e risulta insolvente; si tratta di capire se fa parte dei peccatori incalliti e chiusi alla Grazia o dei mediocri. Dalla sua preghiera intuiamo che faccia parte di questi ultimi, perché chiede al Re ancora un po' di tempo: "Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa". Rosh Ha-Shanah, infatti, inaugurava i "dieci giorni terribili” (yamim noraim) che precedevano Yom Kippur, giorni decisivi, perché rappresentano il tempo che Dio offre al pentimento e alla conversione prima di emettere il giudizio definitivo. E come si realizza la conversione? "Perdonando di cuore" il fratello, perché Dio ha cambiato il "cuore" di pietra in "cuore" di carne! Infatti, "appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari". E qui si rivela il suo "cuore" ammalato, ancora pietrificato. Il tempo di conversione è la possibilità di accogliere e far crescere in sé la misericordia di Dio. E' il tempo in cui sperimentare che davvero Dio ha perdonato la propria mediocrità accogliendola nelle sue viscere capaci di rigenerarla in santità. Ma, entrando nei "dieci giorni terribili", il "servo" dimostra che non aveva accolto il perdono del Re. Non aveva confidato in Lui, non ricordava che prima ancora della creazione dell'uomo e del suo peccato, Dio aveva creato la misericordia e la possibilità di pentirsi. In fondo non conosceva il suo re, probabilmente perché qualcuno, un suo "nemico" invidioso e geloso, gli aveva parlato male di lui; e poi si sa, tra sudditi, l'immagine del re quasi mai è buona... Per questo non ha avuto l'audacia per chiedere l'impossibile che è possibile solo a Dio, e, infilandosi in una strada senza uscita, aggiunge egli stesso una condizione impossibile da rispettare: "ti restituirò ogni cosa". Il re, sapendo che quel servo non ce l'avrebbe potuta fare, si "impietosisce", spontaneamente, e "lo lascia andare condonandogli il debito". Letteralmente, lo "scioglie" dal suo debito, lo libera completamente per entrare da riscattato nei "dieci giorni terribili". Ci si aspetterebbe stupore, gioia, gratitudine, e invece nulla, quel servo non appare certo un "graziato". Infatti, "essendo uscito" dal carcere, ormai libero, si comporta come se fosse ancora un condannato "legato" al suo debito. E' impressionante, il servo sembra di marmo! Mette i brividi l'assoluta mancanza di compassione; neanche un briciolo di quella che aveva appena sperimentato nel suo "Signore". Niente, era stato graziato ma sembra che non fosse accaduto a lui. Era passato dalla morte alla vita eppure si comportava come uno ancora chiuso nel sepolcro... Perché? Perché era ancora "legato" all'immagine distorta del re che gli impediva di "conoscere", ovvero sperimentare davvero chi egli fosse, come accade al servo di un'altra parabola che nasconde il talento sottoterra, definito "malvagio" come lui. Aveva sì sperimentato la "pietà" del Re, ma il pensiero malvagio continuava a "legarlo" al debito che aveva contratto. Nonostante fosse stato "sciolto" nel suo cuore era ancora "legato" al suo passato... Nascondendogli la misericordia ottenuta, infatti, il demonio continuava a tenerlo al guinzaglio: non è possibile che ti abbia condonato tutto; lo hai mai visto fare da qualcuno? Se neanche tuo padre, neppure tua madre.... Si ti hanno perdonato, ma mai senza condizioni. Un debito condonato non esiste, ci deve essere un inganno sotto, attento... Copriti le spalle, è una trappola, di sicuro il re piomberà a casa tua esigendoti qualcosa... Vedrai come, appena trovi un altro lavoro e cominci a guadagnare, il re ti troverà e si prenderà tutto, e poi ti venderà... E così il servo, "afferrato e soffocato" da quell'immagine distorta e dal pensiero di dover ancora restituire, comincia ad "afferrare e soffocare un servo come lui". Qui è il punto: colui che, una volta "uscito", ha "trovato" è la sua stessa immagine, proprio come se si fosse guardato in uno specchio. E' "come lui", e per questo, intimandogli "paga quel che devi!", non fa che ripetere quello che diceva a se stesso. Dalla prigione era "uscito" solo il suo corpo, il cuore e la mente erano rimasti dentro, incatenati nella menzogna e nella paura di morire. Il demonio si era messo di traverso tra lui e Dio, e stoltamente gli aveva dato ascolto, chiudendo gli occhi sulla misericordia di Dio. Da "mediocre", invece di diventare "santo" il giorno di Kippur, quello del giudizio finale che avrebbe "coperto" ogni sua colpa, precipita tra i peccatori senza più speranza tra le mani degli "aguzzini". Fratelli, il servo è l'immagine di quanti, pur nella Chiesa, non hanno ancora sperimentato il perdono di Dio; "sciolti" realmente attraverso i sacramenti, restano "legati" al loro passato perché non hanno smesso di ascoltare il demonio che continua ad ingannarli mirando alla loro disperazione. Come spesso accade a noi, perché il nostro ego gonfiato dalla superbia non smette di illudersi; anche quando "cadiamo" il demonio ci ripete che siamo come Dio, e per questo potremo rialzarci... Sono state solo le circostanze esterne a noi a farci cadere. Ma contemporaneamente restiamo "legati" a un'immagine moralistica di Dio, quella delle autorità che abbiamo conosciuto, dei genitori o dei professori, dei superiori, dei fratelli maggiori. E così siamo spinti da una parte dall'inganno moralistico di dovercela fare con i nostri sforzi, dall'altra dall'illusione di essere come "il re" e quindi di riuscire a restituire "tutto", cioè la Grazia che abbiamo perduto, la "vita" divina che non abbiamo difeso dal peccato! Che stolti siamo. Non ci basta essere "caduti" per capire che non siamo come Dio. Per impedirci di credere all'annuncio della Chiesa, aprirci alla Grazia e sperimentare un perdono immeritato, il demonio punge il nostro orgoglio e ci ruba l'amore di Dio. No, non può amarmi così, sino alla fine dei miei peccati; non può amarmi anche se commetto "settanta volte sette" lo stesso peccato. Nessuno lo ha fatto, forse qualcuno può arrivare a stento a "sette volte", quello che Pietro pensava fosse il massimo possibile... Da buon ebreo, gli sarà venuta in mente la Torah, nella quale Dio stabiliva che chiunque avesse ucciso Caino avrebbe subito la vendetta sette volte; camminando con Gesù, ascoltando la sua Parola, vedendo i suoi gesti pieni di misericordia e compassione, ha intuito che il Maestro avrebbe rovesciato la vendetta in perdono. Ma non poteva immaginare che Gesù avrebbe dilatato all'infinito quella misericordia: dicendo che bisogna "perdonare" chi ci ha fatto del male "non solo sette, ma settanta volte sette", Gesù va oltre Caino e arriva a uno dei suoi discendenti, Lamek, che si vantava di aver ucciso un uomo per una sola scalfittura e diceva: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette”. Un parossismo vendicativo senza limiti, che Gesù capovolge in un perdono senza misura. Pietro non poteva prevedere che dicendo "settanta volte sette", Gesù stava annunciando il suo perdono; il flagello avrebbe straziato la sua carne, ad ogni sferzata miliardi e miliardi di peccati si sarebbero abbattuti su di Lui, perché, piantati sin dentro il suo intimo, li potesse portare sulla Croce e inchiodarceli, per frantumarli nel suo amore infinito. Sappiamo che per gli ebrei i numeri sono molto importanti; una parola che ha il valore numerico di quattrocentonovanta è "tanim", che significa "perfetto", "completo". La parabola di oggi allora, rispondendo alla questione posta da Pietro ma che tutti abbiamo dentro, non ci impone nulla; ci invita semplicemente ad entrare nel "mistero di Dio". Il "peccato" che "qualcuno" compie "contro di noi" è lo stesso che tu ed io abbiamo commesso e continuiamo a commettere; è questo il cuore della parabola: non si tratta di misurare i confini della pazienza e del perdono; non esistono manuali dell'esperto perdonatore cristiano. Esiste l'amore di Dio, da accogliere stupiti e semplici. Allora avremo uno sguardo diverso su noi stessi e sugli altri, e non ci servirà nessuna regola da seguire di fronte ai peccati dei fratelli, perché si tratta solo di amare nell'amore con cui siamo amati e che "precede il nostro agire". Allora sapremo vivere ogni giorno come un "giorno terribile" nel quale convertirci e lasciare che il perdono che ci ha raggiunti si dilati verso il fratello che pecca contro di noi. Sì, ogni giorno ci svegliamo siamo "mediocri", ma ogni giorno possiamo essere trasformati in santi perché Cristo "copre" e cancella ogni nostro peccato. Allora, alziamoci la mattina come fosse "Rosh Ha Shanah", l'alba che inaugura per noi il giudizio. Sì, cadremo ogni giorno, ma Cristo ha dato la vita per noi, e possiamo chiedere a Dio di avere misericordia di noi in quel giorno, e di aiutarci a diffonderla con la nostra vita, per giungere a sera come a "Yom Kippur", e addormentarci nella pace del Regno di Dio. E ciò si compie nella Chiesa, perché in essa i fratelli si "perdonano di cuore" perché sanno di essere tutti debitori dello stesso Padre, ma stanno sperimentando che Cristo "ha pagato per noi all'eterno Padre il debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la condanna della colpa antica" (Exultet di Pasqua). Per questo possono testimoniare al mondo la Buona Notizia del perdono dei peccati, annunciando che: "ecco, la mia infermità si è cambiata in salute! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa delle distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati" (Is 38,17). 

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VENERDI' 18 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/5tjkq6R8lPw

OPPURE

https://youtu.be/K94Ir5skZN4


TORNARE CON CRISTO AL "PRINCIPIO" PER VIVERE OGNI RELAZIONE COME UN NUOVO INIZIO

Vi sono domande che non cercano risposte, ma che sembrano piuttosto pistole puntate alla tempia. Come quella, subdola e perversa, di "alcuni farisei": "E' lecito.... ?". Di fronte al "mistero grande" del matrimonio, l'unico che sembra loro interessare è se sia "lecito ripudiare" la moglie. In essi affiora sempre l'approccio legalistico alle persone, che rinvia, scioglie (significato originale di ripudiare) l'amore nei confini del proprio tornaconto. In questo episodio è profetizzata l'ondata dei "è lecito?" che, dall'Illuminismo ai nostri giorni, ha stravolto l'umanità. Sempre in cerca di un "è lecito" per sfuggire il dolore e il sacrificio che, a causa del peccato, l'amore suppone. Ma Gesù, conoscendo il loro cuore, risponde inaspettatamente con un'altra domanda, questa volta piena d'amore e ci ci annuncia di nuovo il Vangelo attraverso la Chiesa, la liturgia e la predicazione. Il matrimonio, infatti, tale come traspare dalle parole di Gesù, è la Buona Notizia dell'amore di Dio con il quale e per il quale ha creato l'uomo, maschio e femmina. "Da principio" Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza, "maschio e femmina" perché in essi, nella loro irriducibile diversità e complementarietà che "Dio ha congiunto in una carne sola", rifulgesse il mistero dell'amore e della comunione della Trinità: "la missione della famiglia è iscritta nel solco della Santissima Trinità. Non c’è, in questo mondo, un’altra immagine più perfetta, più completa di quello che è Dio: unità, comunione. Non c’è un’altra realtà umana più corrispondente, più umanamente corrispondente a quel mistero divino" (Giovanni Paolo II). "Da principio" Dio ha pensato la comunione e l'amore. Al "principio" di tutto, come una vocazione dell'universo e degli uomini, come una profezia dell'eternità. "Da principio", infatti, ap'archès, traduce la prima parola ebraica della Torah; come anche l'inizio del Vangelo di Marco e Giovanni. La prima parola della Bibbia è l'amore che crea e unisce un uomo e una donna. Sulla soglia della vita vi è la famiglia, così come Dio l'ha pensata, voluta e creata; il Vangelo parte da qui, e nessun annuncio può non partire dall'amore dal quale ogni uomo è stato generato, come lo stesso Figlio di Dio, la Parola del Padre che era al Principio e si è fatta carne nello Spirito Santo per riunire in sé stessa ogni carne dispersa e separata. Creando l'uomo libero, Dio sapeva, infatti, che questi avrebbe potuto "indurire il cuore" nella menzogna del demonio e separarsi da Lui e separare quello che Egli aveva unito; Adamo ed Eva, ingannati, caddero preda della "Sklerokardia", la durezza del cuore; si tratta di un termine rarissimo nel Nuovo Testamento, è usato solo qui (e nel parallelo di Mc) e nel finale di Marco, quando Gesù risorto, apparendo ai discepoli, li rimprovera per la loro incredulità e durezza di cuore:  "dal principio" dunque, sino al mattino della resurrezione, e ancora più in là sino all'alba dell'Ascensione, da Adamo ed Eva sino ai discepoli di Gesù, la stessa malattia del cuore, la stessa incredulità. Quei farisei increduli vogliono ingannare Gesù per indurlo a dar loro ragione; per questo obiettano che "Mosè ha "ordinato" di dare l'atto di ripudio". Qualcosa che è "permesso" non è un obbligo o un comando da eseguire. Per riguardo alla "debolezza" si "permette" qualcosa di speciale. Ma Gesù li riporta alla verità; in effetti, Mosè non ha dato alcun ordine riguardo al ripudio: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli". Sino a quel giorno, quasi obbligato dalla durezza del cuore, era stato permesso qualcosa che non lo era "da principio". Ma ora, di fronte ai farisei, come di fronte a ciascuno di noi, vi è Colui che era "da principio"; vi era Cristo, il principio di ogni cosa, l'autore stesso del matrimonio. Per questo, con autorità, dichiara che, in Lui, quello che era stato permesso per la debolezza, non è più necessario e perde quindi validità: le cose vecchie sono passate, chi è in Cristo è una creazione nuova. Sulla Croce Gesù ha compiuto quello che oggi ci annuncia: in essa, il "principio" si compie in un presente che si dilata nell'eternità; il "non fu così" del "principio" diviene l' "essere così" del presente. Il "principio" del disegno di Dio ci è consegnato oggi nella Croce del Signore, sulla quale siamo attirati attraverso i sacramenti e l'ascolto della Parola di Dio, guidati dalla cura amorevole della Chiesa. Perché la Croce è la porta al Cielo, e nella Chiesa possiamo entrare ogni giorno nel Mistero Pasquale che ci fa passare dal peccato e dalla morte che ci fa incapaci di amare alle primizie del Regno dei Cieli, nelle quali sperimentare la libertà e la gioia di donarsi delle creature create "al principio". La sua croce nella nostra, il luogo dove ci dà ogni giorno appuntamento per essere "congiunti" con Lui e tra noi in una sola carne. Il verbo greco synezeuxen che indica "congiunto" infatti, è formato dalla preposizione-prefisso syn ("con") e dalla radice zeug-, che descrive anche due animali uniti dal "giogo" (zeugos). Il giogo che unisce gli sposi è dunque il giogo di Cristo, mite e umile di cuore. Esso è leggero e dolce perché è l'unico adeguato a ciascuno dei due. Non può esservi giogo diseguale, pena inciampare, cadere, rompere l'unità. Senza il giogo di Cristo, lontano dalle sue braccia distese ad unire gli sposi, la "condizione dell'uomo rispetto alla donna" è così difficile e dura che "non conviene sposarsi". Senza l'amore infinito di Cristo che ogni giorno perdona, e fa perdonare, ama e dona di amare, si resta nella condizione di morte frutto del peccato, dove dolore e concupiscenza regnano e dominano le relazioni. 


