CARISSIMI, DA OGGI, CON TANTI FRATELLI CHE ANCHE GRAZIE ALLA VOSTRA GENEROSITA' POTRANNO PARTECIPARVI, SARO' IMPEGNATO NELLA MISSIONE DI EVANGELIZZAZIONE A DUE A DUE NEL NORD DEL GIAPPONE. APPROFITTO PER RINGRAZIARVI DI CUORE PER L'AMORE CON IL QUALE AVETE RISPOSTO AL MIO APPELLO. CHE DIO VI CONCEDA IL CENTUPLO...
SINO ALLA FINE DELLA PRIMA SETTIMANA DI SETTEMBRE NON POTRO' MANDARVI IL COMMENTO OGNI GIORNO, PER QUESTO VI LASCIO QUI I LINK ALL'AUDIO SU YOUTUBE DOVE POTRETE ASCOLTARE IL COMMENTO DEGLI SCORSI ANNI. SPERO CHE VI POSSANO COMUNQUE AIUTARE. COME SPERO ANCHE DI POTER RICOMINCIARE CON GLI INVII DALLA SECONDA SETTIMANA DI SETTEMBRE, PERCHE' DOPO LA MISSIONE MI TROVERO' IN VIAGGIO FUORI DAL GIAPPONE SINO ALLA META' DEL MESE.
VI CHIEDO COMPRENSIONE E, SOPRATTUTTO, PREGHIERE PER QUESTO TEMPO DI MISSIONE.
CHE DIO VI BENEDICA
Antonello Pbro
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SABATO 12 AGOSTO (XVIII SETTIMANA)
LA NUOVA
"GENERAZIONE" DI CRISTO
"O
generazione incredula e perversa! Fino a quando sarò con voi? Fino a quando
dovrò sopportarvi". Quale "generazione"? Quella che sorge dai
"geni" dell'incredulità, i figli de-generi, che hanno cioè perduto la
primo-genitura, l'elezione e la salvezza di Dio, e per questo non sono più suoi
figli. La generazione insensata e senza intelligenza che ha creduto all'inganno
del demonio e per questo è colpita "dal fuoco" della gelosia di Dio.
L'uomo che si prostra dinanzi a Gesù è dunque il portavoce di questa generazione
infedele, senza fede, che ha generato un "figlio" unendosi in
adulterio con il demonio. Il "figlio" di quell'uomo è proprio il
figlio dell'incredulità che appartiene al demonio; è "lunatico",
secondo l'originale greco, e non "epilettico" come vorrebbe una
traduzione che è già un'interpretazione moderna e positivistica del Vangelo.
Segue cioè le fasi lunari, come dire che è in balia degli eventi, sballottato
qua e là da qualsiasi vento di dottrina, seguendo i desideri e i criteri della
carne. Quel "figlio" è per questo immagine di tutti
coloro che incontrano Gesù appena disceso dal monte Tabor: di quel padre, della
folla e dei discepoli incapaci di curarlo. E' dunque figlio tuo e mio, oggi. E'
il figlio dell'idolatria che segue sempre l'incredulità: "chi non crede in
Dio non è vero che non crede in niente, perché comincia a credere a tutto"
(Chesterton). Lo dice chiaramente Gesù: "per la vostra mancanza di
fede..." e non come recita la traduzione che tradisce il testo: "per
la vostra poca fede". Ma come, se avessero avuto "poca fede",
simile al "granello di senapa" nulla gli sarebbe stato
impossibile"... No, i discepoli non avevano fede! Nell'attesa di Gesù si
erano industriati con le loro forze, con i loro criteri, con la loro
religiosità. E non avevano potuto nulla contro il demonio... Per questo Gesù si
adira con loro e con il padre di quel ragazzo, come oggi si adira seriamente
con ciascuno di noi. C'è nella tua vita un figlio indemoniato? Ci sono, cioè,
nella tua vita opere figlie dell'incredulità? Senza dubbio... In famiglia, al
lavoro, nella comunità cristiana, ovunque... Guarda bene se non hai dei
rancori, se sei impotente di fronte a quell'offesa e a quell'ingiustizia...
Guarda se per caso non riesci ad accettare quella malattia... Ebbene, se è così,
è perché ti sei costruito un vitello d'oro, nell'incapacità di seguire il
Signore nel compimento del volontà del Padre. Sei un per-verso, hai cioè
cambiato strada, e stai camminando quella che segue la tua "luna", i
tuoi sentimenti, gli ormoni, le concupiscenze o le illusioni pseudoreligiose.
Hai generato figli con il demonio, accettalo! Accetta allora il
"fuoco" con cui Mosè ha bruciato il vitello, e l' "acqua"
nella quale ne ha disperso la polvere, gli stessi elementi nei quali si gettava
il fanciullo indemoniato. Accetta che quello che ti accade è a causa della tua
incredulità, figlia della menzogna del demonio a cui hai dato ascolto. Accetta
che Cristo si sia stancato di te. Sì, accetta che ti mostri la tua realtà, e
accetta le conseguenze dei tuoi peccati. Allora potrai ascoltare la Buona
Notizia celata nel Vangelo di oggi: "portatelo qui da me". Al colmo
dell'indignazione esplode in Cristo la sua misericordia! Allora fatti
"portare" dalla Chiesa ai piedi di Gesù, ascolta la sua Parola che
scaccia dal tuo cuore il demonio dell'incredulità, e accostati ai sacramenti
che depongono in te il piccolissimo "granello di senapa" della fede.
Convertiti, e potrai dire a "questo" monte di "spostarsi da qui
a là"; dirai cioè non a un monte qualsiasi, ma proprio al Tabor alle cui
pendici si trovava in quel momento Gesù, di spostarsi e venire da te, perché
anche tu possa essere avvolto dalla stessa luce pasquale che ri-genera in te la
natura divina, la primo-genitura. La luce di misericordia che ricrea in te
il figlio di Dio. Il brano odierno, infatti si conclude con un versetto
inspiegabilmente tagliato nella versione liturgica: "Questa generazione di
demoni" (Gesù usa lo stesso termine con cui ha indicato gli increduli) si
scaccia solo con il digiuno e la preghiera", esattamente come fece Mosè
sul Sinai durante i quaranta giorni che precedettero la teofania. Quaranta come
il cammino nel deserto, come la quaresima, vestigia del catecumenato primitivo.
Ecco, il Signore ci chiama oggi a camminare nella Chiesa dove, accogliendo la
fede, essa diventi adulta e ci prepari alle nozze con il Signore, quando Egli
ci donerà, compiuta, la Parola perché si faccia carne in noi.
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DOMENICA 13 AGOSTO (XIX DEL TO. ANNO A)
https://youtu.be/7vAh0ac3IG4 (E' UN COMMENTO AL BRANO DEL VANGELO PREPARATO PER UN'ALTRA OCCASIONE)
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LUNEDI 14 AGOSTO (XIX SETTIMANA)
https://youtu.be/UKmNrkWD7rw
PESCATI ALL'AMO DELLA CROCE SIAMO LIBERI PER CONSEGNARCI A TUTTI SENZA RISERVE
C'è qualcosa che giace
più molto più in fondo dei problemi contingenti e delle soluzioni da offrire e
scegliere. In ogni evento, infatti, è il Signore che ci visita, e ci chiede:
"Che te ne pare?". In questa domanda, non a caso rivolta a Pietro, si
legge in filigrana quella che Gesù gli ha posto poco prima: "Voi, chi dite
che io sia?". Ecco, anche davanti alla dichiarazione dei redditi, i
cristiani si trovano di fronte a Cristo, in un dialogo d'amore che non si
spegne mai. Non c'è aspetto della vita, sia essa quella privata, familiare o
sociale e dello Stato, che non ci interpelli: in nulla Dio è irrilevante,
perché in tutto è presente per illuminare e guidare i suoi "figli".
La questione che emerge nel brano di oggi è il contributo da offrire al
mantenimento del Tempio, una tassa che, secondo quanto ci testimonia Filone,
"i donatori portano allegramente e con gioia, in previsione che il
pagamento porterà loro la liberazione dalla schiavitù o la guarigione dalle
malattie e il godimento di una libertà garantita e una sicura protezione dai
pericoli" (Leggi speciali, 1,77). Il Tempio era il cuore di Israele, e se
esso avesse smesso di battere sarebbero morti tutti, senza più alcuna speranza.
Il Tempio era la Presenza di Dio con il Popolo, nonostante il dominio di Roma.
Per questo era anche la profezia più certa della libertà che tutti aspettavano.