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SABATO 19 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/x7LVP9PiSBA


LA PICCOLEZZA CHE ATTIRA LA BENEDIZIONE DI GESU'

I discepoli di Gesù sono un vero mistero. Gesù li aveva istruiti sino a quel momento mostrando loro che cosa fosse un discepolo. Li ha chiamati, eletti, amati proprio perché piccoli, perché "bambini". Ed essi "sgridano" chi presenta a Gesù dei bambini perché "imponesse loro le mani e pregasse". Un mistero di stoltezza, come la nostra. ma come ha accolto te, e tu non vuoi che accolga altri come te? Ma lo stolto non può penetrare il pensiero di Dio, e così, non capendo, non sa accogliere. La gratuità non è nel registro dei suoi pensieri, nonostante l'abbia sperimentata. Pietro ne aveva dato dimostrazione quando si è messo di traverso sul cammino d'amore di Gesù. Cos'ha da offrire un bambino? Quali meriti? Nell'Israele del primo secolo il bambino era un simbolo di mancanza di stato sociale e di diritti legali. Era una sorta di "non-persona", completamente dipendente dagli altri per il sostentamento e la protezione. Poco più che nulla. San Paolo scrivendo ai Corinzi circa la loro elezione dirà: " Considerate bene la vostra chiamata fratelli. Non esistono molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti di nobili natali. Ma quel che esiste di folle nel mondo, proprio questo Dio ha scelto per confondere i sapienti; quel che esiste di debole nel mondo, ecco che Dio lo ha scelto per confondere la forza; quel che nel mondo è di ignobili natali (i figli di nessuno), e quel che viene disprezzato, ecco quel che Dio ha scelto. quel che non è per annientare quel che è, affinché nessuna carne abbia a gloriarsi davanti a Dio" (1Cor 1,26-29). Dio ha scelto gente ignobile, disprezzata, figli senza genitori, abbandonati. Dio è andato per orfanotrofi a cercarsi i discepoli. E' sceso nei luoghi senza amore, senza dignità, nel nulla dimenticato dal tutto che è solo apparenza. Così ha creato l'uomo al principio, ricco di tutto perché creatura disegnata per accogliere il suo amore. Così ha chiamato Abramo, così il suo Popolo e i profeti, così Davide. Così il Suo Figlio, disprezzato, reietto, rifiuto degli uomini. Così ciascuno di noi, bambini incapaci di tutto e, per questo, in tutto dipendenti da Dio. Vi è una pagina di rara bellezza che, nel libro del profeta Ezechiele, descrive l'amore infinito e gratuito di Dio verso il suo popolo, verso ciascuno di noi: "Così dice il Signore, l'Eterno a Gerusalemme: La tua origine e la tua nascita sono dal paese di Canaan; tuo padre era un Amorreo e tua madre una Hittea. Alla tua nascita, il giorno in cui fosti partorita, non ti fu tagliato l'ombelico, non fosti lavata con acqua per pulirti, non fosti sfregata con sale né fosti avvolta in fasce. Nessun occhio ebbe alcun riguardo di te per farti una sola di queste cose, avendo compassione di te; il giorno in cui nascesti tu fosti invece gettata in aperta campagna, per la ripugnanza che avevano nei tuoi confronti. Io ti passai vicino, vidi che ti dibattevi nel sangue e ti dissi mentre eri nel tuo sangue: "Vivi!"... Così stesi il lembo della mia veste su di te e copersi la tua nudità, ti feci un giuramento, stabilii un patto con te e tu divenisti mia", dice il Signore, l'Eterno. "Ti lavai con acqua, ti ripulii interamente del sangue e ti unsi con olio. Ti feci quindi indossare vesti ricamate, ti misi calzari di pelle di tasso, ti cinsi il capo di lino fino e ti ricopersi di seta. Ti abbellii di ornamenti ti misi i braccialetti ai polsi e una collana al collo. Ti misi un anello al naso, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul capo.Così fosti adorna d'oro e d'argento e fosti rivestita di lino fino di seta e di ricami" (Cfr. Ez. 16). Eravamo bambini abbandonati dunque, di nessun valore agli occhi del mondo. Bambini capricciosi, spesso egoisti, ancor più spesso orgogliosi. Bambini che si sono creduti adulti, ricchi, potenti e autonomi. Bambini ingannati dallo splendore effimero di ciò che appariva bello e desiderabile. Bambini buttati via, ridotti a nulla. Sin qui è giunto l'amore di Dio. In questo abisso è sceso il Signore, perché questo era il luogo dell'appuntamento, dove, come i bambini del Vangelo, siamo stati "condotti". Dietro a quei bambini c'è una storia lunga quanto quella dell'umanità, la nostra. Venti, quaranta, ottanta, non importa quanti anni abbiamo compiuto; importa che oggi qualcuno ci "conduca" da Gesù, che la storia ci spinga, forse con le sofferenze e i fallimenti, ad incontrare il suo amore; le sue mani benedicenti, le sue mani crocifisse ci vengono incontro oggi a svellere i cardini dell'orgoglio. Il suo amore disarma l'orgoglio. Il suo amore proteso oggi su ciascuno di noi è la buona notizia d'una speranza. 

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DOMENICA 20 AGOSTO (XX DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO A)

https://youtu.be/o0NaQ7NQA9I  (E' UN COMMENTO AL BRANO DEL VANGELO PREPARATO PER UN'ALTRA OCCASIONE)

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LUNEDI 21 AGOSTO  (XX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/rCkPCYzhLlg


CONSEGNATI ALL'UNICO BUONO

Nella Chiesa primitiva essi erano definiti "perfetti", perché in loro non mancava nulla della "pienezza" di Gesù Cristo, perché, battezzati, vivevano ormai la sua vita. "Perfezione" significa infatti "pienezza", "compiutezza"; l'opera "perfetta di Dio" è la vita di Gesù offerta sino alla finesino alla perfezione secondo l'originale greco: quando, spirando sulla Croce, il Signore dice: "Tutto è compiuto, tutto è perfetto". Al giovane "per essere perfetto" - per non mancare di nulla - "manca una cosa": aprirsi e svuotarsi, dare tutto quello che ostacola la presenza di Cristo in lui. Manca vendere quello che lo riempie, per diventare affamato dell'unico pane che sazia. Manca spogliarsi di tutto, per restare senza difese, un peccatore senza diritti e opere davanti a Dio, e sperimentare che davvero è un Padre buono, l'unico; il solo che perdona infinite volte, che non giudica, non disprezza, che non chiede nulla in cambio del suo amore, che, per amarci, non esige il nostro "fare". Manca conoscere il Padre "buono" che ci ha creati nella sua "bontà" come la sua creatura più "buona". Al giovane, come ai nostri figli, e spesso anche a noi, manca la conoscenza intima del Padre, al punto che la sua "bontà" si rifletta in ciascuno, creato a sua immagine e somiglianza. Ai giovani, per avere la vita eterna, per essere felici, per essere perfetti manca proprio il "tesoro nel Cielo", manca il Padre! Il giovane se va triste perché ha preferito restare orfano. Come tante volte accade anche a noi, e ai nostri figli. Il giovane è triste perché ha scelto di continuare a servire il patrigno, o meglio, l'aguzzino: "seguendo Gesù" sul cammino della conversione e della libertà, dove "vendere ogni bene per darlo ai poveri", avrebbe sperimentato di avere un tesoro in Cielo, di non essere orfano ma figlio nel Figlio dell'unico Padre buono. Seguire Gesù, infatti, non significa dover abbandonare stoicamente i propri beni, ma aver incontrato il Figlio che è immagine e somiglianza "perfetta" del Padre, l'unico "buono" che dà la Vita eterna, il "bene" assoluto. Ovvio che per seguirlo è necessario prima tagliare le catene che legano agli idoli: ma non si tratta di un moralismo o dell'eroismo di chi si illude di aver optato per Gesù. E' invece opera del potere infinito della sua Parola che chiama a seguirlo. Ecco dunque "che cosa fare": camminare nella Chiesa, ascoltare anche oggi Gesù, accogliere nel cuore la sua chiamata d'amore, e lasciare che Lui operi in noi la volontà "buona" del Padre "buono". E questo siamo chiamati a trasmettere ai "giovani": ad abbandonarsi all'amore di Dio, a mettere la propria vita completamente nelle sue mani, come un foglio in bianco sul quale Egli possa scrivere la sua volontà d'amore, attraverso la Chiesa, in un serio cammino di conversione. Spesso, nelle indecisioni, si cela l'idolatria della propria volontà e dei propri criteri. I giovani non sanno cosa fare perché difendono ciò che vorrebbero fare e che non riescono a fare. Per questo Gesù e la sua Chiesa, i pastori con i catechisti e i genitori, annunciano alle nuove generazioni che c'è un solo cammino alla vita eterna, quello dell'autentica libertà: essa si sperimenta solo "seguendo" Gesù, "vendendo" ogni giorno "quello che si possiede", le persone e le cose, i progetti e i criteri, soprattutto la propria volontà, per "darlo ai poveri"; ciò significa convertirsi, ovvero non vivere più per se stessi "possedendo", ma per gli altri "offrendosi". Faranno allora la stessa esperienza di Pietro, adulti nella fede e nella loro umanità: come lui, infatti, quando erano "giovani" andavano dove volevano, facendo quello che la carne desiderava; ma ora, anziani perché adulti nell'esperienza dell'amore di Dio, possono tendere le loro mani, a scuola, nel lavoro, nelle relazioni, e andare dove non vorrebbero, offrendo la propria vita gratuitamente. Non saranno allora più in crisi per non sapere che cosa fare, perché stretti nel dover fare solo quello che la libido e la concupiscenza desidera, senza essere mai soddisfatti; al contrario, saranno felici perché liberi di studiare quando non vorrebbero, sposarsi anche se la paura li schianta, accettare un lavoro noioso e senza soddisfazione. Cogliamo dunque ogni attimo per "vendere tutto" e avere dentro di noi la Vita eterna, perché questo è "ottenerla", ereditarla: non solo dopo la morte, ma oggi! Un cristiano ha la vita di Cristo dentro, perché ha tolto tutto quello che le impediva di farsi largo nel cuore, nella mente, nello sguardo, nei gesti, nelle parole. Chi ha la sua vita, ama in ogni "attimo" che non sfugge più, ma è per l'eternità". 

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MARTEDI' 22 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/_MMJbk8ItU0


CHIAMATI ALLA GERUSALEMME CELESTE

La "salvezza" è l' "impossibile all'uomo" che Dio rende "possibile"
. Con le parole di oggi, Gesù priva di forza qualsiasi moralismo e pelagianesimo (eresia di chi crede di salvarsi con le proprie forze e i propri meriti), rivelando al contempo la friabilità di ogni morale laica. L'orizzonte che attende ogni uomo è il Regno dei Cieli, non un regno che trasformi ideologicamente la terra in Cielo; la salvezza è entrarvi perché chiamati, e non può essere il frutto degli sforzi umani. Si tratta di pura gratuità; all'uomo carnale piegato orgogliosamente su se stesso, la Grazia purtroppo riesce terribilmente indigesta. Per questo, "difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli". Pietro e gli apostoli restano "costernati": stanno con Gesù da tempo, hanno intuito che è Lui la "benedizione" promessa a chi è fedele all'Alleanza e obbediente alla Torah; ha moltiplicato il nulla, certo che è Lui la vera ricchezza, la fecondità, il raccolto, la gioia; è Lui la vita che non muore, sempre sovrabbondante. Ma sanno che proprio la ricchezza dell'uomo è segno della benevolenza di Dio... e sanno che la ricchezza potrebbe consistere anche in poche cose, difese con le unghie... Nella domanda di Pietro è riassunta quella di tutti quelli che, avvicinandosi a Cristo, restano sbalorditi dalle sue parole; in fondo è come se dicesse: ehi, qui non si salva nessuno... Ma Gesù, invece, sta annunciando la verità che può dischiudere all'umiltà e alla libertà di un mendicante. Gesù non sceglie a caso le parole: la porta attraverso cui si accede al Regno è "stretta" come la "cruna di un ago", angusta come la Croce. E' più facile che un cammello passi attraverso un foro così piccolo che per vederlo, a volte non bastano neanche gli occhiali, che tu ed io distendiamo oggi le nostre braccia sulla Croce. Troppo possediamo per poterci donare. Per questo è "impossibile" amare davvero, sino alla fine: perdonare il marito che ha tradito? Impensabile! Perché? Perché da quando eravamo fidanzate con lui abbiamo fatto di tutto per "possederlo": gelosie, scenate, parole e atteggiamenti, ricatti affettivi e slanci passionali, tutto per incollare l'altro al nostro cuore. Così, il "mio" ragazzo è diventato il "mio" marito. Sembra del tutto naturale, ma non lo è. Chi fa dell'altro un suo possedimento non può lasciarlo libero, di pensare e di essere se stesso, men che meno di sbagliare e peccare. L'altro è mio, e, come un bambino capriccioso, ci posso giocare solo io. Quando poi succede che si libera delle catene e scappa, infilandosi ad esempio nel tradimento con la segretaria più giovane, il mondo cessa di esistere e tutto crolla; sotto le macerie di una vita fallimentare spesa a possedere l'altro senza risultato, il marito diventa un nemico da cancellare, un ladro che ci ha rubato gli anni migliori, che ha frantumato i nostri sogni e le nostre speranze. Amarlo? "Impossibile". Siamo egoisti, ci siamo appropriati di persone e cose al punto che non ne possiamo fare a meno. Per noi "ricchi" è "impossibile" entrare nel Regno dell'amore perché è "impossibile" disfarci delle ricchezze e seguire Gesù! Pietro non ha compreso d'essere stato chiamato, amato e liberato da se stesso per entrare, già qui sulla terra, nel Regno dei Cieli, dove tutto è donato e nulla si possiede. "Lasciare tutto" è "impossibile" a Pietro, a me e a te, come a tutti gli "uomini". E' un'opera che solo Dio può rendere "possibile". Se Pietro e i discepoli hanno "lasciato tutto" è stato perché Dio ha compiuto l'impossibile di strappare i loro cuori dalle catene del "possesso" e dalla schiavitù dell'egoismo. I loro nomi sono scritti in Cielo con il sangue del Signore; per questo la loro vita, come un "tesoro" - il "tesoro" di Cristo! - è custodita lassù. Non si tratta, dunque, di un moralismo, ma della Grazia che attira gli uomini a seguire il profumo dell'unico amore per il quale, "dare tutti i beni della terra, sarebbe ancora disprezzarlo". Si tratta di una "nuova creazione", di una "palingenesi" secondo l'originale greco; significa che Gesù "ci ha salvato non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo", cioè grazie alla "palingenesi" che, in tutto il Nuovo Testamento, troviamo solo qui e nel brano di oggi. E questo "perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna" (Tito 3, 5-7).  Ma occorre davvero desiderarla, mettere in gioco la propria libertà, perché Dio non salva nessuno senza l'adesione personale. Allora ogni uomo ha bisogno che qualcuno scenda laggiù, nelle profondità del suo cuore, e lo guarisca, strappandogli il veleno che lo fa morire. E uno solo lo ha "fatto" per tutti: Gesù Cristo! E' Lui che, con una carne identica a quella di Pietro e compagni, si è lasciato spogliare di tutto, e con la sua Croce è passato attraverso la "cruna d'ago" che lo separava dal regno dei Cieli; entrato in esso vi ha deposto il suo "tesoro", la vita di Pietro e degli apostoli. E' l'amore di Cristo che lo perdonato ed eletto ad entrare nella "nuova creazione", dove regnerà è giudicherà, cioè "governerà" le Dodici tribù di Israele insieme con Lui; ravveduto e cercato dal Signore, confermerà, pascerà e giudicherà con amore i suoi fratelli. L' "ultimo", il pescatore di Galilea che ha tradito e abbandonato Gesù, nella sconvolgente gratuità dell'amore di Dio, diviene il "primo", senza alcun merito! Questa è l'economia del Regno dei Cieli, una creazione nuova, opera del Creatore e non delle mani dell'uomo