La tassa era dunque un atto d'amore e di fiducia, un segno che esprimeva e
contribuiva a mantenere viva la speranza. Per comprendere le parole di Gesù
occorre partire da qui. Egli non parla di tasse giuste o ingiuste, ma invita
Pietro ad alzare lo sguardo diritto davanti a sé e a professare ancora la fede
che né carne e né sangue gli hanno rivelato, ma il Padre che è nei Cieli: Gesù
è il Figlio di Dio, il Messia che sta inaugurando un nuovo culto, in Spirito e
Verità. Dio è presente in quel momento "a Cafarnao", la città natale
di Pietro. Non è più il Tempio a delimitare il perimetro della Presenza di Dio:
come già ai tempi dell'Esilio, Egli è libero, e scende ad abitare laddove
vivono i suoi figli. In quel momento il nuovo Tempio è a Cafarnao; è la casa di
Pietro dove Gesù era ospitato; è la vita di ogni figlio della Chiesa, la sua
famiglia, il suo lavoro, la sua scuola, il campo sportivo dove si sgranchisce
le gambe, il letto d'ospedale dove lo inchioda la malattia. Gesù è con Pietro e
la sua comunità ovunque si trovino, perché sempre e in ogni luogo, essi possano
vivere nella "libertà" dei figli di Dio. Per questo, infatti,
"sarà consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo
giorno risorgerà". E' Lui stesso la "tassa" pagata per il nuovo
Tempio, per riscattare e far vivere eternamente il Nuovo Israele. Non a caso il
gesto che Gesù chiede a Pietro per trovare la moneta con cui pagare la tassa è
una profezia del suo Mistero Pasquale: come il "primo pesce pescato
all'amo", attraverso la sua Croce, Gesù è stato pescato dal
"mare" della morte come il primogenito della nuova creazione. La sua
"bocca" si è "aperta" la sera di Pasqua, consegnando agli
apostoli impauriti rinchiusi nel cenacolo, la "moneta d'argento"
sulla quale è incisa l'immagine del Figlio di Dio. Con essa ha pagato il nostro
riscatto, la sua vita offerta sino alla fine. "Pescandola" con
Pietro, ovvero nella Chiesa, accostandoci con "l'amo" della fede ai
sacramenti e alla Parola di Dio, siamo trasformati a poco a poco in Cristo, per
partecipare al suo Mistero Pasquale. Siamo chiamati ogni giorno ad inoltrarci
nel "mare" della morte, di ciò che ci fa soffrire e ci incute timore,
e pescare il Primogenito, per essere, con Lui, vittoriosi sulla morte, bel al
di là di ciò che angustia il mondo che non conosce il Padre. Siamo "figli
nel Figlio", non più "estranei" alla famiglia di Gesù; proprio
per questo la Chiesa è "esente" dal pagare qualsiasi tributo; nel
senso che essa sa che non sono le tasse che assicurano la vita; non è un
sistema politico e non sono gli statisti a provvedere alla salute, al
benessere, alla libertà delle persone. La Chiesa vive di ogni parola che esce
dalla bocca di Dio, è abbandonata con fiducia al suo amore e alla sua
provvidenza. Sa che nella storia è celato un piano divino che annulla i disegni
delle nazioni e porta a compimento la salvezza eterna di ogni uomo. In questo
discernimento legge e interpreta gli eventi.
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MARTEDI' 15 AGOSTO
ASSUNZIONE DELLA VERGINE MARIA
https://youtu.be/HxHxfUqJi9Y
I NOSTRI OCCHI
ASSOMIGLIANO A QUELLI DI MARIA, DISEGNATI PER VEDERE DIO IN OGNI ISTANTE
Maria è l’immagine della
storia di salvezza che Dio ha preparato per ogni uomo, lo specchio fedele di
quello che ci accade ogni giorno: in noi è già seminato ed è vivo il miracolo
della vita eterna, ma le nostre forze non hanno ancora potuto darlo alla luce.
Intuiamo d’essere fatti per qualcosa che non si corrompa, che non resti
impigliato nei ricordi e nei rimpianti. Ma, come per Elisabetta, abbiamo
bisogno d’una visita che ci “colmi di Spirito Santo”,perché il miracolo di
Grazia “sussulti nel grembo”, e lo prepari a nascere. Abbiamo bisogno di Maria.
Non vi è altro motivo che l’amore gratuito e infinito di Dio, a spingere Maria,
immagine della Chiesa, a “venire da noi” per annunciarci e donarci suo Figlio.
Il suo “saluto” che risuona dove si cela il seme di eternità, è l’annuncio del
Vangelo che desta la vita in un’ “esultanza” di gioia: Dio s’è fatto carne
nella nostra carne per fare santa la nostra vita. “Shalom” annuncia Maria ad
Elisabetta, come una profezia delle parole del Figlio risorto. “Pace” ci annuncia
la Chiesa, come un’eco della vittoria di Cristo, laddove il mondo ode invece
una dichiarazione di guerra, e arma l’ira, la ribellione, l’indignazione, i
conati di chi sente defraudato dalle ingiustizie. Dove i giudei hanno visto
solo una donna rimasta incinta prima di sposarsi, e in Gesù solo carne e sangue
uguali a quelli di tutti, Dio svelava il Mistero che ci avrebbe salvato: in
Maria Egli gestava la carne di Gesù che avrebbe reso divina ogni carne. Per
questo la storia ci dice “Pace!”: nella carne è disceso Dio, e tutto è ormai
parte di un Cielo che non abbiamo ancora visto ma che possiamo cominciare a
sperimentare. Tutto di Maria era, da sempre, per il suo Figlio, e così tutto di
Lui è stato per Lei. Maria ha offerto tutta se stessa per dare la vita terrena
al suo Figlio, ed Egli ha donato a Lei la Vita immortale. “Questo è il nucleo
della nostra fede nell’Assunzione: noi crediamo che Maria, come Cristo suo
Figlio, ha già vinto la morte e trionfa già nella gloria celeste nella totalità
del suo essere, in anima e corpo” (Benedetto XVI). Ma non si tratta di un
dogma solo perché proclamato da Pio XII il 1° novembre del 1950. In quel giorno
il Papa ha sigillato la fede e l’esperienza viva e incontrovertibile della
Chiesa. Essa crede e annuncia ciò che sperimenta quotidianamente: Cristo è
risorto ed è asceso al Cielo e da lì ha donato alla Chiesa il suo Spirito. Da
quel giorno la vita della Chiesa, come il corpo e l’anima di Maria, è “assunta”
in Cielo: pur camminando nella storia essa vive la vita di Cristo. I passi
veloci della Figlia di Sion sul crinale delle montagne di Giuda sono, da
allora, i passi urgenti degli apostoli di ogni tempo che annunciano il Vangelo;
ma sono anche i passi degli eventi e delle persone che, guardati con gli occhi
di fede di Maria, ogni giorno ci abbracciano in un saluto che rivela
l’autentico progetto di Dio: “Io so i pensieri che medito per voi, pensieri di
pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza” (Ger. 29,11). Per
esperienza i cristiani, nella moglie, nel marito, nei figli e colleghi, anche
quando si fanno nemici e tolgono la vita, sanno discernere l’ “avvenire”
celeste che li attende; con ferma “speranza” possono allora consegnarsi alla
croce e alla morte del proprio “io” che l’amore suppone, nella certezza che,
proprio dove il mondo non può resistere e divorzia, abortisce, trascina in
tribunale e scatena guerre, vi è deposta la Vita che non muore. La fede di
Maria, infatti, attesta che in loro accadrà quello che Lei ha sperimentato: la
“beatitudine” per aver creduto alla predicazione e la “benedizione tra tutte le
donne” e gli uomini per la fede che vince il mondo; la “benedizione” di vivere
per Gesù, il “frutto del loro grembo”; donando la propria carne a Lui
nell’amore, la vedranno trasfigurata e incorruttibile in Cielo, del quale sono
una primizia i momenti più difficili, i roveti ardenti nei quali vivono, come
Maria, senza che il fuoco delle passioni li consumi. Così anche noi siamo
chiamati ad annunciare che il Cielo esiste: attraverso la debolezza della
nostra carne, evidente nella scontrosità del carattere, nelle nevrosi e nelle
insicurezze, anche nelle ferite inferte dai peccati rese gloriose dal sangue di
Cristo, dalle quali la sua luce filtra e illumina i luoghi e i tempi della
nostra vita. Essa ha già conosciuto il riscatto dalla tirannia della superbia,
non attende futuri che non si realizzeranno mai – società civili senza macchia,
con politici onesti, giudici giusti, banche solidali, famiglie senza tensioni.
Il Cielo, infatti, si affaccia sulla terra in coloro che, nella Chiesa,
imparano a vivere come Maria.
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MERCOLEDI' 16 AGOSTO
(XIX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/iOpsPxiFB2g
LA SINFONIA DELLA
COMUNIONE
La comunione è
uno tra i beni più preziosi donati dallo Sposo alla Sposa; rivelando
l'amore e l'unità tra i "fratelli", essa è il segno che Dio
offre al mondo perché "creda". Il termine greco "koinonia" traduce
l'ebraico "khaburah"; entrambi indicavano, in origine, una
cooperativa, una società, come quella dei pescatori Pietro, Giacomo e Giovanni.