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MERCOLEDI' 23 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/-qsyIE_l6yE


LA BONTA' DI DIO CI "CONTRATTA" OFFRENDO SUO FIGLIO IL FIGLIO CON IL QUALE OPERARE IL BENE CHE ANNUNCIA IL SUO REGNO 

Quello che non sa il mondo con le sue ideologie cieche che non prevedono il peccato originale nel cuore dell'uomo, è che nessuno merita nulla perché tutti sono stati "disoccupati" nell'incapacità di amare: "Non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani! Poiché non c'è che un solo Dio, il quale giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non circoncisi" (Rm 3, 22-30).  Se, per Grazia, siamo stati chiamati alla salvezza prima dei pagani che ancora sono schiavi del mondo, è in vista della loro salvezza. Lo doveva capire anche Pietro, proprio come il giovane ricco. Ma, a differenza di questi, Pietro ha continuato a seguire Gesù, cadendo altre mille volte, scandalizzandosi della Croce e tradendo; ma così ha capito di essere stato chiamato ad essere il "primo" proprio perché era l"ultimo" tra tutti, il peggiore. Come aveva ben chiaro San Paolo: "Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me" (1 Cor. 8,15-10). Anche noi abbiamo bisogno di camminare molto per scoprire e accettare di essere gli "ultimi", e così entrare nella libertà dei figli di Dio, felici del "denaro" che ricevono immeritatamente ogni giorno; saremo allora una primizia tra i risorti inviata agli ultimi della terra, per annunciare loro la "giustificazione" gratuita di Dio che li "fa primi nel Regno dei Cieli".   

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GIOVEDI' 24 AGOSTO SAN BARTOLOMEO APOSTOLO

https://youtu.be/UgFIuYVN9LY


GESU' CI CONOSCE NELL'INTIMO AMANDO IN NOI LA SUA IMMAGINE PER RIDESTARLA E FARLA SPLENDERE DINANZI AL MONDO

"Come mi conosci?". Che non è solo chiedere a Gesù come faccia a conoscerci, ma è molto di più: in che modo mi conosci? "Come il Padre ha amato me anche io ho amato voi". C'è un "come" unico e irripetibile, la forma concreta con la quale il Signore ci ama. Ciascuno di noi è diverso, non vi è una persona identica all'altra; così, come seguendo il sentiero intricato delle nostre impronte digitali, Gesù ci ama. Si inerpica nelle asperità del carattere, scende nei precipizi dei cambi di umore, si ferma laddove cadiamo. Gesù ha amato Natanaele "vedendolo prima" di ogni altro. Così anche ciascuno di noi è amato da Lui in una forma originale, perché ci ha visto quando e dove nessuno poteva vederci. Ci ha visto ancor "prima di essere chiamati". Come accadde per Isaia, per Geremia e per San Paolo, Dio ci ha "conosciuti" perché i suoi occhi ci hanno "visto ancor prima" di essere formati nel grembo materno, quando eravamo ancora informi. Il suo amore precede ogni nostra scelta, ogni pensiero e ogni attitudine, ogni gesto buono o malvagio. Il suo amore non dipende da noi! Lui ci ha amati da sempre perché, come Natanaele, ci ha "visti senza falsità". Ma come, siamo falsi e ipocriti, sempre dissimulando la parte meno nobile di noi stessi... Siamo peccatori, e ogni peccato sorge dal demonio, il padre della menzogna, e il Signore ci "vede senza malizia"? Si, perché ci ha "visto prima", laddove siamo stati pensati e creati dal Padre. Ci ha "visti sotto il fico": è il luogo dove i rabbini studiavano la Torah; ma il fico, in Osea 9,10, era anche il simbolo di Israele. Israele, che significa forte con Dio, nasce sotto il fico, nell'ascolto e nell'accoglienza docile della Parola di Dio. Israele diviene esso stesso Parola, il segno della presenza di Dio nella storia. Tutti noi, dice San Giovanni, siamo stati creati per mezzo del Verbo - della Parola - e in Lui sussistiamo e ci muoviamo. Ecco, Gesù ha visto Natanaele mentre veniva creato, pensato e intessuto nel seno di sua madre, attraverso la forza della Parola. Natanaele è apparso ed è venuto al mondo ascoltando la Parola. Non può esserci malizia e falsità in chi è stato creato nella Parola della Verità. Poi è venuta la menzogna, certo, e il peccato originale. Ma ancor più in origine, per così dire, vi è la Torah che ha tratto Natanaele e ciascuno di noi alla vita. In questo istante Gesù lo ha visto e ci ha visto, "prima" di peccare, e "prima" anche di essere chiamato nella Chiesa, ad essere padre, madre, prete o suora; "prima" di qualsiasi chiamata vi è la Parola che ci ha creato: in quell'istante Gesù ha posato il suo sguardo su di noi e ci ha "giudicato" puri, senza il veleno della menzogna. E quello sguardo Gesù ha conservato sino ad oggi, nonostante i nostri peccati. Lui ci vede come nessuno può vederci, neanche nostra madre, nostro marito, nessuno. Per questo Natanaele, anche se in un primo momento, all'udire di Gesù, oppone i criteri della carne, il frutto della propria esperienza, non rimane in essi. Si muove invece, accogliendo l'invito di Filippo. Qualcosa l'ha fatto oltrepassare la barriera della natura e lo ha sospinto ad "andare e vedere". Lo stesso può accadere per noi. Il desiderio di essere amati per quello che siamo ci sospinge sempre, ad "andare e vedere". Siamo un po' come giocatori di poker, e, per questo, molte volte siamo caduti nel bluff de demonio. Ma ancora una volta, oggi, il Signore viene alla nostra vita, attraverso un fratello, un catechista, un sacerdote, e ci annuncia il suo amore. Non dobbiamo far altro che obbedire e "andare e vedere". E' fondamentale l'andare: senza il movimento che ci fa uscire da noi stessi è impossibile poi vedere. E' necessario aprire il cuore, fosse anche di un millimetro, e muoversi per uscire dalle certezze, dal pensiero che "da Nazaret non può venire nulla di buono". Forse sino ad oggi non abbiamo ottenuto quello che abbiamo chiesto; forse il matrimonio continua a far acqua; forse il figlio è andato solo peggiorando seguendo amicizie cattive; forse davvero oggi tutto ci dice che "da Nazaret non è mai venuto nulla di buono", perché Gesù o è sordo o è impotente dinanzi alle nostre sofferenze. Ma oggi il Signore viene di nuovo a sfiorare il profondo del nostro cuore, e il suo sguardo torna nella parte limpida e incontaminata della nostra anima. E  ci attira a Lui, a consegnare noi stessi al suo amore. Scopriremo che nessuno ci ha mai amato come Lui; "andando" verso di Lui, "vedremo" noi stessi come da Lui siamo guardati, e nulla potrà mai più essere come prima. Come è accaduto per Natanaele, sperimenteremo che, amati da sempre, è del tutto irrilevante stare a guardarci dentro cercando perché abbiamo peccato, da dove viene la nostra sofferenze o qual'è l'origine del nostro fallimento. Prima di tutto c'era il suo amore. Tornando ad esso, anche i peccati, i macelli, i fallimenti che gli sono successivi, acquistano una fisionomia diversa. Non sono altro che l'esperienza della vanità di tutto quello che non è figlio del suo amore. Vedremo, come Natanaele, "i cieli aperti" e "li angeli scendere e salire su Gesù". Ciò significa che i "cieli si aprono" per noi laddove incontriamo il Signore e sperimentiamo il suo amore infinito e "prima" di tutto; la terra dove abitiamo diviene allora, come fu per Giacobbe, un luogo santo e tutto - matrimonio, lavoro, malattie - acquista una luce nuova. In tutto possiamo vedere scendere  il Cielo e tutto salire nel Regno eterno. Tutta la nostra vita è una chiamata ad andare a vedere. Ci chiama la moglie quando è stanca e nervosa; ci chiama il marito depresso; ci chiama il figlio che va male a scuola; tutto ci chiama per farci uscire da noi stessi e andare per vedere l'amore di Dio che ci ha dato la vita. Questa è l'unica forma di vita senza malizia e falsità: rischiare ogni giorno il proprio "io" per vedere un Tu capace di colmare la propria vita, perché "Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama" (san Bernardo).

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VENERDI' 25 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/Hd1Ds0di8jw


L'ASCOLTO UMILE DELLA PAROLA DI DIO CI INTRODUCE NELL'ORDINE DELL'AMORE

O "tutto" o niente. Il cristianesimo, portato dalla radice dell'ebraismo, non ammette mezze misure. O l'amore o il nulla. Perché l'amore non è divisione ma compimento integrale di una persona. L'amore non ammette compromessi, dilazioni, frammentazioni. L'amore è Dio e Dio è uno! Che vuol dire che il Signore è uno? Gesù rivela il cuore della Legge sintetizzandola nell'amore, da cui deriva ogni altra Parola, della Torah e dei Profeti. Senza amore tutto è vano dirà San Paolo, e sarà un approfondimento di questa risposta di Gesù. L'incipit delle Dieci Parole di Vita, vergate con il fuoco dell'amore divino e rivelate sul Sinai, rammentano un'esperienza d'amore. L'ascolto è preceduto e accompagnato dall'esperienza di una giustizia e una misericordia gratuite realizzate per Israele attraverso la liberazione dall'Egitto. E in essa, il Popolo ha conosciuto Dio come unico, nell'amore e nel potere. Lo stesso incipit appare nello Shemà, il comandamento più grande. L'amore a Dio e al prossimo scaturisce dall'esperienza dell'unicità dell'amore che rivela Dio. Per questo prima di essere un comandamento, esso è un'affermazione, un annuncio e una profezia, la rivelazione di un'identità. "Ascolta Israele, il Signore è uno": Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicitàL'ascolto della sua Parola è l'unica possibilità offerta all'uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio, dalla schiavitù idolatrica che esso suppone. La Parola di Gesù è dunque lo Shemà capace di ri-orientare la vita sul cammino del compimento, dove cuore, anima e forze sono impiegate per amare. Lo Shemà che genera e gesta i figli di Dio perché vivano liberi come il Padre loro. A chi consegnare se stessi se non nessun altro ci ama come Lui? Chi amare se non l’unico che ci ha creato, perdonato e riscattato? Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci di salvare? Tutto ha origine da un'esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d'amore. Questo amore che sorge dall'essere amato è la roccia su cui fondare l'esistenza, la stabilità nell'instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà è il fondamento del matrimonio, del fidanzamento, dell'amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Lo Shemà è l'antidoto al fallimento delle relazioni: chi vive lo Shemà non dirà mai "non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima"; perché lo Shemà compiuto inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell'elezione a vivere sulla terra l'amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi. Dio infatti è unico perché il suo amore è l'unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l'unico che ci ama così come siamo. Lui solo può darci la vita nella morte, orientare tutto di noi verso il compimento della missione affidata. L'esperienza del suo amore genera il radicale e assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente, l'amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico, perché ogni uomo, qualunque sia la sua situazione, reca scolpito il cromosoma divino. Ascoltare è dunque amareAscoltare la Verità è obbedire alla Verità; non a caso in ebraico i due verbi coincidono. Nulla di sentimentale, erotico e passionale. Ascoltare nell'assemblea, la predicazione, la Parola, il Magistero. Ascoltare e imparare a obbedire insieme al Popolo santo di Dio, appoggiati alla sua fede. Per vivere l'amore vero, non quello falso e ipocrita dei Baci Perugina; l'amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente. L'amore crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel suo tutto consegnato il nostro tutto consegnatoAmore per amore, che significa ascoltare e proclamare nella vita, per pura Grazia, l'unicità dell'amore di Dio nel canto di gioia che sgorga dal compimento della propria vita secondo la volontà-comandamento-parola del Padre.