Ma khaburah indicava anche la comunità di almeno dieci persone
riunita per celebrare la Pasqua. Quindi anche gli apostoli riuniti con Gesù nel
Cenacolo formavano una khaburah: nella comunione umana, la partecipazione al
Mistero Pasquale del Signore gettava le fondamenta della comunione
celeste! Dio che s'era fatto carne, provocando scandalo e rifiuto,
diveniva tanto prossimo all'uomo da farsi pane da mangiare e sangue da bere,
fondando così la comunione tra gli uomini nella comunione con
Gesù; in virtù del suo Mistero Pasquale, il Figlio di Dio "comunica" se
stesso ai suoi apostoli che, uniti a Lui, divengono così figli del suo stesso
Padre. Cristo, infatti, si è “legato a noi in terra” nella
Chiesa attraverso la Parola e i sacramenti, per “legarci anche in
cielo" al Padre. “Sciogliendoci in terra” dal potere del
demonio e dai lacci del peccato, infatti, ci “ha sciolto anche in
cielo" dalla condanna che meritavamo, ha rotto ogni barriera tra noi e Dio
e così ci ha “legato” in terra ai fratelli nel suo amore. Per questo, Cristo
freme di compassione in ogni cristiano nel vedere un “fratello” che
si sta separando consegnandosi di nuovo all’inganno del demonio. Ogni passo che
Gesù oggi indica alla Chiesa per "guadagnare il fratello" è quindi
l'attualizzazione nella storia e l'annuncio salvifico di quello che ha fatto
Lui per ogni suo “fratello” perduto: fattosi peccato, è stato accusato
nell'assemblea e alla fine è stato gettato fuori, a morire crocifisso,
"come un pagano e un pubblicano", per scendere nella tomba di ogni
fratello che si è separato e, risorgendo con lui, "scioglierlo" dalla
morte per "legarlo" di nuovo al Padre. Ma tu, hai a cuore il
destino del fratello? O meglio, quello che ti è accanto è
davvero “tuo fratello” al punto che se si è perduto a causa di un peccato - un
tradimento del coniuge, un rancore incancrenito - senti che hai perduto una
parte di te? O forse lo stai giudicando, e lo hai già perduto perché lo hai rifiutato
nel tuo cuore? Se è così, allora le parole di Gesù sono innanzi tutto una
chiamata a conversione per te, perché ti umili profondamente, chiedi perdono a
Dio, ti confessi e fai penitenza, per "guadagnare" il fratello nel
tuo cuore. Così forse ti renderai conto che, prima di andare a correggerlo,
dovrai incamminarti per inginocchiarti dinanzi a lui e chiedergli
perdono. Sino a che l'altro non è tuo fratello non potrai correggere
nessuno... Può darsi, infatti, che quello che abbiamo visto nel
fratello sia solo apparenza. "Se qualcuno ha peccato": è
importante quel “se”... Spesso noi lo omettiamo, in preda ai nostri
giudizi e pregiudizi. Allora il criterio migliore è mettersi dalla parte
del fratello; solo quando avrai esaurito ogni possibile giustificazione del suo
operato, allora potrai avvicinarti a lui, non senza esserti prima immedesimato
in lui. Avvicinarsi cioè senza dimenticare la trave che è nel tuo occhio: tu
sei stato lui, anzi, senza la misericordia di Dio, tu saresti molto peggio di
lui. Se non c'è questo atteggiamento, allora è meglio lasciar perdere, perché
"correggere" significa "reggere insieme". La
correzione è un frutto purissimo dell'amore, forse la sua incarnazione più
difficile. Per correggere occorre amare l'altro al punto di desiderare di
portare con lui il peso dei suoi peccati. Ogni "fratello" di
Gesù, infatti, sa che "se due di voi sopra la
terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei
cieli ve la concederà". Si accorderanno, con il greco originale saranno
una "sinfonia"! Note diverse per innalzare al Padre la stessa
preghiera... Per questo va a cercare il "fratello" e lo
"ammonisce", solo a solo; lo corregge smascherando il suo
peccato, per illuminare profeticamente la sua situazione e annunciargli la
vittoria di Cristo e il suo amore, e così indurlo ad "accordarsi" con
lui per domandare, insieme, il perdono al Padre. Ogni correzione
è, infatti, un annuncio del Vangelo. Per questo Gesù dice "se non
ti ascolterà": la fede nell'amore e nel perdono viene donata,
infatti, attraverso la stoltezza della predicazione. E perché il
"fratello" possa ascoltare ed essere "guadagnato" si fa di
tutto: si coinvolgono i fratelli più vicini e con cui egli è più in confidenza,
i pastori e i catechisti, che sono i "testimoni" dell'opera di Dio in
lui e della sua misericordia. Se il suo cuore è tanto duro da non ascoltare
neanche loro allora si coinvolge l' "assemblea", perché l'amore di
tutti sciolga le sue resistenze. Tutto per annunciare al fratello che
Cristo, vivo nella comunità, vuole "guadagnarlo" alla felicità, alla
libertà, alla vita di figlio di Dio. Tutto per testimoniargli l'amore infinito
che i fratelli hanno per lui, che fremono di compassione nel vederlo schiavo
della menzogna. Per dirgli che non possono perdere una parte così bella e unica
di se stessi... A volte però è necessaria la massima severità, che è il
segno della più grande misericordia. La Chiesa sa che Dio ha creato l'uomo
libero sino al punto di ostinarsi sino alla fine nel peccato. La Chiesa non è
buonista ma realista, e per questo ama i suoi figli nella realtà in cui si
trovano. Proprio per amore della libertà, di fronte al rifiuto, non c'è altra
soluzione che lasciare che il "fratello" la usi sino in fondo, sino
alle sue più dolorose conseguenze. Il peccato rompe la comunione, e, non
accogliendo il perdono e perseverando in esso, si torna a vivere come prima
dell'incontro con Cristo, come prima del Battesimo: come "un pubblicano e
un pagano". Far finta di niente, in una falsa misericordia che scioglie la
verità, sarebbe rendere vana la Croce di Cristo; sarebbe anche fare torto alla
dignità del "fratello", obbligandolo a vivere come lui non vuole.
Alleandosi con il peccato che rompe la comunione egli se ne è chiamato fuori;
ogni segno che esprima la comunione sarebbe solo un'ipocrisia che,
paradossalmente, gli impedirebbe la conversione e frustrerebbe la missione
della Chiesa. Una comunità divisa perché qualche "fratello ha
commesso una colpa" e non si è lasciato "guadagnare" al perdono,
non può compiere la sua missione nel mondo. Le accade come al Popolo di
Israele, quando a causa anche di uno solo che aveva peccato e lo aveva
occultato, non poteva resistere ai suoi nemici. "Se qualcuno ha
peccato" non si può restare indifferenti, vi è di mezzo la conquista della
Terra Promessa, il Cielo da schiudere agli uomini attraverso la
Chiesa. Per questo, quando c’è ostinazione nel peccare, solo la
verità delle conseguenze amare del peccato può percuotere, alla lunga, il cuore
più indurito inducendolo alla conversione; come accadde al figlio prodigo,
ormai lontano dalla casa paterna, che proprio lì, nella solitudine affamata, è
rientrato in se stesso spinto dalla nostalgia della comunione che aveva
sperimentato, la cui pienezza non aveva più gustato peccando. Per questo,
“considerare un fratello" come un pagano e un pubblicano” significa
“amarlo sino alla fine”, sino a dove non ci sono più parole, ma solo la
preghiera e l’offerta di se stessi, ovvero i dolori, le angosce, le
malattie, tutto per "guadagnare il fratello" che in quel momento non
si vuole far "guadagnare". Sino a prendere i suoi peccati su di
noi, perché così Cristo ci ha “guadagnato” mentre lo rifiutavamo
ostinatamente... Così anche noi siamo chiamati a non disperare mai, anche quando
gli eventi e le persone ci inducono alla severità della verità. Essa è sempre
sinonimo dell'amore e della libertà che Dio ha dato a ciascuno, e ne abbiamo
esperienza... Così sapremo educare i nostri figli che scelgono di non obbedire,
ammonire il coniuge e i fratelli che peccano, nella speranza invincibile che la
nostalgia di casa e la memoria struggente della comunione con il Padre e i
fratelli, li faccia rientrare in se stessi per tornare, in un cammino di
penitenza sincera, all'amore e all'unità.
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GIOVEDI
17 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/IJsvsdKlo-w
IL
PERDONO TRASFORMA IL CUORE NELLA LIBERTA' DI AMARE
Con
la parabola di oggi Gesù vuole illuminare Pietro e quindi la Chiesa sul
"perdono d cuore", quello autentico, l"accordarsi" tra due
fratelli di cui aveva parlato poco prima. Esso è una Grazia, la più grande che
potremmo ricevere da Dio. E' l'unica esperienza che cambia radicalmente la
vita, simile a quella di un condannato a morte che, nel momento in cui si sta
eseguendo la sentenza, riceve appunto "la grazia" e vede aprirsi le
porte della cella: la sua pena è stata cancellata, è libero e
vivo. Per il "servo" della parabola, il dover
rifondere diecimila talenti era proprio come una condanna capitale; si
trattava, infatti, di una somma esorbitante, se si pensa che un talento era
pari a seimila denari e che uno stipendio medio era di trenta denari: per
radunare tale cifra un lavoratore dipendente avrebbe dovuto lavorare centosessantaquattromila anni! Per
questo "il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli
e con quanto possedeva, e saldasse così il debito". Per salvarsi,
quel servo poteva sperare solo in un atto di clemenza del re. Infatti,
"essendo caduto" recita l'originale greco, il servo comincia a
"supplicare" il re, ma solo "di avere pazienza con
lui perché gli avrebbe restituito ogni cosa" e non di "avere pietà
e condonargli il debito", che sarebbe stata la sua unica possibilità
di salvezza. Il "servo", infatti, era stato "venduto",
ormai solo un atto di clemenza del re avrebbe potuto salvarlo, perché il debito
con Dio è inestinguibile, se non a prezzo della vita, come la stessa Legge
prescriveva. E non solo con la propria, ma anche con quella della moglie e
dei figli, come appare nel vangelo. Il peccato che rompe con Dio, infatti,
distrugge "tutto", la famiglia, il futuro dei figli, si sparge come
un'epidemia, rende schiavi e uccide. Allora, perché il servo si infila in una
promessa che non sarebbe stato in grado di mantenere? Per capire bisogna
guardare al contesto ebraico della parabola. Già il salmo 38 affermava che
"nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo";
infatti "per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai
bastare per vivere senza fine e non vedere la tomba" (Sal 48,8-10). Solo
Dio può offrire il "kofer" del riscatto, un termine derivante dal
radicale ebraico "kpr" che significa "coprire - espiare",
presente nel termine "kippur", la festa dell'espiazione e del
"perdono", che potrebbe essere il contesto di questa parabola. Essa
infatti risponde alla domanda di Pietro sul "perdono" al fratello,
originata dalle parole di Gesù circa l'atteggiamento da avere nel caso di un
fratello che abbia peccato contro un altro fratello. Yom Kippur si celebrava
dieci giorni dopo Rosh Ha-Shanah, il capodanno civile ebraico. Esso si
chiamava anche Yom Ha-Din, “giorno del giudizio”. I
giorni di festa erano giorni di giudizio. Secondo la Mishnà, nel giudizio ”Dio
passa in rassegna il suo gregge", come facevano i pastori che “esaminavano”, le
pecore. I rabbini dicevano che durante il primo giorno
dell’anno sono chiamati tutti gli uomini per passare dinanzi al Trono
di Dio; seduto sul suo trono Dio giudica il suo popolo, come un
generale passa in rassegna l’esercito, o come un pastore le sue pecore. Ogni
uomo è registrato in uno dei tre libri che sono davanti al re: quello dei
peccatori ostinati per i quali non c'è speranza, quello dei santi, e quello dei
mediocri, per i quali ancora c'è speranza. Ed è esattamente quello che accade
nella parabola, nella quale il regno dei cieli è paragonato "a un re
che volle fare i conti con i suoi servi". Gli "viene presentato uno
che è debitore di una cifra che non ha". Attenzione che questo è
importantissimo, perché con questa scena inizia il giudizio. Il servo
passa davanti al trono del Re, e risulta insolvente; si tratta di capire se fa
parte dei peccatori incalliti e chiusi alla Grazia o dei mediocri. Dalla sua
preghiera intuiamo che faccia parte di questi ultimi, perché chiede al Re
ancora un po' di tempo: "Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò
ogni cosa". Rosh Ha-Shanah, infatti, inaugurava i
"dieci giorni terribili” (yamim noraim) che
precedevano Yom Kippur, giorni decisivi, perché rappresentano
il tempo che Dio offre al pentimento e alla conversione prima di emettere il
giudizio definitivo. E come si realizza la conversione? "Perdonando di
cuore" il fratello, perché Dio ha cambiato il "cuore" di pietra
in "cuore" di carne! Infatti, "appena uscito, quel servo trovò
un altro servo come lui che gli doveva cento denari". E qui si rivela il
suo "cuore" ammalato, ancora pietrificato. Il tempo di conversione è
la possibilità di accogliere e far crescere in sé la misericordia di Dio. E' il
tempo in cui sperimentare che davvero Dio ha perdonato la propria mediocrità
accogliendola nelle sue viscere capaci di rigenerarla in santità. Ma, entrando
nei "dieci giorni terribili", il "servo" dimostra
che non aveva accolto il perdono del Re. Non aveva confidato in Lui, non
ricordava che prima ancora della creazione dell'uomo e del suo peccato, Dio
aveva creato la misericordia e la possibilità di pentirsi. In fondo non
conosceva il suo re, probabilmente perché qualcuno, un suo "nemico"
invidioso e geloso, gli aveva parlato male di lui; e poi si sa, tra
sudditi, l'immagine del re quasi mai è buona... Per questo non ha avuto
l'audacia per chiedere l'impossibile che è possibile solo a Dio, e, infilandosi
in una strada senza uscita, aggiunge egli stesso una condizione impossibile da
rispettare: "ti restituirò ogni cosa". Il re,
sapendo che quel servo non ce l'avrebbe potuta fare, si
"impietosisce", spontaneamente, e "lo lascia andare
condonandogli il debito". Letteralmente, lo "scioglie" dal suo
debito, lo libera completamente per entrare da riscattato nei "dieci
giorni terribili". Ci si aspetterebbe stupore, gioia, gratitudine, e
invece nulla, quel servo non appare certo un "graziato". Infatti,
"essendo uscito" dal carcere, ormai libero, si comporta come se fosse
ancora un condannato "legato" al suo debito. E' impressionante, il
servo sembra di marmo! Mette i brividi l'assoluta mancanza di compassione;
neanche un briciolo di quella che aveva appena sperimentato nel suo
"Signore". Niente, era stato graziato ma sembra che non fosse
accaduto a lui. Era passato dalla morte alla vita eppure si comportava come uno
ancora chiuso nel sepolcro... Perché? Perché era ancora "legato"
all'immagine distorta del re che gli impediva di "conoscere", ovvero
sperimentare davvero chi egli fosse, come accade al servo di un'altra
parabola che nasconde il talento sottoterra, definito
"malvagio" come lui. Aveva sì sperimentato la "pietà"
del Re, ma il pensiero malvagio continuava a
"legarlo" al debito che aveva contratto. Nonostante fosse stato
"sciolto" nel suo cuore era ancora "legato" al suo passato... Nascondendogli
la misericordia ottenuta, infatti, il demonio continuava a tenerlo al
guinzaglio: non è possibile che ti abbia condonato tutto; lo hai mai visto fare
da qualcuno? Se neanche tuo padre, neppure tua madre.... Si ti hanno perdonato,
ma mai senza condizioni. Un debito condonato non esiste, ci deve essere un
inganno sotto, attento... Copriti le spalle, è una trappola, di sicuro il re
piomberà a casa tua esigendoti qualcosa... Vedrai come, appena trovi un altro
lavoro e cominci a guadagnare, il re ti troverà e si prenderà tutto, e poi ti
venderà... E così il servo, "afferrato e soffocato" da
quell'immagine distorta e dal pensiero di dover ancora restituire, comincia ad
"afferrare e soffocare un servo come lui". Qui
è il punto: colui che, una volta "uscito", ha "trovato" è
la sua stessa immagine, proprio come se si fosse guardato in uno
specchio. E' "come lui", e per questo, intimandogli "paga
quel che devi!", non fa che ripetere quello che diceva a se
stesso. Dalla prigione era "uscito" solo il suo corpo, il cuore e la
mente erano rimasti dentro, incatenati nella menzogna e nella paura di morire.
Il demonio si era messo di traverso tra lui e Dio, e stoltamente gli aveva dato
ascolto, chiudendo gli occhi sulla misericordia di Dio. Da
"mediocre", invece di diventare "santo" il giorno di
Kippur, quello del giudizio finale che avrebbe "coperto" ogni sua
colpa, precipita tra i peccatori senza più speranza tra le mani degli
"aguzzini". Fratelli, il servo è l'immagine di quanti, pur nella
Chiesa, non hanno ancora sperimentato il perdono di Dio; "sciolti"
realmente attraverso i sacramenti, restano "legati" al loro passato
perché non hanno smesso di ascoltare il demonio che continua ad ingannarli
mirando alla loro disperazione. Come spesso accade a noi, perché il nostro ego
gonfiato dalla superbia non smette di illudersi; anche quando
"cadiamo" il demonio ci ripete che siamo come Dio, e per questo
potremo rialzarci... Sono state solo le circostanze esterne a noi a farci
cadere. Ma contemporaneamente restiamo "legati" a un'immagine
moralistica di Dio, quella delle autorità che abbiamo conosciuto, dei genitori
o dei professori, dei superiori, dei fratelli maggiori. E così siamo
spinti da una parte dall'inganno moralistico di dovercela fare con i nostri sforzi,
dall'altra dall'illusione di essere come "il re" e quindi di riuscire
a restituire "tutto", cioè la Grazia che abbiamo perduto, la
"vita" divina che non abbiamo difeso dal peccato! Che stolti
siamo. Non ci basta essere "caduti" per capire che non siamo come
Dio. Per impedirci di credere all'annuncio della Chiesa, aprirci alla
Grazia e sperimentare un perdono immeritato, il demonio punge il
nostro orgoglio e ci ruba l'amore di Dio. No, non può amarmi così, sino
alla fine dei miei peccati; non può amarmi anche se commetto "settanta
volte sette" lo stesso peccato. Nessuno lo ha fatto, forse qualcuno può
arrivare a stento a "sette volte", quello che Pietro pensava fosse il
massimo possibile... Da buon ebreo, gli sarà venuta in mente la Torah, nella
quale Dio stabiliva che chiunque avesse ucciso Caino avrebbe subito la
vendetta sette volte; camminando con Gesù, ascoltando la sua
Parola, vedendo i suoi gesti pieni di misericordia e compassione, ha intuito
che il Maestro avrebbe rovesciato la vendetta in perdono. Ma non poteva
immaginare che Gesù avrebbe dilatato all'infinito quella misericordia: dicendo
che bisogna "perdonare" chi ci ha fatto del male "non solo
sette, ma settanta volte sette", Gesù va oltre Caino e arriva a uno dei suoi
discendenti, Lamek, che si vantava di aver ucciso un uomo per una sola
scalfittura e diceva: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma
Lamek settantasette”. Un parossismo vendicativo senza limiti, che
Gesù capovolge in un perdono senza misura. Pietro non poteva prevedere che
dicendo "settanta volte sette", Gesù stava annunciando il suo
perdono; il flagello avrebbe straziato la sua carne, ad ogni sferzata miliardi
e miliardi di peccati si sarebbero abbattuti su di Lui, perché, piantati sin
dentro il suo intimo, li potesse portare sulla Croce e inchiodarceli, per
frantumarli nel suo amore infinito. Sappiamo che per gli ebrei i numeri
sono molto importanti; una parola che ha il valore numerico di quattrocentonovanta è
"tanim", che significa "perfetto",
"completo". La parabola di oggi allora, rispondendo alla
questione posta da Pietro ma che tutti abbiamo dentro, non ci impone nulla; ci
invita semplicemente ad entrare nel "mistero di Dio". Il
"peccato" che "qualcuno" compie "contro di noi" è
lo stesso che tu ed io abbiamo commesso e continuiamo a commettere; è questo il
cuore della parabola: non si tratta di misurare i confini della pazienza e del
perdono; non esistono manuali dell'esperto perdonatore cristiano.
Esiste l'amore di Dio, da accogliere stupiti e semplici. Allora avremo uno
sguardo diverso su noi stessi e sugli altri, e non ci servirà nessuna regola da
seguire di fronte ai peccati dei fratelli, perché si tratta solo di
amare nell'amore con cui siamo amati e che "precede il nostro agire".