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SABATO 26 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/PURd4ZRNNTs


DISCEPOLI DI CRISTO VIVIAMO NELL'UMILTA' DI MOSE' CHE CI FA TESTIMONI AUTENTICI DELL'AMORE

Tutti sappiamo usare la carta dell'umiltà, quando quella dell'arroganza non paga... Ma vediamo l'attitudine che ci sgorga dal cuore di fronte all'umiliazione vera, non quella che ci appiccichiamo da soli e che non fa mai male, essendo pura apparenza. Vediamo quando non ti prendono in considerazione, non perché tu, spontaneamente, hai fatto un passo indietro; no, quando gli altri non ti vedono proprio, e ti accorgi di essere irrilevante. Vediamo quando non sanno che farsene della tua opinione, o, se te la chiedono, è pura scena, visto che hanno già deciso tutto senza di te. Vediamo quando la storia ti fa scendere all'ultimo posto, tuo malgrado... Non sale, indomito, un fremito dal profondo del cuore, e ti senti soffocare in un'ingiustizia che non puoi sopportare? Ma come, io sono un prete da anni, capito? Da anni ho "allungato le frange e allargato i filatteri", messe in ogni dove e a qualunque ora, e chilometri per consolare, aiutare, mamma mia quanto zelo profuso... e ora? I giovani sbarbatelli e senza esperienza mi passano avanti. Sono sempre stato dolce e disponibile per farmi "salutare" sulle piazze; ho aiutato tanti, ho fatto elemosine e regalato denaro, ho invitato tanti a casa mia per avere da loro i "primi posti nei loro banchetti"; ho sudato la gavetta in seminario, e poi nel ministero, per arrivare a "un posto d'onore" nella parrocchia e nella missione, e ora eccomi qui dove nessuno mi consulta... Insomma chi sono diventato? Forse stai solo scoprendo di essere quello che sei sempre stato... Hai così pervertito l'elezione e il ministero da usare per te le Grazie e i segni che ti sono stati dati per ricordare la gratuità e la misericordia nelle quali fosti chiamato: "perché sei ambizioso e allarghi queste cose? Forse è una tua opera buona? Dio non richiede che si allunghino o allarghino queste cose, ma che si ricordino le sue opere prodigiose" (S. Giovanni Crisostomo). Ti sei appropriato dell'opera di Dio attribuendola a te, per pura vanagloria, esibendola, ricordandola a tutti, facendola pesare, mentre avrebbe dovuto umiliarti e aprirti alla lode e alla gratitudine. L'unica salvezza è la Verità. Quella che Gesù ha annunciato circa gli scribi e i farisei; quindi anche su tuo figlio e su di te, padre ipocrita, e su di me, prete moralista. Ingannati dal demonio "facciamo tutto per essere ammirati", cioè non facciamo nulla gratuitamente, perché non abbiamo ancora conosciuto la gratuità. Viviamo nella legge della menzogna, per questo tutto ciò che diciamo e facciamo è artificiale; le relazioni, anche quelle più intime, soffrono la superficialità e l'estemporaneità delle passioni, dei sentimenti, e non hanno radici solide. Non siamo "maestri", né "padri" e nemmeno "guide" perché non abbiamo l'esperienza dell'essere discepoli, figli e parte di un popolo obbediente perché sa di avere bisogno di un Pastore buono che lo conduca! Sino a che non accetteremo questa realtà, galleggeremo sui giorni senza lasciare traccia, come maschere obbligate a recitare a soggetto. Ingannati dal demonio sulla nostra identità, su Dio e sulla nostra storia, come quegli scribi e quei farisei, "leghiamo pesanti fardelli, difficili da portare, e li poniamo sulle spalle della gente"; ciò accade perché, avendoli sempre schivati "non volendo muoverli neppure con un dito", le nostre spalle non conoscono il peso di una legge da portare senza la Grazia che la scrive nel cuore. Sì, ci siamo "seduti sulla cattedra" dell'uomo più umile della terra, profanandola con la nostra arroganza. Mosé non diceva una parola una che fosse sua; ascoltava e trasmetteva le parole che Dio gli annunciava, restando uno del Popolo, considerandosi l'ultimo di tutti, il peggiore; era, infatti, un fuggitivo, un assassino, e lo sapeva bene. E' la stessa verità che tutti ci definisce, quella che il demonio ci ha occultato. Ma oggi Cristo viene di nuovo a liberarci! Coraggio, sei un ipocrita, ma io ti amo. Ora sei umiliato, con una catasta di fallimenti sulle spalle? Ora sperimenti il peso di regole e criteri orfani dello Spirito Santo e non lo riesci a sopportare? Bene, è il momento favorevole! Convertiti, convertiamoci! Non siamo Dio, tanto meno "maestri, padri e guide". Accettiamolo, e iniziamo, una volta per tutte, a seguire davvero il Signore; impariamo ad essere "discepoli, figli e pecore del suo gregge".  Allora potremo essere autentici, e andare, balbettando umili come Mosè, ad annunciare quello che abbiamo visto, ovvero la risurrezione di Cristo, e mostrare quello che abbiamo sperimentato, ovvero la vita eterna nel seno verginale di Maria nostra Madre, la Chiesa che ci accompagna e ci aiuta a scendere e a restare nella verità, all'ultimo posto. Riposa, e lasciati amare! Riposa e vedrai che ritroveranno in te la speranza tutti quelli che, a causa dei tuoi ipocriti moralismi, l'avevano perduta. Riposa e fai la volontà di Dio come Mosè, obbedendo alla sua Parola e stringendo il bastone della Croce. Allora vedrai il mare aprirsi dinanzi a te, e potrai condurre alla libertà la tua famiglia, e tutte le persone che Dio ha legato al tuo ultimo posto, al tuo "servizio" di annunciatore e testimone del suo amore.

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DOMENICA 27 AGOSTO (XXI DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO A)

https://youtu.be/1qb4Su3EHwE (IN OCCASIONE DELLA CATTEDRA DI SAN PIETRO)


CON LE CHIAVI DEL CIELO LA CHIESA FA DEL MONDO IL TEMPIO DOVE CRISTO RISCATTA OGNI UOMO

Come Mosè, Pietro è scelto e chiamato per liberare gli uomini dalla schiavitù. Non a caso la moderna teologia liberale, quella protestante e il pensiero mondano rifiutano il primato di Pietro perché non credono più alla dottrina sul peccato originale. Poi, certo, vi sono altre implicazioni, ma il cuore della divisione tra i cristiani è la stessa che separa la Chiesa dal mondo, dalle sue ideologie e filosofie: il peccato originale. Per questo i protestanti hanno buttato via i sacramenti… Per questo oggi, anche tra i cristiani, pochissimi vi si accostano o, senza ormai comprenderne il senso, li reclamano a prescindere dal proprio cuore, quasi fossero un certificato che legittimi le proprie scelte e la propria vita. I sacramenti a timbrare e sigillare il peccato di Adamo... Il problema è proprio l’ignoranza dei cristiani e dei loro pastori, inzuppati nell’acido del buonismo della cultura contemporanea, figlio del teorema del “buon selvaggio” di Rousseau, secondo il quale l’uomo è buono per natura ed è corrotto solo dall’educazione e dalle strutture sociali, dal sistema. Infatti, molti interpretano le parole che Gesù rivolge a Pietro in un senso sociale, per cui la Chiesa dovrebbe impegnarsi a “sciogliere” gli uomini dalle catene dell’ingiustizia. In quante parrocchie la domenica si parla di peccato? Al massimo di peccato sociale e di strutture di peccato… E la gente torna a casa più intristita di prima, con un peso e un senso di frustrazione che lascia tutto com’è. Un marito, dopo essersi sorbito mezz’ora di omelia su mafie, politici, disastri ambientali e responsabilità da denunciare; dopo mezz’ora di parole vuote infarcite di spirito mondano, questo uomo potrà tornare a casa e umiliarsi di fronte a sua moglie? Certo che no… E così, pur andando a messa, finirà con il divorziare. Nessuno gli ha mai parlato di peccato, per questo, nessuno gli ha mai annunciato la vittoria di Cristo, la sua resurrezione come un evento per lui, per il suo matrimonio. Ma oggi la Chiesa ci annuncia di nuovo la Pasqua! Con le parole che rivolge a Pietro Gesù profetizza il suo Mistero Pasquale; non solo, ma ci rivela anche che il potere di vincere il peccato e la morte è stato dato a Pietro e alla Chiesa. Che essa esiste per liberare gli uomini e condurli, a poco a poco, in una vita nuova. La Chiesa Orientale ha sempre raffigurato la risurrezione di Gesù attraverso la sua discesa agli inferi. Ed è proprio a questo mistero della nostra fede che professiamo nel Credo, che dobbiamo andare per comprendere il Vangelo di questa domenica.  L’iconografia orientale raffigura Gesù luminoso della vita che non muore mentre passa e apre le “porte” degli inferi e prendere per mano Adamo ed Eva: il demonio è sotto le porte, schiacciato, con i suoi compagni. Gli stessi strumenti di tortura che l’avevano inchiodato alla Croce sono lì, nelle profondità dell’inferno. La “chiave” che ha aperto le “porte” è stata dunque la Croce, posata sulle sue spalle come era d’uso anticamente fare con le chiavi della città, molto grandi; ed era un segno di comando e di autorità: la Croce che ha accolto il sacrificio e la morte di Gesù ha avuto il potere di scardinare l’accesso alla prigione dove il demonio teneva segregati Adamo, Eva e i loro discendenti. Tu ed io. Ecco dunque "chi è Gesù": il Figlio del Dio vivente, il Messia che ha vinto il peccato e la morte! E’ vivo oggi, e “apre” oggi le “porte” che rinchiudono gli uomini nella paura che li spinge a peccare. Pietro lo ha conosciuto per una rivelazione speciale del Padre. Che significa? Che è stato chiamato a sperimentare la “beatitudine” alla quale ogni uomo è destinato, per pura Grazia prima di ogni altro uomo e per ogni altro uomo la discesa vittoriosa di Gesù agli inferi, ai suoi! E’ questa l’elezione della Chiesa, vivere un anticipo di “vita beata”, la vita nella fede, come un segno e una profezia per il mondo. Ed è la tua e la mia vocazione: sperimentare che Gesù ha vinto la morte con “carne e il sangue” uguali a tutti gli uomini. Ma senza la vita celeste dentro, “carne e sangue” non “rivelano” chi sia Gesù. Per “la gente” che ha solo quelle, Egli resta un “profeta”, uno speciale magari, e che insegnamenti sublimi, ma non è Dio.  Non ha cioè il potere di farmi risuscitare. Per la fede gli uomini hanno bisogno di Pietro e della Chiesa, dove sperimentare le “beatitudini”, ovvero la vita nuova di chi è stato liberato dalla prigione degli inferi. Per questo è necessario un lungo e serio cammino di fede, come vi era nella Chiesa primitiva. Non a caso, infatti, nel dialogo tra Gesù e Pietro si ode l’eco del rito battesimale: prima di immergersi nell’acqua, i catecumeni rinunciavano a satana e professavano la fede. Quella che professa Pietro, e che Gesù pone a fondamento della Chiesa, che avrà sempre la meglio su satana. E’ cristiano chi ha incontrato Pietro che viene ad “aprire” le porte dell’inferno, “sciogliere sulla terra” la carne dalla paura e dal peccato per “legarla in Cielo” a Dio per mezzo del potere di Cristo. E’ cristiano chi ha ricevuto, come Pietro, il nome nuovo, ovvero la vita nuova da sempre preparata per lui, in virtù della fede che ha dato il nome esatto a Gesù. Ciò è possibile solo attraverso un’adeguata iniziazione cristiana che, con la Parola e i sacramenti, sveli l’identità autentica di Gesù.  La Chiesa, infatti, ha le “chiavi” per aprire le “porte” che separano il Cielo dalla terra; per mettere cioè in una prospettiva divina e celeste gli affari dell’uomo sulla terra. La Chiesa ha la Croce gloriosa di Cristo per “legare e sciogliere”, agganciando all’eternità ogni istante della vita dell’uomo.

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LUNEDI' 28 AGOSTO  (XXI SETTIMANA DEL TO)