Allora sapremo vivere ogni giorno come un "giorno terribile" nel
quale convertirci e lasciare che il perdono che ci ha raggiunti si dilati verso
il fratello che pecca contro di noi. Sì, ogni giorno ci svegliamo siamo
"mediocri", ma ogni giorno possiamo essere trasformati in santi perché
Cristo "copre" e cancella ogni nostro peccato. Allora, alziamoci la
mattina come fosse "Rosh Ha Shanah", l'alba che inaugura per noi il
giudizio. Sì, cadremo ogni giorno, ma Cristo ha dato la vita per noi, e
possiamo chiedere a Dio di avere misericordia di noi in quel giorno, e di
aiutarci a diffonderla con la nostra vita, per giungere a sera come a "Yom
Kippur", e addormentarci nella pace del Regno di Dio. E ciò si compie
nella Chiesa, perché in essa i fratelli si "perdonano di cuore"
perché sanno di essere tutti debitori dello stesso Padre, ma stanno
sperimentando che Cristo "ha pagato per noi all'eterno Padre il
debito di Adamo, e con il sangue sparso per la nostra salvezza ha cancellato la
condanna della colpa antica" (Exultet di Pasqua). Per questo
possono testimoniare al mondo la Buona Notizia del perdono dei peccati,
annunciando che: "ecco, la mia infermità si è cambiata in
salute! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa delle distruzione,
perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati" (Is
38,17).
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VENERDI'
18 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/5tjkq6R8lPw
OPPURE
https://youtu.be/K94Ir5skZN4
TORNARE
CON CRISTO AL "PRINCIPIO" PER VIVERE OGNI RELAZIONE COME UN NUOVO
INIZIO
Vi
sono domande che non cercano risposte, ma che sembrano piuttosto pistole
puntate alla tempia. Come quella, subdola e perversa, di "alcuni
farisei": "E' lecito.... ?". Di fronte al "mistero
grande" del matrimonio, l'unico che sembra loro interessare è se sia
"lecito ripudiare" la moglie. In essi affiora sempre l'approccio
legalistico alle persone, che rinvia, scioglie (significato
originale di ripudiare) l'amore nei confini del proprio tornaconto. In
questo episodio è profetizzata l'ondata dei "è lecito?" che,
dall'Illuminismo ai nostri giorni, ha stravolto l'umanità. Sempre in cerca di
un "è lecito" per sfuggire il dolore e il sacrificio che, a causa del
peccato, l'amore suppone. Ma Gesù, conoscendo il loro cuore, risponde
inaspettatamente con un'altra domanda, questa volta piena d'amore e ci ci
annuncia di nuovo il Vangelo attraverso la Chiesa, la liturgia e la
predicazione. Il matrimonio, infatti, tale come traspare dalle parole di
Gesù, è la Buona Notizia dell'amore di Dio con il quale e per
il quale ha creato l'uomo, maschio e femmina. "Da
principio" Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza,
"maschio e femmina" perché in essi, nella loro irriducibile diversità
e complementarietà che "Dio ha congiunto in una carne sola",
rifulgesse il mistero dell'amore e della comunione della Trinità: "la
missione della famiglia è iscritta nel solco della Santissima Trinità. Non c’è,
in questo mondo, un’altra immagine più perfetta, più completa di quello che è
Dio: unità, comunione. Non c’è un’altra realtà umana più corrispondente, più
umanamente corrispondente a quel mistero divino" (Giovanni Paolo
II). "Da principio" Dio ha pensato la comunione e l'amore. Al
"principio" di tutto, come una vocazione dell'universo e degli
uomini, come una profezia dell'eternità. "Da principio",
infatti, ap'archès, traduce la prima parola ebraica della Torah;
come anche l'inizio del Vangelo di Marco e Giovanni. La prima
parola della Bibbia è l'amore che crea e unisce un uomo e una donna. Sulla
soglia della vita vi è la famiglia, così come Dio l'ha pensata, voluta e
creata; il Vangelo parte da qui, e nessun annuncio può non partire dall'amore
dal quale ogni uomo è stato generato, come lo stesso Figlio di Dio, la Parola
del Padre che era al Principio e si è fatta carne nello Spirito Santo per
riunire in sé stessa ogni carne dispersa e separata. Creando l'uomo libero, Dio
sapeva, infatti, che questi avrebbe potuto "indurire il cuore" nella
menzogna del demonio e separarsi da Lui e separare quello che Egli aveva unito;
Adamo ed Eva, ingannati, caddero preda della "Sklerokardia",
la durezza del cuore; si tratta di un termine rarissimo nel Nuovo
Testamento, è usato solo qui (e nel parallelo di Mc) e nel finale di Marco,
quando Gesù risorto, apparendo ai discepoli, li rimprovera per la loro
incredulità e durezza di cuore: "dal principio" dunque, sino al
mattino della resurrezione, e ancora più in là sino all'alba dell'Ascensione,
da Adamo ed Eva sino ai discepoli di Gesù, la stessa malattia del
cuore, la stessa incredulità. Quei farisei increduli vogliono
ingannare Gesù per indurlo a dar loro ragione; per questo obiettano che
"Mosè ha "ordinato" di dare l'atto di
ripudio". Qualcosa che è "permesso" non è un obbligo o un
comando da eseguire. Per riguardo alla "debolezza" si
"permette" qualcosa di speciale. Ma Gesù li riporta alla
verità; in effetti, Mosè non ha dato alcun ordine riguardo al ripudio:
"Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di
ripudiare le vostre mogli". Sino a quel giorno, quasi obbligato dalla
durezza del cuore, era stato permesso qualcosa che non lo era "da
principio". Ma ora, di fronte ai
farisei, come di fronte a ciascuno di noi, vi è Colui che era "da
principio"; vi era Cristo, il principio di ogni cosa, l'autore stesso del
matrimonio. Per questo, con autorità, dichiara che, in Lui, quello che era
stato permesso per la debolezza, non è più necessario e perde quindi validità:
le cose vecchie sono passate, chi è in Cristo è una creazione nuova. Sulla
Croce Gesù ha compiuto quello che oggi ci annuncia: in essa, il "principio" si
compie in un presente che si dilata nell'eternità; il "non fu così"
del "principio" diviene l' "essere così" del
presente. Il "principio" del disegno di Dio ci è consegnato
oggi nella Croce del Signore, sulla quale siamo attirati attraverso i
sacramenti e l'ascolto della Parola di Dio, guidati dalla cura amorevole della
Chiesa. Perché la Croce è la porta al Cielo, e nella Chiesa possiamo entrare
ogni giorno nel Mistero Pasquale che ci fa passare dal peccato e dalla morte
che ci fa incapaci di amare alle primizie del Regno dei Cieli, nelle quali
sperimentare la libertà e la gioia di donarsi delle creature create "al
principio". La sua croce nella nostra, il luogo dove ci dà ogni giorno appuntamento
per essere "congiunti" con Lui e tra noi in una sola carne. Il verbo
greco synezeuxen che indica "congiunto" infatti, è
formato dalla preposizione-prefisso syn ("con") e
dalla radice zeug-, che descrive anche due animali uniti dal
"giogo" (zeugos). Il giogo che unisce gli sposi è dunque il
giogo di Cristo, mite e umile di cuore. Esso è leggero e dolce perché
è l'unico adeguato a ciascuno dei due. Non può esservi giogo
diseguale, pena inciampare, cadere, rompere l'unità. Senza il giogo di Cristo, lontano
dalle sue braccia distese ad unire gli sposi, la "condizione dell'uomo
rispetto alla donna" è così difficile e dura che "non conviene
sposarsi". Senza l'amore infinito di Cristo che ogni giorno perdona, e fa
perdonare, ama e dona di amare, si resta nella condizione di morte frutto del
peccato, dove dolore e concupiscenza regnano e dominano le relazioni.
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SABATO
19 AGOSTO (XIX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/x7LVP9PiSBA
LA
PICCOLEZZA CHE ATTIRA LA BENEDIZIONE DI GESU'
I
discepoli di Gesù sono un vero mistero. Gesù li aveva istruiti sino a quel
momento mostrando loro che cosa fosse un discepolo. Li ha chiamati, eletti,
amati proprio perché piccoli, perché "bambini". Ed essi
"sgridano" chi presenta a Gesù dei bambini perché "imponesse
loro le mani e pregasse". Un mistero di stoltezza, come la nostra. ma come
ha accolto te, e tu non vuoi che accolga altri come te? Ma lo stolto non
può penetrare il pensiero di Dio, e così, non capendo, non sa accogliere. La gratuità
non è nel registro dei suoi pensieri, nonostante l'abbia sperimentata. Pietro
ne aveva dato dimostrazione quando si è messo di traverso sul cammino d'amore
di Gesù. Cos'ha da offrire un bambino? Quali meriti? Nell'Israele del
primo secolo il bambino era un simbolo di mancanza di stato sociale e di
diritti legali. Era una sorta di "non-persona", completamente
dipendente dagli altri per il sostentamento e la protezione. Poco più che
nulla. San Paolo scrivendo ai Corinzi circa la loro elezione dirà: "
Considerate bene la vostra chiamata fratelli. Non esistono molti sapienti
secondo la carne, né molti potenti, né molti di nobili natali. Ma quel che
esiste di folle nel mondo, proprio questo Dio ha scelto per confondere i
sapienti; quel che esiste di debole nel mondo, ecco che Dio lo ha scelto per
confondere la forza; quel che nel mondo è di ignobili natali (i figli di
nessuno), e quel che viene disprezzato, ecco quel che Dio ha scelto. quel che
non è per annientare quel che è, affinché nessuna carne abbia a gloriarsi davanti
a Dio" (1Cor 1,26-29). Dio ha scelto gente ignobile, disprezzata, figli senza
genitori, abbandonati. Dio è andato per orfanotrofi a cercarsi i discepoli. E'
sceso nei luoghi senza amore, senza dignità, nel nulla dimenticato dal tutto
che è solo apparenza. Così ha creato l'uomo al principio, ricco di tutto perché
creatura disegnata per accogliere il suo amore. Così ha chiamato Abramo, così
il suo Popolo e i profeti, così Davide. Così il Suo Figlio, disprezzato,
reietto, rifiuto degli uomini. Così ciascuno di noi, bambini incapaci di tutto
e, per questo, in tutto dipendenti da Dio. Vi è una pagina di rara
bellezza che, nel libro del profeta Ezechiele, descrive l'amore infinito e
gratuito di Dio verso il suo popolo, verso ciascuno di noi: "Così dice il
Signore, l'Eterno a Gerusalemme: La tua origine e la tua nascita sono dal paese
di Canaan; tuo padre era un Amorreo e tua madre una Hittea. Alla tua nascita,
il giorno in cui fosti partorita, non ti fu tagliato l'ombelico, non fosti
lavata con acqua per pulirti, non fosti sfregata con sale né fosti avvolta in
fasce. Nessun occhio ebbe alcun riguardo di te per farti una sola di queste
cose, avendo compassione di te; il giorno in cui nascesti tu fosti invece
gettata in aperta campagna, per la ripugnanza che avevano nei tuoi confronti.
Io ti passai vicino, vidi che ti dibattevi nel sangue e ti dissi mentre eri nel
tuo sangue: "Vivi!"... Così stesi il lembo della mia veste su di te e
copersi la tua nudità, ti feci un giuramento, stabilii un patto con te e tu
divenisti mia", dice il Signore, l'Eterno. "Ti lavai con acqua, ti
ripulii interamente del sangue e ti unsi con olio. Ti feci quindi indossare
vesti ricamate, ti misi calzari di pelle di tasso, ti cinsi il capo di lino
fino e ti ricopersi di seta. Ti abbellii di ornamenti ti misi i braccialetti ai
polsi e una collana al collo. Ti misi un anello al naso, orecchini agli orecchi
e una splendida corona sul capo.Così fosti adorna d'oro e d'argento e fosti
rivestita di lino fino di seta e di ricami" (Cfr. Ez. 16). Eravamo bambini abbandonati dunque, di
nessun valore agli occhi del mondo. Bambini capricciosi, spesso egoisti, ancor
più spesso orgogliosi. Bambini che si sono creduti adulti, ricchi, potenti e
autonomi. Bambini ingannati dallo splendore effimero di ciò che appariva bello
e desiderabile. Bambini buttati via, ridotti a nulla. Sin qui è giunto
l'amore di Dio. In questo abisso è sceso il Signore, perché questo era il luogo
dell'appuntamento, dove, come i bambini del Vangelo, siamo stati
"condotti". Dietro a quei bambini c'è una storia lunga quanto quella
dell'umanità, la nostra. Venti, quaranta, ottanta, non importa quanti anni
abbiamo compiuto; importa che oggi qualcuno ci "conduca" da Gesù, che la storia ci spinga,
forse con le sofferenze e i fallimenti, ad incontrare il suo amore; le sue mani
benedicenti, le sue mani crocifisse ci vengono incontro oggi a svellere i
cardini dell'orgoglio. Il suo amore disarma l'orgoglio. Il suo amore proteso
oggi su ciascuno di noi è la buona notizia d'una speranza.
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DOMENICA
20 AGOSTO (XX DEL TEMPO ORDINARIO. ANNO A)
https://youtu.be/o0NaQ7NQA9I
(E'
UN COMMENTO AL BRANO DEL VANGELO PREPARATO PER UN'ALTRA OCCASIONE)
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LUNEDI
21 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/rCkPCYzhLlg
CONSEGNATI
ALL'UNICO BUONO
Nella Chiesa primitiva
essi erano definiti "perfetti", perché in loro non mancava
nulla della "pienezza" di Gesù Cristo, perché, battezzati,
vivevano ormai la sua vita. "Perfezione" significa infatti
"pienezza", "compiutezza"; l'opera "perfetta di
Dio" è la vita di Gesù offerta sino alla fine, sino
alla perfezione secondo l'originale greco: quando, spirando sulla
Croce, il Signore dice: "Tutto è compiuto, tutto è perfetto". Al
giovane "per essere perfetto" - per non mancare di nulla -
"manca una cosa": aprirsi e svuotarsi, dare tutto quello che ostacola
la presenza di Cristo in lui. Manca vendere quello che lo riempie, per
diventare affamato dell'unico pane che sazia. Manca spogliarsi di tutto, per
restare senza difese, un peccatore senza diritti e opere davanti a Dio, e
sperimentare che davvero è un Padre buono, l'unico; il solo
che perdona infinite volte, che non giudica, non disprezza, che non chiede
nulla in cambio del suo amore, che, per amarci, non esige il nostro
"fare". Manca conoscere il Padre "buono" che
ci ha creati nella sua "bontà" come la sua creatura più
"buona". Al giovane, come ai nostri figli, e spesso anche a
noi, manca la conoscenza intima del Padre, al punto che la sua
"bontà" si rifletta in ciascuno, creato a sua immagine e somiglianza.
Ai giovani, per avere la vita eterna, per essere felici, per essere
perfetti manca proprio il "tesoro nel Cielo", manca il Padre! Il
giovane se va triste perché ha preferito restare orfano. Come tante volte
accade anche a noi, e ai nostri figli. Il giovane è triste perché
ha scelto di continuare a servire il patrigno, o meglio, l'aguzzino:
"seguendo Gesù" sul cammino della conversione e della libertà, dove
"vendere ogni bene per darlo ai poveri", avrebbe sperimentato di
avere un tesoro in Cielo, di non essere orfano ma figlio nel Figlio dell'unico
Padre buono. Seguire Gesù, infatti, non significa dover abbandonare
stoicamente i propri beni, ma aver incontrato il Figlio che è immagine e
somiglianza "perfetta" del Padre, l'unico "buono" che dà la
Vita eterna, il "bene" assoluto. Ovvio che per seguirlo è necessario
prima tagliare le catene che legano agli idoli: ma non si tratta di un
moralismo o dell'eroismo di chi si illude di aver optato per
Gesù. E' invece opera del potere infinito della sua Parola che chiama a
seguirlo. Ecco dunque "che cosa fare": camminare nella
Chiesa, ascoltare anche oggi Gesù, accogliere nel
cuore la sua chiamata d'amore, e lasciare che Lui operi in noi la volontà
"buona" del Padre "buono". E questo siamo chiamati a
trasmettere ai "giovani": ad abbandonarsi all'amore di Dio, a mettere
la propria vita completamente nelle sue mani, come un foglio in bianco sul
quale Egli possa scrivere la sua volontà d'amore, attraverso la Chiesa, in un
serio cammino di conversione. Spesso, nelle indecisioni, si cela
l'idolatria della propria volontà e dei propri criteri. I giovani non
sanno cosa fare perché difendono ciò che vorrebbero fare e che non riescono a
fare. Per questo Gesù e la sua Chiesa, i pastori con i catechisti e i
genitori, annunciano alle nuove generazioni che c'è un solo cammino alla vita
eterna, quello dell'autentica libertà: essa si sperimenta solo
"seguendo" Gesù, "vendendo" ogni giorno "quello che si
possiede", le persone e le cose, i progetti e i criteri, soprattutto la
propria volontà, per "darlo ai poveri"; ciò significa convertirsi,
ovvero non vivere più per se stessi "possedendo", ma per gli altri
"offrendosi". Faranno allora la stessa esperienza di Pietro,
adulti nella fede e nella loro umanità: come lui, infatti, quando erano
"giovani" andavano dove volevano, facendo quello che la carne
desiderava; ma ora, anziani perché adulti nell'esperienza
dell'amore di Dio, possono tendere le loro mani, a scuola, nel lavoro,
nelle relazioni, e andare dove non vorrebbero, offrendo la propria vita
gratuitamente. Non saranno allora più in crisi per non sapere che cosa
fare, perché stretti nel dover fare solo quello che la libido e la
concupiscenza desidera, senza essere mai soddisfatti; al contrario, saranno
felici perché liberi di studiare quando non vorrebbero, sposarsi anche se la
paura li schianta, accettare un lavoro noioso e senza soddisfazione. Cogliamo
dunque ogni attimo per "vendere tutto" e avere dentro di noi la Vita
eterna, perché questo è "ottenerla", ereditarla: non solo dopo la
morte, ma oggi! Un cristiano ha la vita di Cristo dentro, perché ha tolto tutto
quello che le impediva di farsi largo nel cuore, nella mente, nello sguardo,
nei gesti, nelle parole. Chi ha la sua vita, ama in ogni "attimo" che
non sfugge più, ma è per l'eternità".