CONSEGNATI ALL'UNICO BUONO CHE CI FA PERFETTI PER SEGUIRLO VERSO LA GERUSALEMME DEL COMPIMENTO

La vita ci è data per diventare "perfetti", e la "tristezza" incombe quando non riusciamo ad esserlo. Tutto ciò che è meno della perfezione non ci appaga, non ci realizza, non dà compimento ai nostri giorni; ci frustra e ci getta nel cinismo e nell'accidia, madri sempre incinta della tristezza. Non a caso il "tale" che si avvicina a Gesù è un "giovane". Se è lì davanti a Gesù, innanzitutto è perché, come ogni giovane, non sa cosa fare: se studiare o lavorare; che facoltà scegliere o dove presentare domanda di lavoro; se fidanzarsi o no con quel ragazzo; se sposarsi o aspettare; se dare ascolto a quella voce che sembra ti stia chiamando ad essere prete o suora, oppure non farci caso e metterla a tacere. In fondo, mentre tira su e arrotola la persiana dei pochi anni vissuti, il giovane chiede a Gesù se esiste qualcosa di buono per cui valga davvero la pena spendere la vita; una buona causa, un buon ideale, un buon motivo per fare e raggiungere l'eternità. 
Manca la "perfezione", che non si riferisce alla condotta morale, ma alla pienezza di vita dei cristiani. Nella Chiesa primitiva essi erano definiti "perfetti", perché in loro non mancava nulla della "pienezza" di Gesù Cristo, perché, battezzati, vivevano ormai la sua vita. "Perfezione" significa infatti "pienezza", "compiutezza"; l'opera "perfetta di Dio" è la vita di Gesù offerta sino alla finesino alla perfezione secondo l'originale greco: quando, spirando sulla Croce, il Signore dice: "Tutto è compiuto, tutto è perfetto". Al giovane "per essere perfetto" - per non mancare di nulla - "manca una cosa": aprirsi e svuotarsi, dare tutto quello che ostacola la presenza di Cristo in lui. Manca vendere quello che lo riempie, per diventare affamato dell'unico pane che sazia. Manca spogliarsi di tutto, per restare senza difese, un peccatore senza diritti e opere davanti a Dio, e sperimentare che davvero è un Padre buono, l'unico; il solo che perdona infinite volte, che non giudica, non disprezza, che non chiede nulla in cambio del suo amore, che, per amarci, non esige il nostro "fare". Manca conoscere il Padre "buono" che ci ha creati nella sua "bontà" come la sua creatura più "buona". Al giovane, come ai nostri figli, e spesso anche a noi, manca la conoscenza intima del Padre, al punto che la sua "bontà" si rifletta in ciascuno, creato a sua immagine e somiglianza. Ai giovani, per avere la vita eterna, per essere felici, per essere perfetti manca proprio il "tesoro nel Cielo", manca il Padre! Il giovane se va triste perché ha preferito restare orfano. Come tante volte accade anche a noi, e ai nostri figli. Il giovane è triste perché ha scelto di continuare a servire il patrigno, o meglio, l'aguzzino: "seguendo Gesù" sul cammino della conversione e della libertà, dove "vendere ogni bene per darlo ai poveri", avrebbe sperimentato di avere un tesoro in Cielo, di non essere orfano ma figlio nel Figlio dell'unico Padre buono. Seguire Gesù non significa dover abbandonare stoicamente i propri beni, ma aver incontrato il Figlio che è immagine e somiglianza "perfetta" del Padre, l'unico "buono" che dà la Vita eterna, il "bene" assoluto. Ovvio che per seguirlo è necessario prima tagliare le catene che legano agli idoli: ma non si tratta di un moralismo o dell'eroismo di chi si illude di aver optato per Gesù. E' invece opera del potere infinito della sua Parola che chiama a seguirlo. Ecco dunque "che cosa fare": camminare nella Chiesa, ascoltare anche oggi Gesù, accogliere nel cuore la sua chiamata d'amore, e lasciare che Lui operi in noi la volontà "buona" del Padre "buono". E questo siamo chiamati a trasmettere ai "giovani": ad abbandonarsi all'amore di Dio, a mettere la propria vita completamente nelle sue mani, come un foglio in bianco sul quale Egli possa scrivere la sua volontà d'amore, attraverso la Chiesa, in un serio cammino di conversione. Spesso, nelle indecisioni, si cela l'idolatria della propria volontà e dei propri criteri. I giovani non sanno cosa fare perché difendono ciò che vorrebbero fare e che non riescono a fare. Per questo Gesù e la sua Chiesa, i pastori con i catechisti e i genitori, annunciano alle nuove generazioni che c'è un solo cammino alla vita eterna, quello dell'autentica libertà: essa si sperimenta solo "seguendo" Gesù, "vendendo" ogni giorno "quello che si possiede", le persone e le cose, i progetti e i criteri, soprattutto la propria volontà, per "darlo ai poveri"; ciò significa convertirsi, ovvero non vivere più per se stessi "possedendo", ma per gli altri "offrendosi". Faranno allora la stessa esperienza di Pietro, adulti nella fede e nella loro umanità: come lui, infatti, quando erano "giovani" andavano dove volevano, facendo quello che la carne desiderava; ma ora, anziani perché adulti nell'esperienza dell'amore di Dio, possono tendere le loro mani, a scuola, nel lavoro, nelle relazioni, e andare dove non vorrebbero, offrendo la propria vita gratuitamente. Non saranno allora più in crisi per non sapere che cosa fare, perché stretti nel dover fare solo quello che la libido e la concupiscenza desidera, senza essere mai soddisfatti; al contrario, saranno felici perché liberi di studiare quando non vorrebbero, sposarsi anche se la paura li schianta, accettare un lavoro noioso e senza soddisfazione. Cogliamo dunque ogni attimo per "vendere tutto" e avere dentro di noi la Vita eterna, perché questo è "ottenerla", ereditarla: non solo dopo la morte, ma oggi! Un cristiano ha la vita di Cristo dentro, perché ha tolto tutto quello che le impediva di farsi largo nel cuore, nella mente, nello sguardo, nei gesti, nelle parole. Chi ha la sua vita, ama in ogni "attimo" che non sfugge più, ma è per l'eternità". 

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MARTEDI' 29 AGOSTO MARTIRIO DI SAN GIOVANNI BATTISTA

https://youtu.be/RdgVIZ6fsQk


PERDERE TUTTO PER LA VERITA'

Sì, si può perdere la testa per Gesù. La verità, quella che ci fa liberi, quella che non è barattabile, la nemica dei falsi compromessi volti a salvare la pelle, fa perdere la testa. Ci sono sempre tagliatori di teste in cerca di poveri profeti disarmati che annunciano senza posa la verità. E la verità, normalmente è scomoda. Ne sappiamo qualcosa anche noi, quando qualcuno osa rimproverarci, evidenziarci un errore, un peccato. Per la Bibbia correggere un saggio è renderlo ancora più saggio. Correggere uno stolto invece, significa attirarne le ire. Facciamo due conti e vediamo da che parte stiamo. Probabilmente da quella dei tagliatori di teste, degli stolti, come Nabal, letteralmente, «colui al quale non si può dire nulla». Uno stolto, uno che per tacitare la verità e potersi rimirare tranquillo allo specchio, non esita a ghigliottinare il profeta. Il Vangelo di oggi ci chiama a conversione, a guardare senza sconti la nostra vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare, voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell'amicizia che ci insinua calunnie sugli altri, quell'affetto troppo corposo, che ha già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che vorremmo capace di essiccare il peccato; quell'adulazione che risuona nelle nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. La verità che la Chiesa ci annuncia ci fa liberi, smaschera il serpente antico e le sue menzogne che ci tengono schiavi, e apre la strada al liberatore, il Signore Gesù, la Verità incarnata per la nostra salvezza. "Non ti è lecito" gridava Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non si addice all'uomo, genera la morte, sempre. Erode si era infilato in una strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell'egoismo. Una vita infelice: "Se uno prende la moglie del fratello è una impurità, egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli" (cfr. Lv. 18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una vita in fumo. Come è accaduto a Davide che, alla vista della bellezza di Betsabea, chiude in prigione ragione e fede, si lascia trascinare dai vortici della passione, e macchina piani e menzogne per dar corpo agli sconvolgimenti dell'istinto ormai senza freno. Morirà Uria, ucciso dalla malizia di Davide. E morirà il bambino nato dalla passione, perché ogni pensiero e ogni azione che non siano ispirate da Dio attraverso la ragione illuminata dalla fede sono senza frutto. Erode «ascoltava perplesso», vigilava, temeva. Ma non era sufficiente. Aveva ormai consegnato il cuore a Erodiade. Al contrario di Davide, peccatore, fragile, ma, inspiegabilmente per chi legge le cose solo carnalmente, proprio lui è il campione dell'uomo secondo il cuore di Dio. Il punto è tutto qui. Un cuore radicato in Dio, anche se cade, è capace di contrizione e di umiltà. Anche se la mareggiata della passione ne ha sconvolto gli equilibri, può tornare ad aggrapparsi all'àncora che non ha smesso di legarlo misteriosamente a sé. Erode invece ha scelto il peccato, lo ha scelto nel fondo del suo intimo, laddove l'uomo è completamente libero e si giocano le sue sorti; Erode ha reciso la fune che lo legava all'àncora e la tempesta ha rotto, inesorabilmente, gli ormeggi. Lo si comprende al «momento propizio», che può essere quello in cui il Signore scuote la coscienza intorpidita, ma anche quello in cui il demonio sferra l’attacco decisivo. Per Davide il «kairos» è giunto con il profeta Natan, le cui parole dissolvono la menzogna e lo conducono al pentimento: «ho peccato» risponde, senza accampare scuse; così, nel riconoscersi peccatore, Davide accetterà, umilmente, le sofferenze che ne conseguono. Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato l'anima, lo trascina nell'abisso, perché l'accendersi di una passione spalanca sempre il passo a peccati più gravi. Per questo l'episodio di Erode ci invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli, svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di ereditare il Cielo. La correzione, certo, quando arriva fa male, perché graffia l’orgoglio che ci vorrebbe impenitenti, ma poi reca il bene immenso della libertà. Accettiamo la correzione, per divenire liberi come Giovanni, senza paura e lontani dai compromessi, dalle ipocrisie e dai ricatti, sino a perdere la testa, cioè oltrepassando "il lecito" della ragione strozzata dalla ricerca del proprio tornaconto; così mostreremo al mondo che non è lecito chiudersi in ciò che è lecito per assecondare la carne, mentre è lecito perché secondo Dio e per il bene dell'uomo, abbandonare schemi e criteri che appesantiscono mente e cuore nell'egoismo, per uscire da se stessi e donarsi senza riserve.

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MERCOLEDI' 30 AGOSTO (XXI SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/jiqH9jRtdJ8


SEPOLCRI IMBIANCATI TRASFORMATI IN SANTI SEPOLCRI

Secondo la Torah, che etimologicamente esprime il concetto di "mostrare" una condotta di vita, la "santità" è il principio e il germe di ogni comportamento: "Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo". Al principio di ogni agire morale vi è l'Alleanza con la quale Dio ha accolto Israele nella sua "santità" ("l'agire segue l'essere" afferma San Tommaso d'Aquino). Per questo esso è un popolo diverso da tutti gli altri, è "santo", "separato" dalle Nazioni e dai loro costumi civili e religiosi. E guarda caso, "fariseo" significa proprio "separato". Allora, con i suoi "guai" Gesù sta dicendo ai farisei e agli scribi che erano un gruppo colto all'interno di essi: "Siate voi stessi! Siate santi, siate farisei, siate quello che dite e mostrate di essere!". Ma dice "guai" come in un lamento funebre, pieno di commozione e compassione di fronte alla morte della loro elezione! Così si comprende meglio perché Gesù li paragona a dei "sepolcri imbiancati". Questa definizione allude all'usanza di cospargere di calce, un mese prima della Pasqua, i sepolcri di Gerusalemme più vicini alle strade perché non diventassero occasione di contatto involontario per quanti si recavano in pellegrinaggio nella Città Santa; calpestandoli, infatti, sarebbero diventati ritualmente impuri per sette giorni, con la conseguenza di non poter avvicinarsi al Tempio. La "giustizia" che "appare davanti alla gente" è, agli occhi di Gesù, come la "calce" che segnala il pericolo di contrarre l'impurità. La "bellezza" di una vita apparentemente pia può dunque essere il segno di "anomia", ovvero di iniquità, che significa "senza legge". Ecco il cuore delle parole di Gesù: "Guai a voi ipocriti" perché indossate la maschera della "giustizia" - "sedeq" in ebraico, che nel linguaggio biblico significa rettitudine morale, conformità alla volontà di Dio, "essere amico di Dio" - illudendovi che questo basti per essere "farisei e scribi"; "guai a voi" perché proprio questo vostro apparire è il segno che siete morti, perché "dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità". Non a caso Gesù dice che essi "assomigliano" a dei sepolcri; "separati" dal mondo dovrebbero essere nel mondo "immagine e somiglianza" del Dio "separato", invece "assomigliano" a quanto è da Lui più distante, la morte. Gesù dunque, definendo "sepolcri imbiancati" quei farisei e quegli scribi sta mettendo in guardia tutti dalla loro ipocrisia, a non farci attirare e sedurre dalla falsa bellezza di una vita apparentemente giusta, perché finiremmo con il calpestare quei "sepolcri imbiancati" che ci renderebbero impuri. Attenti all'ipocrisia ci dice oggi il Signore, perché per quanto ci si sforzi per apparire "giusti", se non si è "santi" ogni atteggiamento, parola, pensiero è uno "scandalo" sul cammino verso il compimento della nostra vita. Gesù ci chiama di nuovo a sé, a restare uniti a Lui per non entrare in contatto con il peccato e la morte che sono l'impurità che ci impedisce di vivere la nostra vita come una liturgia, rendendo vano il nostro pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste. Ma è pur vero che Tutti abbiamo un "esterno bello a vedersi" così come abbiamo un "interno" pieno di "ossa di morti e di ogni putridume". Siamo purtroppo convinti d'essere a posto, a parte certo qualche peccatuccio, che so', una bugia, una parolaccia, ma furti, imbrogli, omicidi, scherziamo? Siamo così "correct" che non perdiamo occasione per onorare la memoria dei "profeti", sottolineando come noi mai e poi mai li avremmo uccisi. Noi siamo diversi! Gli altri invece, sempre loro, quelli del passato come quelli del futuro, ne hanno fatte e ne fanno di tutti i colori. Noi preghiamo, curiamo le tombe, ci sforziamo, non come l'inquilino di fronte, o come mia cognata che "Dio come tratta mio fratello"... E così "colmiamo la misura" dei peccati, proprio dentro a quell'indignazione così trendy, così cool e così perversa... Ma poi - ed è l'amore indomito del Signore - avvengono fatti apparentemente insignificanti che ci scuotono come in un attacco epilettico. Allora investiamo i figli con lo tsunami della nostra ira, assaliamo il coniuge coprendolo con ingiurie tra le più turpi, e tutto il candore ipocrita se ne va a carte e quarantotto tra un eccesso di ira e fughe alienanti. La nostra "giustizia" identica a quella "iniqua" dei "sepolcri imbiancati". Ti stupisci allora perché tuo figlio sia diventato "impuro" e sia scappato dalla Chiesa? Si è contaminato con la tua tomba fratello! E così tua moglie e tuo marito, come anche tanti pagani che si avvicinano a te sedotti dalla tua ipocrisia... Sì, perché il problema di ogni uomo è l'ipocrisia, non l'iniquità; la menzogna e non il putridume. I peccati Dio li perdona, ma l'ipocrisia impedisce a Cristo di avvicinarsi al sepolcro e di entrarvi. E' la corazza nella quale ci infiliamo per difenderci dalla verità, gelosi come siamo della tomba nella quale l'inganno del demonio ci ha fatto scendere. E' così? Accettalo e coraggio! Un "tribunale iniquo", composto proprio da quei "sepolcri imbiancati" ha giudicato Cristo, e lo ha condannato! A che cosa? A morte, per scendere così proprio nei loro sepolcri! Lo ha condannato anche la tua ipocrisia vero? Ma il Signore si è fatto condannare da te proprio per scendere anche oggi a prenderti per mano e farti risorgere nella vita nuova e "santa" in virtù della quale puoi camminare nella "giustizia" autentica. Il suo sepolcro è il nostro, e lì dentro Lui ha vinto davvero la morte! Sì, Lui ha, oggi, il potere di strappare dalla tomba il nostro matrimonio, e di donargli una vita "santa" che nella "giustizia" che compie la volontà di Dio è immortale, più forte cioè del peccato. Lui può fare del nostro matrimonio un segno così potente da attirare tutti a contemplare in esso la "vittoria" e l'"innocenza" di Dio fatte carne in noi, poveri e deboli peccatori. . Lui può trasformare un sepolcro imbiancato in una tomba vuota avvolta di luce pasquale, la tua vita come il Santo Sepolcro di Gerusalemme, il luogo più "santo" della terra: un sepolcro che per il mondo dice morte, ma che in Cristo afferma la "santità" di Dio, che cioè la morte non ha avuto potere su chi vi è stato deposto, perché Dio lo ha "separato" da essa in virtù del suo amore. 

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GIOVEDI' 31 AGOSTO (XXI SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/0HhUbQBYauU


DESTATI DALL'AMORE PER NASCERE OGNI GIORNO NELLA VITA NUOVA CHE CI CONSEGNA AL FRATELLO

"Vegliare, stare pronti": con la parabola di oggi il Signore ci svela quale sia l"agire" dei cristiani, il loro atteggiamento fondamentale nella vita. Che significa? Non dormire? Non proprio, visto che nella parabola delle dieci vergini si addormentano tutte. E' qualcosa di più profondo, e dobbiamo andare al Cantico dei Cantici: "Quando dormivo ma il mio cuore vegliava". Ecco, la Chiesa è l'amata che attende l'Amato. "Vegliare" è attendere il Signore, istante dopo istante. Il "cuore" che "veglia", infatti, è un cuore innamorato. E' l'intimo di chi ha conosciuto l'amore di Cristo che guarda sempre la sua amata come "la sua perfetta", anche se è un cumulo di difetti e peccati. E lì, nel cuore, decide il bene, desidera compiere la volontà di Dio, per questo "veglia" in attesa dell'occasione per unirsi a Lui; è sempre "pronto" a salire sulla Croce che la storia gli presenta, perché vi riconosce il letto d'amore dove consumare le nozze con lo Sposo. Chi "agisce così" nel cuore è un "servo prudente e fidato" perché non ha altro pensiero che Cristo, il "suo Signore". M Tutto questo significa lasciare che il Mistero Pasquale del Signore giunga di nuovo a noi attraverso la Chiesa; ascoltare questa Parola come una Buona Notizia che mi riguarda, accogliendola nel cuore perché abbia il potere di compiere ciò che annuncia; accostarci ai sacramenti che realizzano in noi il Mistero che trasforma la "notte" di morte in un'alba di luce che non muore, che fa di un "figlio delle tenebre" oppresso dal sonno del cuore, un "figlio della luce" innamorato dello Sposo che attende con perseveranza. Fratelli, la "notte" nella quale stiamo vivendo è la "notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore" sulla Croce gloriosa del suo Figlio diletto. E' la "notte" che ci desta dal sonno della morte e ci fa "beati", perché il Vangelo oggi ci dice che la "beatitudine" consiste nel "vegliare", "agendo" con "prudenza e fedeltà", cioè con sapienza e amore, adempiendo l'"incarico" che è stato affidato. Allora, accogliamo oggi Cristo, lo Sposo che per noi si è fatto "servo fedele e prudente" "spogliando se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome... e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Kyrios, il Signore, a gloria di Dio Padre".  "Servo" e "Signore" sono proprio i due termini che appaiono nel Vangelo di oggi: chi ha sperimentato l'amore sino alla fine del "Servo" che, chinandosi sin dentro la propria "notte" lo ha innalzato con Lui nella sua Signoria, seguirà nella sua vita le sue orme. Sarà cioè un "servo" che "obbedirà" ed entrerà "umilmente" nella "morte di croce" che la storia gli presenterà. Così, e solo così, anche noi parteciperemo della Signoria di Cristo, saremo cioè "kyrios", "signori" che hanno in sè il potere di consegnare la propria vita come "cibo".  Fratelli, la vita ci è data come un "incarico" d'amore con il quale dare pienezza e compimento al tempo. Ci hai mai pensato? L'amore è un incarico che si realizza distendendo le braccia sulla Croce; solo così potremo unirci al "Servo", accogliere in noi la sua vita, e così, risorti, siamo "messi a capo dei domestici del Signore per dare loro il cibo a suo tempo", esattamente come è accaduto, guarda caso sul far della notte, quando Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci. L'amore ci trasforma in "servi" che "moltiplicano" l'amore riversato in loro perché divenga "cibo" da dare ai "domestici", cioè alle persone affidate a ciascuno di noi. C'è un "tempo" favorevole per donare se stessi, un "kairos" che solo un cuore innamorato sa discernere, perché l'amore è riversato in esso per mezzo dello Spirito Santo che fiuta nelle persone e negli eventi il profumo di Cristo. Per questo Gesù dice che tornerà "quando meno ce lo aspettiamo": è tipico dello Sposo che vuole accendere, far crescere e tenere vivo in noi l'amore. Il "cuore" della sposa, infatti, "veglia" anche "mentre dorme". Per divenire "servi prudenti e fedeli" dobbiamo camminare dietro a Cristo come la Sposa del Cantico dei Cantici: imparare a udire il "Diletto che bussa", che "mette la mano nel chiavistello della porta" del nostro cuore; sentire "palpitare le viscere", la sede dell'angoscia e della compassione, e "alzarsi per aprire all'Amato" e sentire le "mani impregnarsi di mirra", quella di prima qualità con la quale fu unto il corpo di Gesù; sì, dobbiamo sperimentare il suo amore crocifisso per noi sino a che esso fluisca sulle nostre mani schiudendole ai chiodi che la storia ci prepara. Dobbiamo crescere nella fede fratelli, e si cresce solo camminando sulle orme dell'Amato, sino ad "incontrarlo e a non lasciarlo mai" più nelle nozze eterne con Lui. E' il destino che ci attende in Cielo e che cominciamo a pregustare sulla terra, ovvero la "beatitudine" celeste dell'"amministratore di tutti i suoi beni", partecipando cioè della sua vita immortale. 

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VENERDI' 1 SETTEMBRE (XXI SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO)

https://youtu.be/BGoZUpQRJbY


APPROFITTANDO DI OGNI OCCASIONE PER ACCOGLIERE IL SIGNORE E AMARLO NEI FRATELLI

Il cristianesimo è una cosa seria, non è sentimentalismo e amore sdolcinato. E' una missione, e chi è chiamato ad essere cristiano, deve sapere che diventarlo significa essere trasformati in sale, luce e lievito del mondo, offrendo se stesso per salvezza di ogni uomo. Le "dieci vergini" erano delle damigelle di onore allo sposo che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un "piccolo vaso" che conteneva l'olio di riserva. Esse rappresentano i chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura: i cristiani sono chiamati a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Essi sono promessi a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a Cristo (cfr. 2 Cor. 11,2). E San Paolo sta parlando del battesimo. Durante la "Veglia" Pasquale, dopo essere scesi nel fonte battesimale e aver ricevuto l'unzione con l'olio crismale (la cresima), colmi dello Spirito Santo i neofiti attendevano lo Sposo per entrare con Lui al banchetto. Erano "vergini", cioè rinnovati e senza peccato originale, e "nei piccoli vasi" avevano l'olio dello Spirito Santo che  aveva compiuto in loro segni e prodigi durante l'iniziazione cristiana conducendoli alla statura adulta della fede. Avevano "vigilato" e ora, con i loro piccoli vasi colmi del crisma, erano pronti ad accendere le "fiaccole" con la luce delle opere sante e soprannaturali che rivelavano in essi la nuova natura ricevuta. E proprio nel cuore della notte di Pasqua, un grido li destava: "ecco lo sposo!", è risorto, "andategli incontro". Allora essi si alzavano dal sonno, andavano ad accogliere il Signore che li conduceva con Lui al banchetto dell'Eucarestia, culmine e fonte della liturgia. Anche per noi, la chiamata che abbiamo accolto nelle diverse circostanze, ha inaugurato un cammino attraverso la storia reale e concreta di ciascuno per giungere alla maturità della fede. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle piccole cose: "afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in modo straordinario" (Card. Van Thuan). La saggezza è questa fedeltà paziente e semplice; la stoltezza è la superficialità che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le emozioni forti. La "sapienza" è l'umiltà fondata nella verità. La "stoltezza" è la superbia radicata nella menzogna. I "piccoli vasi" indicano le orme che precedono i nostri passi: essi sono immagine delle piccole occasioni che Dio ci offre nella nostra storia; è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio. Per questo la vera saggezza è procurarsi l'olio dello Spirito Santo, rinnovare ad ogni evento della vita l'Alleanza che ci fa primogeniti. Ci si può addormentare, siamo deboli, ma è proprio nella debolezza che si manifesta la potenza di Dio. Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le vergini si "destano" come il Signore si "desta" dalla morte! Il ritardo è l'occasione per crescere nell'amore, per prepararsi all'incontro con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere le esigenze della sposa, quello dei figli nell'obbedire e dei genitori nell'ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze costituisce l'occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito. Essere "vigilanti" è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii, che "significa vedere e prendere le cose così come esse sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è l'unico polo capace di attrarre l'attesa e tenerla desta orientandola verso la bellezza. Tutto quello che ci è dato di vivere è un'occasione per crescere e prepararsi all'ultima opportunità, quella che ci attende sulla soglia del banchetto escatologico. Solo gli stolti si lasciano scappare i kairos pieni di amore, i fatti e le persone che Dio ci invia ogni giorno perché siano vissuti cristianamente, intrisi cioè nell'unzione del Crisma profetico, sacerdotale e regale. In tutto come profeti del Cielo, re della carne e dei suoi desideri, sacerdoti che intercedono per ogni uomo. Le vergini stolte sono, infatti, immagine di chi non persevera nelle opere di Cristo, preferendo, per sciatteria e superficialità, le proprie. Dormono ma il loro cuore non veglia. Ogni relazione, ogni esperienza è per loro come quella di un corpo addormentato dopo un'ubriacatura, preda di sogni e passioni, ma incapace di cogliere la realtà nella sua essenza. Sono stolte perché nemmeno si rendono conto di essere state chiamate ad accompagnare lo Sposo, ad esserne le damigelle d'onore; hanno dimenticato l'abito nuziale, l'olio per le lampade, la primogenitura: sono stolte perché senza memoriaLa stoltezza è negare la Croce, ed è sempre opera dell'anticristo che nega l'incarnazione, le piccole occasioni dove incontrare il Signore. Ma, alla resa dei conti, la stoltezza si rivela per quello che è: zizzania cresciuta accanto al grano, buona solo per essere gettata fuori. Si muore come si è vissuti: benedicendo per chi ha benedetto; amando per chi ha amato. Per questo, come alla fine della vita, anche ogni giorno occorre pensare seriamente e saggiamente a se stessi. Vi sono cose che nessuno potrà mai fare per noi. Non è possibile distribuire l'olio destinato a ciascuno, perché non ne venga a mancare a tutti. Si può amare, pregare, offrire la propria vita, ma l'olio dello Spirito Santo capace di far compiere le opere per le quali siamo predestinati, quello è dono esclusivo di Dio. A Lui bisogna chiederlo al tempo opportuno. Vi è sempre un ordine fondamentale, perduto il quale si inciampa e ci si perde: una madre non può trascurare il proprio rapporto con il Signore per tentare di aiutare suo figlio. Sarebbe assorbita dalle stesse sabbie mobili. Per questo l'amore autentico agli altri sorge da un'intimità profonda con il Signore: spesso è meglio parlare a Dio delle persone che alle persone di DioLa libertà è la firma di Dio nella vita di ciascuno e spesso ci procura dolore; la stoltezza di un figlio, di un amico, di una persona cara ci spezza il cuore, ma non possiamo sostituirci a lui. L'unico che è morto al posto di ciascuno di noi è Cristo! Amare autenticamente, saggiamente, è dunque curare il nostro cuore, tenerlo desto, ricevere e custodire lo Spirito Santo perché in noi ogni stolto possa incontrare Lui, e, se ancora in tempo, accogliere il suo amore.

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SABATO 2 SETTEMBRE (XXI SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/v3sX99u6Quc


ACCOGLIERE IL POTERE DI CRISTO CHE CI FA SERVI

L'inizio della parabola descrive, in una profezia, il cuore della missione di Gesù e della sua Chiesa: "consegnando i suoi beni", l' "uomo", immagine di Gesù, "consegna" tutto se stesso. Ma quest' "uomo" è anche immagine di ogni uomo, creato da Dio a immagine del Figlio, perché si "consegni" senza riserve. Dopo aver compiuto il suo Esodo dalla morte alla Vita, Egli chiama gli apostoli "che si era scelti nello Spirito Santo" e impartisce loro le istruzioni sulla missione svelando i segreti del Regno. A Gesù che sta per partire, è stato dato ogni potere in cielo e in terra: consegnando i “talenti” Egli dice agli apostoli: "Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt. 28, 18-20). I "talenti" sono dunque colmi del potere stesso di Cristo. Comprendiamo allora l'incipit della parabola, che è poi quello della nostra vita, come lo è stato di quella del Signore: l'amore smisurato spinge il Padre a consegnare il Figlio al posto nostro, e il Figlio a consegnarsi al Padre. Il frutto di questo amore intimo e perfetto, è la consegna dei beni di Dio alla Chiesa, a ciascuno di noi, perché siano consegnati ad ogni uomo. E il bene più grande di Dio è il Figlio stesso. E' Lui il talento prezioso che i servi ricevono. "Come il Padre ha mandato me anche io mando voi", perché "come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi". Il "come" è descritto nel diverso numero dei talenti che ricevono i servi. Non si tratta di qualità umane diverse, ma delle varie grazie donate in funzione della missione specifica che ciascuno riceve. Se il talento è Cristo, consegnato attraverso la sua Parola, i sacramenti e tutti i beni che la Chiesa ha sempre custodito e amato, anche chi riceve un solo talento non ha affatto ricevuto meno. Al contrario, ha ricevuto tutto, e nulla manca per compiere la sua missione. Significa che la storia di ciascuno è diversa e irripetibile; agli occhi di Dio la vita di San Francesco Saverio non è più importante di quella di una sconosciuta monaca di clausura nascosta a Lisieux. Il Papa riceve i talenti necessari per adempiere alla sua missione, così come la vedova ammalata che vive in uno sperduto paese di montagna. E noi, che ne abbiamo fatto dei “talenti” che Dio ci dona? Qui sorge una prima questione, fondamentale: per riceverli abbiamo bisogno della Chiesa. Per consegnarli, infatti, “l’uomo chiama i suoi servi”: c’è una chiamata alla quale occorre rispondere. Abbiamo ascoltato l’annuncio della Chiesa e accolto in esso la voce del Signore che ci “chiama”? Altrimenti è inutile cercare i talenti, di fronte alle situazioni della vita nelle quali potremmo “farli fruttare”, non avremo nulla da “consegnare”. Ma, anche se abbiamo accolto la “chiamata” ciò non assicura i “frutti”. I “talenti” dei quali parla Gesù non appaiono così, all’improvviso, ma essendo dati in funzione di una missione, si accolgono nella comunione della Chiesa, dove si impara a “trafficarli”.  Nei momenti di dolore e precarietà, lungi dall'essere duro ed esigente, Dio rivela il suo volto pieno di generosità e misericordia: proprio nella durezza della vita - che esiste a causa del peccato - Dio elargisce gratuitamente il suo potere. Per questo, quando ci assalgono i pensieri tristi che ci gettano nella paura e nell'invidia bisogna correre "dai banchieri", dagli esperti del “trading”, per imparare da loro, e perché ci aiutino a trafficare bene quanto ricevuto. Quando ci accorgiamo di perdere il gusto per la volontà di Dio, avviciniamoci ai presbiteri, ai catechisti, ai genitori, agli esperti nella fede che Dio ha messo sul nostro cammino, e affidiamoci a loro. Il Vangelo di oggi rovescia completamente la prospettiva del servo. E’ una catechesi decisiva nel cammino di fede che veniva data ai catecumeni perché non perdessero tempo e obbedissero alla Chiesa, che li invitava a trafficare nel crogiuolo della storia le Grazie e i beni, anche il denaro, ricevuti da Dio. Per questo, "i servi fedeli nel poco" che ancora è questa vita terrena, con le occasioni di amare che ogni giorno ci offre, consegnano al Signore i talenti esattamente raddoppiati: a ciascun talento corrisponde un evento redento, un uomo salvato. A ciascun talento, infatti, corrisponde lo Spirito Santo per entrare nella storia. Anche oggi l'"Uomo" vero, Cristo risorto, si consegna a noi perché possiamo "trafficare" il suo amore con tutti. Sono loro "i frutti" già maturi per l’opera di Cristo che attendono il nostro talento per tornare a Lui. 