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MARTEDI' 22 AGOSTO (XX
SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/_MMJbk8ItU0
CHIAMATI ALLA
GERUSALEMME CELESTE
La "salvezza" è l' "impossibile all'uomo" che Dio rende "possibile". Con le parole di oggi, Gesù priva di forza qualsiasi moralismo e pelagianesimo (eresia di chi crede di salvarsi con le proprie forze e i propri meriti), rivelando al contempo la friabilità di ogni morale laica. L'orizzonte che attende ogni uomo è il Regno dei Cieli, non un regno che trasformi ideologicamente la terra in Cielo; la salvezza è entrarvi perché chiamati, e non può essere il frutto degli sforzi umani. Si tratta di pura gratuità; all'uomo carnale piegato orgogliosamente su se stesso, la Grazia purtroppo riesce terribilmente indigesta. Per questo, "difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli". Pietro e gli apostoli restano "costernati": stanno con Gesù da tempo, hanno intuito che è Lui la "benedizione" promessa a chi è fedele all'Alleanza e obbediente alla Torah; ha moltiplicato il nulla, certo che è Lui la vera ricchezza, la fecondità, il raccolto, la gioia; è Lui la vita che non muore, sempre sovrabbondante. Ma sanno che proprio la ricchezza dell'uomo è segno della benevolenza di Dio... e sanno che la ricchezza potrebbe consistere anche in poche cose, difese con le unghie... Nella domanda di Pietro è riassunta quella di tutti quelli che, avvicinandosi a Cristo, restano sbalorditi dalle sue parole; in fondo è come se dicesse: ehi, qui non si salva nessuno... Ma Gesù, invece, sta annunciando la verità che può dischiudere all'umiltà e alla libertà di un mendicante. Gesù non sceglie a caso le parole: la porta attraverso cui si accede al Regno è "stretta" come la "cruna di un ago", angusta come la Croce. E' più facile che un cammello passi attraverso un foro così piccolo che per vederlo, a volte non bastano neanche gli occhiali, che tu ed io distendiamo oggi le nostre braccia sulla Croce. Troppo possediamo per poterci donare. Per questo è "impossibile" amare davvero, sino alla fine: perdonare il marito che ha tradito? Impensabile! Perché? Perché da quando eravamo fidanzate con lui abbiamo fatto di tutto per "possederlo": gelosie, scenate, parole e atteggiamenti, ricatti affettivi e slanci passionali, tutto per incollare l'altro al nostro cuore. Così, il "mio" ragazzo è diventato il "mio" marito. Sembra del tutto naturale, ma non lo è. Chi fa dell'altro un suo possedimento non può lasciarlo libero, di pensare e di essere se stesso, men che meno di sbagliare e peccare. L'altro è mio, e, come un bambino capriccioso, ci posso giocare solo io. Quando poi succede che si libera delle catene e scappa, infilandosi ad esempio nel tradimento con la segretaria più giovane, il mondo cessa di esistere e tutto crolla; sotto le macerie di una vita fallimentare spesa a possedere l'altro senza risultato, il marito diventa un nemico da cancellare, un ladro che ci ha rubato gli anni migliori, che ha frantumato i nostri sogni e le nostre speranze. Amarlo? "Impossibile". Siamo egoisti, ci siamo appropriati di persone e cose al punto che non ne possiamo fare a meno. Per noi "ricchi" è "impossibile" entrare nel Regno dell'amore perché è "impossibile" disfarci delle ricchezze e seguire Gesù! Pietro non ha compreso d'essere stato chiamato, amato e liberato da se stesso per entrare, già qui sulla terra, nel Regno dei Cieli, dove tutto è donato e nulla si possiede. "Lasciare tutto" è "impossibile" a Pietro, a me e a te, come a tutti gli "uomini". E' un'opera che solo Dio può rendere "possibile". Se Pietro e i discepoli hanno "lasciato tutto" è stato perché Dio ha compiuto l'impossibile di strappare i loro cuori dalle catene del "possesso" e dalla schiavitù dell'egoismo. I loro nomi sono scritti in Cielo con il sangue del Signore; per questo la loro vita, come un "tesoro" - il "tesoro" di Cristo! - è custodita lassù. Non si tratta, dunque, di un moralismo, ma della Grazia che attira gli uomini a seguire il profumo dell'unico amore per il quale, "dare tutti i beni della terra, sarebbe ancora disprezzarlo". Si tratta di una "nuova creazione", di una "palingenesi" secondo l'originale greco; significa che Gesù "ci ha salvato non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo", cioè grazie alla "palingenesi" che, in tutto il Nuovo Testamento, troviamo solo qui e nel brano di oggi. E questo "perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna" (Tito 3, 5-7). Ma occorre davvero desiderarla, mettere in gioco la propria libertà, perché Dio non salva nessuno senza l'adesione personale. Allora ogni uomo ha bisogno che qualcuno scenda laggiù, nelle profondità del suo cuore, e lo guarisca, strappandogli il veleno che lo fa morire. E uno solo lo ha "fatto" per tutti: Gesù Cristo! E' Lui che, con una carne identica a quella di Pietro e compagni, si è lasciato spogliare di tutto, e con la sua Croce è passato attraverso la "cruna d'ago" che lo separava dal regno dei Cieli; entrato in esso vi ha deposto il suo "tesoro", la vita di Pietro e degli apostoli. E' l'amore di Cristo che lo perdonato ed eletto ad entrare nella "nuova creazione", dove regnerà è giudicherà, cioè "governerà" le Dodici tribù di Israele insieme con Lui; ravveduto e cercato dal Signore, confermerà, pascerà e giudicherà con amore i suoi fratelli. L' "ultimo", il pescatore di Galilea che ha tradito e abbandonato Gesù, nella sconvolgente gratuità dell'amore di Dio, diviene il "primo", senza alcun merito! Questa è l'economia del Regno dei Cieli, una creazione nuova, opera del Creatore e non delle mani dell'uomo.
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MERCOLEDI' 23 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL
TO)
https://youtu.be/-qsyIE_l6yE
LA BONTA' DI DIO CI "CONTRATTA"
OFFRENDO SUO FIGLIO IL FIGLIO CON IL QUALE OPERARE IL BENE CHE ANNUNCIA IL SUO
REGNO
Quello che non sa il mondo con le sue
ideologie cieche che non prevedono il peccato originale nel cuore dell'uomo, è
che nessuno merita nulla perché tutti sono stati "disoccupati"
nell'incapacità di amare: "Non c'è distinzione: tutti hanno
peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati
gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo
Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione
per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua
giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati
passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la
sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede
in Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge?
Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo
infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere
della legge. Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei
pagani? Certo, anche dei pagani! Poiché non c'è che un solo Dio, il quale
giustificherà per la fede i circoncisi, e per mezzo della fede anche i non
circoncisi" (Rm 3, 22-30). Se, per Grazia, siamo stati chiamati alla
salvezza prima dei pagani che ancora sono schiavi del mondo, è
in vista della loro salvezza. Lo doveva capire anche Pietro, proprio come il
giovane ricco. Ma, a differenza di questi, Pietro ha continuato a seguire Gesù,
cadendo altre mille volte, scandalizzandosi della Croce e tradendo; ma così ha
capito di essere stato chiamato ad essere il "primo" proprio perché
era l"ultimo" tra tutti, il peggiore. Come aveva ben chiaro San
Paolo: "Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io
infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere
chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia
di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana;
anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con
me" (1 Cor. 8,15-10). Anche noi abbiamo bisogno di camminare molto
per scoprire e accettare di essere gli "ultimi", e così entrare nella
libertà dei figli di Dio, felici del "denaro" che ricevono
immeritatamente ogni giorno; saremo allora una primizia tra i
risorti inviata agli ultimi della terra, per annunciare loro la
"giustificazione" gratuita di Dio che li "fa primi nel Regno dei
Cieli".
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GIOVEDI' 24 AGOSTO SAN BARTOLOMEO
APOSTOLO
https://youtu.be/UgFIuYVN9LY
GESU' CI CONOSCE NELL'INTIMO AMANDO IN NOI
LA SUA IMMAGINE PER RIDESTARLA E FARLA SPLENDERE DINANZI AL MONDO
"Come mi conosci?". Che non è
solo chiedere a Gesù come faccia a conoscerci, ma è molto di più: in
che modo mi conosci? "Come il Padre ha amato me anche
io ho amato voi". C'è un "come" unico e irripetibile, la forma
concreta con la quale il Signore ci ama. Ciascuno di noi è diverso, non vi è
una persona identica all'altra; così, come seguendo il sentiero intricato delle
nostre impronte digitali, Gesù ci ama. Si inerpica nelle asperità del
carattere, scende nei precipizi dei cambi di umore, si ferma laddove cadiamo. Gesù
ha amato Natanaele "vedendolo prima" di ogni altro. Così anche
ciascuno di noi è amato da Lui in una forma originale, perché ci ha visto
quando e dove nessuno poteva vederci. Ci ha visto ancor "prima di essere
chiamati". Come accadde per Isaia, per Geremia e per San Paolo, Dio ci ha
"conosciuti" perché i suoi occhi ci hanno "visto ancor
prima" di essere formati nel grembo materno, quando eravamo ancora informi.
Il suo amore precede ogni nostra scelta, ogni pensiero e ogni attitudine, ogni
gesto buono o malvagio. Il suo amore non dipende da noi! Lui
ci ha amati da sempre perché, come Natanaele, ci ha "visti senza
falsità". Ma come, siamo falsi e ipocriti, sempre dissimulando la parte
meno nobile di noi stessi... Siamo peccatori, e ogni peccato sorge dal demonio,
il padre della menzogna, e il Signore ci "vede senza
malizia"? Si, perché ci ha "visto prima", laddove siamo
stati pensati e creati dal Padre. Ci ha "visti sotto il fico": è il
luogo dove i rabbini studiavano la Torah; ma il fico, in Osea 9,10, era anche
il simbolo di Israele. Israele, che significa forte con Dio, nasce
sotto il fico, nell'ascolto e nell'accoglienza docile della Parola di Dio.
Israele diviene esso stesso Parola, il segno della presenza di Dio nella
storia. Tutti noi, dice San Giovanni, siamo stati creati per mezzo del Verbo -
della Parola - e in Lui sussistiamo e ci muoviamo. Ecco, Gesù ha visto
Natanaele mentre veniva creato, pensato e intessuto nel seno di sua madre,
attraverso la forza della Parola. Natanaele è apparso ed è venuto al
mondo ascoltando la Parola. Non può esserci malizia e falsità in chi è
stato creato nella Parola della Verità. Poi è venuta la menzogna, certo, e
il peccato originale. Ma ancor più in origine, per così dire, vi è
la Torah che ha tratto Natanaele e ciascuno di noi alla vita. In questo istante
Gesù lo ha visto e ci ha visto, "prima" di peccare, e
"prima" anche di essere chiamato nella Chiesa, ad essere padre,
madre, prete o suora; "prima" di qualsiasi chiamata vi è la
Parola che ci ha creato: in quell'istante Gesù ha posato il suo sguardo su
di noi e ci ha "giudicato" puri, senza il veleno della menzogna. E
quello sguardo Gesù ha conservato sino ad oggi, nonostante i nostri peccati.