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DOMENICA 3 SETTEMBRE XXII DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO A

https://youtu.be/7pVc7g41k50 (RELATIVO AD UN'ALTRA OCCASIONE)


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LUNEDI' 4 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/L_dJFJPpGQI


GESU' E' IL PROFETA CHE FA DI OGNI "OGGI" IL COMPIMENTO DELLA VOLONTA' DEL PADRE

Anche oggi, in questo lunedì che segna per molti il ritorno al lavoro dopo le vacanze estive, "secondo il suo solito" Gesù si reca alla sinagoga – immagine della tua vita - come duemila anni fa a Nazaret; ma, come fu quel giorno, oggi è diverso dal solito. Vi è un momento, infatti, in cui la stessa routine accoglie una novità imprevista che la trasforma in uno scrigno colmo di Grazie inaspettate. Perché l'istante nel quale risuona l'annuncio del Vangelo trasforma quel giorno nel Sabato delle nozze, giorno di festa e felicità. Che meraviglia, mentre il mondo sfila triste verso i posti di lavoro quasi fosse deportato in un campo di sterminio, per noi oggi è il giorno più bello che ci sia, l'"oggi" che inaugura “l’anno di Grazia del Signore”, il Giubileo nel quale sperimentare il compimento dell'amore del Padre che Gesù depone nelle nostre ore. Allora, tornare al lavoro non è una condanna a morte... Come non lo è il ritmo trafelato dei nostri giorni. Fatica certo, e debolezze e peccati, che però non sono che la buccia del frutto delizioso che è quest'oggi nel quale il Signore viene a dare compimento al nostro desiderio di essere amati e di amare. Oggi, infatti, con il suo annuncio,  ci prende così come siamo, “poveri, ciechi, prigionieri e oppressi” per liberarci e farci cittadini del Cielo. Viene attraverso la Chiesa, con la Parola e i sacramenti, per farci suoi "compatrioti". La vera Patria di Gesù, infatti, non è la Nazaret geografica e i "suoi" non sono quelli che vi sono nati: loro lo hanno rifiutato, come accade a noi quando ascoltiamo le menzogne con cui il demonio ci convince che nessun medico può guarirci. La Patria di Gesù è la Croce dischiusa sulla resurrezione, e i suoi compatrioti sono i peccatori che accolgono il suo amore. Per loro si è fatto peccato, con loro ha condiviso il destino di morte per trasformarlo in pienezza di vita. E' il mistero celato in Gesù di Nazaret, il Messia sofferente, il Servo di Yahwè che ci visita nella carne di chi ci è accanto, negli eventi tristi e difficili che ci attendono. Ecco perché due pagani, la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, hanno riconosciuto e accolto Dio nei suoi profeti; l'indigenza e l’umiliazione, infatti, ne avevano purificato il cuore. Fratelli, oggi potrà vedere e accogliere il Signore che si fa carne nella storia solo chi ha gli occhi purificati nel crogiuolo dell’umiliazione. Coraggio allora, perché proprio per il nostro cuore "vedovo e lebbroso" a causa dei peccati è preparato quest'oggi nel quale distogliere lo sguardo da noi stessi per ascoltare Gesù e fissare gli occhi su di Lui che ci accoglie nella sua intimità, un frammento di Paradiso da vivere in ogni oggi che ci è dato sulla terra. 

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MARTEDI' 5 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/2WrW3Qj_nO0


SOLO LA PAROLA DELLA CROCE CHE CI ANNUNCIA LA CHIESA CI SALVA "SENZA FARCI ALCUN MALE"

Abbiamo bisogno dell'"autorità" e del "potere" della Parola di Gesù. Senza di essa i demoni e i loro inganni non si smascherano, e noi continuiamo a vivere profondamente insoddisfatti perché obbligati a frustrare la missione che dà senso alla nostra vita. Certo, ci fanno soffrire molte cose esterne a noi, ma non sono queste a "rendere impuro" il nostro cuore. Infatti, nonostante le lotte e gli sforzi, restiamo "impuri", incapaci cioè di vivere nella gioia e nella benedizione. In Israele la "purità" era proprio la condizione per celebrare il culto. Gli ebrei sapevano che il peccato che rende "impuro" è legato alla morte, entrata nel mondo per invidia del demonio. Scelto e "santificato", cioè separato dall'impurità del mondo, attraverso la "purezza" di una vita obbediente alla Torah, Israele era la primizia chiamata a mostrare i frammenti di quello che l'umanità ha perduto con il peccato. Ma anche Israele è stato infedele a causa della sua dura cervice sedotta dal demonio, e si trovava "impuro" nella sinagoga dove avrebbe dovuto celebrare il culto. Doveva venire il Messia, la cui "parola comandasse con autorità e potenza agli spiriti immondi". Doveva "discendere" Gesù a Cafarnao, la città dove giaceva "posseduto da uno spirito impuro" ogni figlio di Israele; doveva visitare di "sabato" la "sinagoga", il luogo che sostituiva il tempio per le liturgie settimanali, perché è proprio lì che satana attira nella sua impurità pervertendo la Parola di Dio. Satana è un angelo decaduto, conosce le liturgie celesti, figurati quelle celebrate sulla terra... "Sa chi è" Gesù e ce lo dice proprio mentre ascoltiamo la Parola e la predicazione, magari nella preghiera, a messa, durante le attività della parrocchia, presentandoci Gesù come il "santo di Dio”. E cadiamo nel tranello di una verità avvelenata dalla menzogna, perché il Gesù di satana è un Messia secondo il pensiero del mondo, un taumaturgo che deve risolvere i problemi e cambiare la storia. E siccome Gesù non compie la nostra volontà che ci condurrebbe alla rovina riservata ai superbi, ma la volontà d'amore del Padre che ci vuole salvi a tutti i costi, cominciamo a mormorare: “se Gesù è il Figlio di Dio non può permettere questa sofferenza, la deve eliminare e cambiare la storia e le persone”. Ci ribelliamo e non vogliamo "avere niente a che fare" con il Messia crocifisso perché il demonio ci ha convinto che Gesù, piantando la sua Croce nella nostra vita, “venga a rovinarci”. Per questo "gridiamo forte" prestando la voce al demonio che "possiede" il nostro cuore, e diciamo “basta!" alla volontà di Dio. Ma proprio questo grido di ribellione è il segno che Gesù è "disceso" alla nostra vita e ci sta salvando; attraverso la sua parola che ascoltiamo nella Chiesa, sta “intimando” al demonio con "autorità" e "potenza" di “tacere e di uscire da noi”. Gesù ci sta esorcizzando oggi attraverso la parola della Croce sulla quale ci attira e dove “si dirige” al demonio: è lui infatti il padre che ci ha generati all'impurità, sarebbe inutile parlare con noi. Proprio come accade in ogni esorcismo. E il demonio tace, perché ad ogni suo inganno, la Croce di Gesù oppone la verità dell'amore infinito di Dio. Coraggio allora, lasciamoci abbracciare da Cristo crocifisso, perché, al contrario di ciò che pensa il mondo, solo sulla Croce potremo sperimentare che il suo amore ci salva “senza farci alcun male”. La Croce, infatti, "getta a terra" il nostro uomo "impuro" per far nascere in noi l'uomo "puro" che entra nella storia benedicendo Dio, come un segno del suo amore "in mezzo a tutti".

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MERCOLEDI' 6 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TO)

https://youtu.be/EaVVi6xuDF8


CHINATI CON CRISTO SU OGNI UOMO IN PREDA ALLA GRANDE FEBBRE DELLA MENZOGNA

Dalla sinagoga alla casa: dopo aver scacciato il demonio che affligge la comunità, e averla purificata, Gesù si dirige a casa. Prima dell'intimità vi è la "bonifica" dell'ambiente. Senza la "sinagoga" - comunità non vi può essere autentica e profonda guarigione, perché solo in essa i demoni vengono alla luce per essere scacciati. Nel mondo essi si camuffano e nessuno li disturba... Per questo i discepoli, forti dell'esperienza vissuta nella sinagoga, possono pregare “insieme” per la suocera di Simone. La fede, infatti, non è mai una questione privata. Le fughe intimistiche sono sempre malsane e precludono qualsiasi guarigione: "non isolatevi, rinchiudendovi in voi stessi, come se foste già giustificati, ma riunitevi insieme cercando quello che è di vantaggio per tutti" (Dalla "Lettera" detta di Barnaba"). Vediamo, quale è l’atteggiamento di fronte al fratello quando è "in preda a una grande febbre"? Cosa penso, dico e faccio, insieme ai fratelli di fronte alla sua impossibilità di alzarsi dal letto "servire"? Mi fermo all'esterno della coppa e comincio a riempirlo di catechesi e consigli nello stolto tentativo di purificarlo, oppure accompagno il Signore con una preghiera intrisa di fede perché "si chini" sul suo cuore malato? Attenzione, perché quando cominciamo a investire l'altro con moralismi e consigli, significa che abbiamo dimenticato che "ciascuno di noi è febbricitante. Quando sono colto dall’ira, ho la febbre, e ogni vizio è una febbre" (San Girolamo). Così, come recita il salmo 41 nell'originale ebraico, "quando lo visitiamo diciamo il falso" perché "nel nostro cuore accumuliamo malizia" e "fuori sparliamo" di lui con "accuse inique"; abbiamo su di lui il pregiudizio mondano che condanna il peccatore e non il peccato, perché lo riteniamo causa della sua "febbre". Per questo, con le nostre parole "religiosamente corrette", in fondo "tramiamo la rovina per il fratello" perché convinti che, essendo "preda" di "una parola di Belial", "colui che giace mai si rialzerà". Etimologicamente "Belial" potrebbe essere reso con "non serve a nulla" (Ravasi). Ed è proprio così, perché in fondo quello che speriamo è che l'altro ci "serva", e quando ciò non accade lo cancelliamo. Per questo i nostri atteggiamenti nei confronti del fratello infermo sono ipocriti, ispirati dal giudizio di condanna piuttosto che dalla compassione. Gesù, invece, non rivolge una sola parola alla suocera, ma "intima" alla febbre, come in ogni esorcismo. Lui "si china" su di lei con amore perché, come dicevano i rabbini, "la Shekinah (presenza) di Dio si trova sopra la testa del malato"; non la giudica per condannarla perché sa che Dio non l'ha abbandonata, anche se il demonio l'ha ingannata e la tiene schiava a letto. Non esige nulla come facciamo stoltamente quando pretendiamo che il fratello infermo faccia cose che nemmeno noi facciamo. Gesù si umilia per entrare nella sua malattia, si carica con la sua "febbre" per vincere il demonio che la causa con la sua parola fatta carne. Così noi siamo chiamati a fare, perché "per questo siamo nati" in Cristo sperimentando la guarigione nella Chiesa. Solo con gli occhi della fede che vedono la "presenza" di Dio in tutti, “chinati” accanto al fratello sino a portare con lui la sua "febbre" potremo "intimare" alla sua "febbre" nel Nome di Gesù. Nella libertà dell'amore gratuito siamo "mandati" nel mondo perché tutti possano "levarsi all'istante", risuscitare e tornare a "servire". Ma, per non “lasciare parlare i demoni”, cioè per non cadere nelle trappole affettive e non farci "trattenere" dalla carne che esige sempre gratitudine, "sul far" di ogni "giorno" dobbiamo alzarci (risuscitare) nell'intimità con Cristo, ovvero pregare prima di ogni cosa per non dimenticare il suo amore che ci ha salvato. Ci aspetta, infatti, ogni giorno “un’altra città”, un’altra persona verso la quale "uscire": attraverso i modi più diversi, ci porteranno "infermi colpiti da mali di ogni genere" perché "li conduciamo a Cristo", l’unico che, "imponendo loro le mani" nella Chiesa, li possa guarire.

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GIOVEDI' 7 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO)

https://youtu.be/fO7b8NWG6tk


PESCATI DALL'AMORE DI CRISTO PER PESCARE NELL'AMORE OGNI UOMO

Anche oggi Gesù è "presso" il lago, immagine dei luoghi dove “peschiamo” per vivere e dove spesso troviamo la morte. Ma bisogno di una "barca" perché "la folla" gli "fa ressa intorno". Per questo si “leva in piedi” come “risorgendo” dal sepolcro dell'anonimato della massa, dove il demonio, sollecitando la paura di essere giudicati e rifiutati, ci spinge a confondere le nostre cicatrici con quelle degli altri per impedire così alla salvezza di trovare il destinatario. Nella “folla”, infatti, il mal comune è mezzo gaudio, perché i peccati perdono i loro proprietari; indossano la maschera del bene perché nel mondo, “costruiamo regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Non esistono peccati ma esistono reati. Quando finisce un’epoca, finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un’altra” (Scalfari).  Ma con la sua resurrezione Cristo ha inaugurato un’epoca nuova aperta sull’eternità e fondata sull’immutabile Verità del suo amore: Gesù “si leva in piedi” dalla notte nella quale era sceso per distruggere la morte che afferra chi costruisce “nuove architetture” perché confuso nella massa “sballottata qua e là da qualsiasi vento di dottrina”. “Si leva in piedi” dalla “folla” per "vedere" le barche “ormeggiate alla sponda” dello sconforto; il suo amore non si lascia afferrare dalla massa, ma giunge a ciascuno ormai "sceso" dalla barca e arreso al fallimento. Gesù vuole proprio quelle barche per “salirvi” e farsi pescatore con quei pescatori, socio del loro “non aver preso nulla”. Gesù vuole te così come sei, per farsi uno con il tuo fallimento, e lì, accanto a te, “pregarti di scostarti un poco da terra". E' il primo passo, frutto dell'iniziativa di Gesù che solo dopo essersi donato a noi ci chiede di aprirci “un poco” a Lui. Ma quel "poco" è decisivo: è quando ascoltiamo il Kerygma, lo accogliamo e cominciamo a camminare nella Chiesa. Solo chi ascolta Gesù che lo “ammaestra” “seduto” nella comunità, e sperimenta il potere della “sua Parola” può fidarsi di Lui sino a "gettare" le reti proprio dove aveva fallito. Dove non sono stato sincero sperimentare di poter dire la verità senza paura; dove ho peccato nella sessualità, sperimentare la castità; dove ho giudicato, sperimentare il perdono. E tutto in virtù della Parola di Cristo che ci annuncia la Chiesa. Lo “stupore” che “prende” chi “pesca una quantità enorme di pesci” nello stesso mare dove “ha faticato tutta la notte senza prendere nulla”, illumina poi la verità: “peccare” è fallire, ma non c’è da “temere”, perché Cristo ha vinto il peccato! La missione, infatti, è il frutto della rinascita battesimale: “non temere”, entra nelle viscere di misericordia della Chiesa, e risorgi a vita nuova, perché “d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. Per “diventare pescatori di uomini” dobbiamo cioè sperimentare in noi la morte dell’uomo vecchio che pesca gli altri per saziare se stesso e la nascita dell’uomo nuovo che pesca offrendo se stesso per tirarli fuori dalle acque della morte. L'espressione “pescatore di uomini” nasce al tempo dell’esilio in Babilonia, quando gli Israeliti erano dispersi, come ciascuno di noi; Dio era andato a cercarli e pescarli: "Ecco, io invierò numerosi pescatori che li pescheranno" (Ger. 16,16). Siamo stati "pescati" mentre ci dibattevamo nei fallimenti ai quali ci avevano consegnato i nostri peccati. Siamo chiamati con Pietro e la Chiesa ad entrare in ogni giorno come nell’esilio di tanti figli di Dio dispersi dal demonio. La nostra vita è per loro, gettata da Dio come una rete di misericordia per riportarli a casa. Ciò significa accorgerci della loro barca, dando importanza alla loro vita ormeggiata nella massa con le reti vuote; avvicinarci senza pregiudizi ed entrare nella barca, farsi tutto a tutti, non temere di sporcarci perché altrimenti ogni altra parola o gesto saranno inutili. Coraggio, non temere di salire sulla barca dei perdenti, perché la fede ci fa vedere nel fratello più debole e corrotto il "pescatore di uomini" che diventerà per il potere del Vangelo. Solo dopo essere entrati nel suo dolore, partecipando alla sua delusione e caricando i suoi peccati, potremo chiedere di "scostarsi un poco da terra" per annunciargli il Vangelo. "Finito di parlare", quando cioè la Parola ha preparato il terreno mostrando in noi il suo potere di compiere l'impossibile di un amore che accoglie senza esigere e giudicare, si potrà chiedere l'impossibile di "prendere il largo" per inoltrarsi laddove ha fallito per "gettarvi" la propria vita. Accompagnarlo cioè con l'offerta di noi stessi a "calare le reti" di nuovo nel mare, perché "sulla Parola di Gesù" resa credibile dalla testimonianza della Chiesa, quello che aveva prodotto morte ora genererà vita! Fratelli, che meraviglia incontrare il Signore! La vita cambia radicalmente, e senza alcuno sforzo. Quando siamo chiamati a gettare via “tutto”, è per sperimentare che “tutto” di noi è importante, anche i difetti e addirittura i peccati, perché proprio attraverso di essi possiamo conoscere l'amore di Dio; e che la sua Parola sa tirare fuori la vita dalla morte, perché ha il potere di fare delle “reti” con cui avevamo cercato di saziarci con i peccati in strumenti di salvezza per noi e per gli altri. Dove accade una cosa del genere? Non certo nella “massa” mondana. Solo nella Chiesa che è scostata da terra ma a lei legata con amore, sempre pronta a prendere il largo con Cristo per la salvezza del mondo! Ascoltiamo dunque la predicazione e obbediamo “prendendo il largo” nella nostra storia, per sperimentare che la Parola con la quale Gesù ci chiama ha il potere di compiere in noi la missione che ci affida. 

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VENERDI' 8 SETTEMBRE NATIVITA' DELLA VERGINE MARIA

https://youtu.be/VYxmcpiGOfQ


LA NOSTRA STORIA E' SANTA NELLA STORIA SANTA DI MARIA

Quando si celebra un compleanno è come una eucarestia, un rendimento di grazie che sgorga dal memoriale del dono della vita. Nascere, infatti, nessuno di noi lo ha chiesto, è stato un miracolo gratuito con il quale Dio ci ha tratto all'esistenza. Tuttavia c'è una storia che ci precede e ha preparato la nostra nascita. I genitori, e prima ancora i nonni, e poi i bisnonni, e poi più indietro nel tempo sino a disegnare quello che si chiama l'albero genealogico. Esso è costituito da un tronco e da rami che intrecciano storie reali, vite vissute che hanno dischiuso il cammino alla nostra venuta al mondo. Non siamo frutto del caso, vite gettate alla rinfusa che galleggiano nell'universo. Anche un atollo che spunta solitario nell'oceano, nelle profondità invisibili si radica nella terra che lo lega al continente. Forse non conosciamo i nomi e le vicende dei tanti che ci hanno preceduto, ma ci sono stati e hanno trasmesso seme e sangue sino a noi. Senza di loro non ci saremmo. Senza ogni istante della storia che ci ha preceduto non esisteremmo. Così è stato anche per la Vergine Maria, promessa sposa di Giuseppe, l'ultimo che incontriamo nella genealogia di Gesù. Tutta la sua genealogia appare come un lungo e appassionato fidanzamento, la promessa di sposare l'umanità peccatrice e adultera nella fedeltà e nell'amore che Dio stesso le ha donato nel tempo preparandone il compimento in ogni generazione. La storia della salvezza, la nostra storia sino ad oggi, è la "promessa sposa" in attesa la pienezza dei tempi per celebrare le nozze con il Creatore. Anche se nella nostra genealogia ci fossero dei camorristi, e fallimenti, violenze e scandali, non importa, perché "Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono". Non sono i peccati di chi ci ha preceduto a condizionare negativamente le nostre storie, neanche quelli dei nostri genitori, come ci hanno insegnato i falsi maestri. Ciò che ferisce la nostra vita sono i nostri peccati, con i quali abbiamo risposto liberamente alle vicende della vita; ci siamo ribellati, abbiamo odiato tentando di farci giustizia e prenderci quello che pensavamo ci fosse stato tolto. La nostra genealogia, invece, intessuta con i peccati nei quali ogni madre ci ha concepito generazione dopo generazione, è il grembo benedetto nel quale Dio ha gestato la sua promessa di matrimonio. Perché così è stato anche per Gesù: senza la sua concreta genealogia di peccatori e pagani come la nostra non sarebbe venuto al mondo e non ci avrebbe salvato. Sino alla pienezza dei tempi, per la quale aveva preparato l’unica Madre Immacolata per accogliere "l'unigenito Figlio di Dio” che nel suo grembo “assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei" (S. Tommaso d'Aquino). Nella Chiesa, infatti, si attualizza per me ciò che accadde nel suo seno quando ascoltò e credette alle parole dell'Arcangelo Gabriele: il vero Dio si fece carne per diventare vero uomo. Quando la Chiesa annuncia il Vangelo, lo Spirito Santo depone in chi ascolta e accoglie la predicazione il seme della vita divina che si unisce alla carne per fare di lui un figlio di Dio. Il compimento della nostra vita, infatti, dipende dall'accordarsi in noi delle due nature di Cristo delle quali anche noi siamo chiamati ad essere partecipi. Saremo felici solo quando apparirà nella carne l’amore soprannaturale che ci sospinge a donarci a tutti oltre i limiti che essa impone. Per questo non basta nascere, occorre rinascere nelle viscere di misericordia della Chiesa! Celebriamo allora la Natività di Maria con gioia e gratitudine, perché è il giorno in cui anche la nostra genealogia ha trovato il suo compimento nella misericordia: Maria, infatti, è nata per accogliere Gesù, Colui che, sulla Croce del suo amore, ci avrebbe accolti e consegnati a Lei perché in Lei giungesse a tutti noi il Mistero Pasquale con il quale realizzava la nostra salvezza. Per questo Maria è nata per accogliere anche noi nel suo seno benedetto che è la comunità cristiana, dove, come una madre, la Chiesa ci ha accolto e ci accoglie senza pretese e pregiudizi; ci ha nutriti e ci nutre gestandoci alla fede adulta perché si diano in noi i frutti del Battesimo nel quale siamo rinati. Con il compleanno di Maria celebriamo dunque anche quello del nostro uomo nuovo; quale miglior regalo potremmo fare oggi a nostra Madre che lo stesso che le fece Giuseppe prima e Giovanni poi: accoglierla con noi senza timore per consegnarci a Lei senza riserve. Accogliere cioè docilmente l’opera che attraverso di Lei lo Spirito Santo vuole compiere in noi perché, nascendo ogni giorno nella vita nuova dell’amore, il mondo veda e creda che Dio è con noi, con ogni uomo, sempre.

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SABATO 9 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO)

https://youtu.be/NHadT52vZtU


COME SPIGHE STRAPPATE AL PECCATO E ALLA MORTA PER NUTRIRE IL MONDO

Dio ha donato la Legge per accogliere l'uomo nell’Alleanza con Lui, e condurlo nella fedeltà sul cammino della vita. Il sabato è il sigillo dell’Alleanza, la memoria dell’amore di Dio, la gioia del riposo e dell’intimità nuziale con Lui. Ma alcuni farisei, con le loro interpretazioni restrittive, avevano pervertito la Legge facendone una barriera che precludeva proprio il riposo e la gioia dell’incontro con Dio ai più poveri e deboli. L’esigenza e il disprezzo dei maestri li allontanavano da Dio, come appare nel Vangelo di oggi. La tradizione concedeva di entrare nel campo a raccolto ultimato, dopo che i poveri avevano spigolato la loro parte secondo i dettami della Torah: «Quando è permesso a chiunque di spigolare? Quando l’ultimo povero se n’è andato» (Mishnah, Peah 8:1). I discepoli di Gesù, dunque, non avevano infranto la Legge: come Lui avevano raggiunto l'ultimo posto, quello dietro all’ultimo povero, quello della libertà nella quale si compie il Sabato. Nulla da fare o difendere, tutto da ricevere. Ma una parte dei farisei considerava anche lo spigolare dei poveri illecito nel giorno di sabato. Non c’era limite alla loro ipocrisia: proprio loro che, soprattutto "di sabato", spigolavano nel campo del popolo per strappare con il giudizio le spighe che non crescevano secondo la Legge, impedivano ai poveri di strappare quattro spighe rimaste per miracolo nel campo. Ma questo lavoro era "permesso", anche perché spesso il giudizio restava celato nel cuore, e quando il disprezzo si palesava, lo faceva camuffandosi con gli abiti dell’insegnamento e dell’ammonimento. Come spesso capita, soprattutto di domenica, a noi preti clericali che giudichiamo i più deboli tra i parrocchiani. Come accade ai genitori (e ai figli…) che esigono moralisticamente il rispetto di regole probabilmente necessarie, ma svuotandole dell’amore che ne è il compimento, e giudicano. In tutti noi, accanto al fariseo esigente vi è anche il peccatore incapace di compiere la Legge. Per questo, la fame di Davide in fuga da Saul è la nostra, quando il demonio ci perseguita usando addirittura la Parola di Dio e l’autorità dei consacrati (preti, genitori, maestri, catechisti) per toglierci l’alimento per la nostra fede e impedirci di vivere l’elezione gratuita di Dio. Ma è arrivato Cristo, e ha vinto il demonio consegnando a Davide, cioè a te e a me, la dignità e la libertà che la gelosia dell'avversario gli avevano sottratto e nascosto. Smascherando le trappole di Saul, ti annuncia che, rinato in Cristo dalle acque del battesimo, sei figlio di Dio; unto con l’olio del suo Spirito, sei re con Lui. Sei libero davvero perché l’amore di Dio è stato riversato in te e non hai più bisogno di metterti le maschere con le quali apparire giusto per esigere rispetto, considerare e affetto. Per non restare solo è sceso ed è rimasto accanto a te immobile nel tuo sepolcro, proprio a Shabbat, compiendo così in pienezza ogni precetto. Risorgendo è stato proclamato “Signore del sabato” perché la sua vittoria sulla morte ha dato a Shabbat il compimento per il quale era stato donato: la libertà per entrare nel riposo dell’intimità con Dio preparato per te. Non a caso nel Talmud l'Era Messianica è chiamata “Yom shekullò Shabbat, il giorno che sarà tutto Shabbat”. Coraggio allora, viene oggi il Messia che, trasformando il sepolcro dove eri sepolto in un campo fecondo del suo amore, ha fatto di tutta la tua vita uno Shabbat di libertà e felicità. Il “sabato è per l’uomo” significa proprio questo: la tua famiglia, la tua comunità, il tuo lavoro, ogni aspetto della tua vita è “per te”, perché in tutto Cristo si dona come una spiga matura. Smetti di sforzarti, e lascia operare Dio in te. Non temere, puoi e devi nutrirti dei “pani dell’offerta” una volta riservati ai sacerdoti: Cristo, infatti, ha trasformato la tua vita in una liturgia di Shabbat che, come sacerdote, sei chiamato a celebrare ogni giorno. Non aver paura, non ti giudicare, ne hai diritto proprio perché debole e povero. “Strappa” con la preghiera e l'ascolto della predicazione le “spighe” colme dell’amore di Cristo; “mangiale” e accostandoti con piena fiducia e gratitudine ai sacramenti. 

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