Lui ci vede come nessuno può vederci, neanche nostra madre, nostro marito,
nessuno. Per questo Natanaele, anche se in un primo
momento, all'udire di Gesù, oppone i criteri della carne, il frutto della
propria esperienza, non rimane in essi. Si muove invece, accogliendo l'invito
di Filippo. Qualcosa l'ha fatto oltrepassare la barriera della natura e lo ha
sospinto ad "andare e vedere". Lo stesso può accadere per noi.
Il desiderio di essere amati per quello che siamo ci sospinge sempre, ad
"andare e vedere". Siamo un po' come giocatori di poker, e, per
questo, molte volte siamo caduti nel bluff de demonio. Ma ancora una volta,
oggi, il Signore viene alla nostra vita, attraverso un fratello, un catechista,
un sacerdote, e ci annuncia il suo amore. Non dobbiamo far altro che obbedire e
"andare e vedere". E' fondamentale l'andare: senza il
movimento che ci fa uscire da noi stessi è impossibile poi vedere. E'
necessario aprire il cuore, fosse anche di un millimetro, e muoversi per uscire
dalle certezze, dal pensiero che "da Nazaret non può venire nulla di
buono". Forse sino ad oggi non abbiamo ottenuto quello che abbiamo
chiesto; forse il matrimonio continua a far acqua; forse il figlio è andato
solo peggiorando seguendo amicizie cattive; forse davvero oggi tutto ci dice
che "da Nazaret non è mai venuto nulla di buono", perché Gesù o è
sordo o è impotente dinanzi alle nostre sofferenze. Ma oggi il Signore
viene di nuovo a sfiorare il profondo del nostro cuore, e il suo sguardo torna
nella parte limpida e incontaminata della nostra anima. E ci attira a
Lui, a consegnare noi stessi al suo amore. Scopriremo che nessuno ci ha mai
amato come Lui; "andando" verso di Lui, "vedremo" noi
stessi come da Lui siamo guardati, e nulla potrà mai più essere come prima.
Come è accaduto per Natanaele, sperimenteremo che, amati da sempre, è del tutto
irrilevante stare a guardarci dentro cercando perché abbiamo peccato, da dove
viene la nostra sofferenze o qual'è l'origine del nostro fallimento. Prima di
tutto c'era il suo amore. Tornando ad esso, anche i peccati, i macelli, i
fallimenti che gli sono successivi, acquistano una fisionomia diversa. Non sono
altro che l'esperienza della vanità di tutto quello che non è figlio del suo
amore. Vedremo, come Natanaele, "i cieli aperti" e "li angeli
scendere e salire su Gesù". Ciò significa che i "cieli si aprono"
per noi laddove incontriamo il Signore e sperimentiamo il suo amore infinito e
"prima" di tutto; la terra dove abitiamo diviene allora, come fu per
Giacobbe, un luogo santo e tutto - matrimonio, lavoro, malattie - acquista una
luce nuova. In tutto possiamo vedere scendere il Cielo e tutto
salire nel Regno eterno. Tutta la nostra vita è una chiamata ad andare a
vedere. Ci chiama la moglie quando è stanca e nervosa; ci chiama il marito
depresso; ci chiama il figlio che va male a scuola; tutto ci chiama per farci
uscire da noi stessi e andare per vedere l'amore di Dio che ci ha dato la vita.
Questa è l'unica forma di vita senza malizia e falsità: rischiare ogni giorno
il proprio "io" per vedere un Tu capace di colmare la propria vita,
perché "Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e
belli perché ci ama" (san Bernardo).
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VENERDI' 25 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/Hd1Ds0di8jw
L'ASCOLTO UMILE DELLA PAROLA DI DIO CI
INTRODUCE NELL'ORDINE DELL'AMORE
O "tutto" o niente. Il
cristianesimo, portato dalla radice dell'ebraismo, non ammette mezze misure. O
l'amore o il nulla. Perché l'amore non è divisione ma compimento integrale di
una persona. L'amore non ammette compromessi, dilazioni, frammentazioni. L'amore
è Dio e Dio è uno! Che vuol dire che il Signore è uno? Gesù rivela il
cuore della Legge sintetizzandola nell'amore, da cui deriva ogni altra Parola,
della Torah e dei Profeti. Senza amore tutto è vano dirà San Paolo, e sarà un
approfondimento di questa risposta di Gesù. L'incipit delle Dieci Parole
di Vita, vergate con il fuoco dell'amore divino e rivelate sul Sinai,
rammentano un'esperienza d'amore. L'ascolto è preceduto e accompagnato dall'esperienza
di una giustizia e una misericordia gratuite realizzate per Israele attraverso la
liberazione dall'Egitto. E in essa, il Popolo ha conosciuto Dio come
unico, nell'amore e nel potere. Lo stesso incipit appare nello Shemà, il
comandamento più grande. L'amore a Dio e al prossimo scaturisce dall'esperienza
dell'unicità dell'amore che rivela Dio. Per questo prima di essere
un comandamento, esso è un'affermazione, un annuncio e una
profezia, la rivelazione di un'identità. "Ascolta Israele, il Signore è
uno": Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che
comanda, la sua unicità. L'ascolto della sua Parola è l'unica
possibilità offerta all'uomo per essere libero davvero, affrancato dal
potere del demonio, dalla schiavitù idolatrica che esso suppone. La Parola di
Gesù è dunque lo Shemà capace di ri-orientare la vita sul
cammino del compimento, dove cuore, anima e forze sono impiegate per amare. Lo
Shemà che genera e gesta i figli di Dio perché vivano liberi come il Padre
loro. A chi consegnare se stessi se non nessun altro ci ama come Lui? Chi
amare se non l’unico che ci ha creato, perdonato e riscattato? Come dividere il
nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci di salvare? Tutto ha
origine da un'esperienza nella nostra concretissima vita. Non
si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d'amore. Questo
amore che sorge dall'essere amato è la roccia su cui fondare l'esistenza, la
stabilità nell'instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà è il
fondamento del matrimonio, del fidanzamento, dell'amicizia, del lavoro, della
Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita
generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella
santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare
mente, anima e corpo. Lo Shemà è l'antidoto al fallimento delle relazioni:
chi vive lo Shemà non dirà mai "non ti amo più, sono cambiati i miei
sentimenti, non è più come prima"; perché lo Shemà compiuto inchioda ogni
relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono,
sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della
Grazia e dell'elezione a vivere sulla terra l'amore celeste, la missione
affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi. Dio infatti è unico perché
il suo amore è l'unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più
profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei
fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle
nostre vite. Lui è l'unico che ci ama così come siamo. Lui solo può
darci la vita nella morte, orientare tutto di noi verso il compimento della
missione affidata. L'esperienza del suo amore genera il radicale e
assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente,
l'amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico, perché ogni
uomo, qualunque sia la sua situazione, reca scolpito il cromosoma divino. Ascoltare
è dunque amare. Ascoltare la Verità è obbedire alla Verità; non
a caso in ebraico i due verbi coincidono. Nulla di sentimentale, erotico e
passionale. Ascoltare nell'assemblea, la predicazione, la Parola, il Magistero.
Ascoltare e imparare a obbedire insieme al Popolo santo di Dio, appoggiati alla
sua fede. Per vivere l'amore vero, non quello falso e ipocrita dei Baci
Perugina; l'amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente. L'amore
crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel suo tutto
consegnato il nostro tutto consegnato. Amore per amore, che
significa ascoltare e proclamare nella vita, per pura Grazia, l'unicità
dell'amore di Dio nel canto di gioia che sgorga dal compimento della propria
vita secondo la volontà-comandamento-parola del Padre.
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SABATO 26 AGOSTO (XX SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/PURd4ZRNNTs
DISCEPOLI DI CRISTO VIVIAMO NELL'UMILTA'
DI MOSE' CHE CI FA TESTIMONI AUTENTICI DELL'AMORE
Tutti sappiamo usare la carta
dell'umiltà, quando quella dell'arroganza non paga... Ma vediamo l'attitudine
che ci sgorga dal cuore di fronte all'umiliazione vera, non quella che ci
appiccichiamo da soli e che non fa mai male, essendo pura apparenza. Vediamo
quando non ti prendono in considerazione, non perché tu, spontaneamente, hai
fatto un passo indietro; no, quando gli altri non ti vedono proprio, e ti
accorgi di essere irrilevante. Vediamo quando non sanno che farsene della
tua opinione, o, se te la chiedono, è pura scena, visto che hanno già deciso
tutto senza di te. Vediamo quando la storia ti fa scendere all'ultimo posto,
tuo malgrado... Non sale, indomito, un fremito dal profondo del cuore, e ti
senti soffocare in un'ingiustizia che non puoi sopportare? Ma come, io sono un prete da anni, capito? Da anni ho "allungato
le frange e allargato i filatteri", messe in ogni dove e a qualunque ora,
e chilometri per consolare, aiutare, mamma mia quanto zelo profuso... e
ora? I giovani sbarbatelli e senza esperienza
mi passano avanti. Sono sempre stato dolce e disponibile per farmi
"salutare" sulle piazze; ho aiutato tanti, ho fatto elemosine e
regalato denaro, ho invitato tanti a casa mia per avere da loro i "primi
posti nei loro banchetti"; ho sudato la gavetta in seminario, e poi nel
ministero, per arrivare a "un posto d'onore" nella parrocchia e nella
missione, e ora eccomi qui dove nessuno mi consulta... Insomma chi sono
diventato? Forse stai solo scoprendo di essere quello che sei sempre
stato... Hai così pervertito l'elezione e il ministero da usare per te le
Grazie e i segni che ti sono stati dati per ricordare la gratuità e la
misericordia nelle quali fosti chiamato: "perché sei ambizioso e allarghi
queste cose? Forse è una tua opera buona? Dio non richiede che si allunghino o
allarghino queste cose, ma che si ricordino le sue opere prodigiose" (S.
Giovanni Crisostomo). Ti sei appropriato dell'opera di Dio attribuendola a te,
per pura vanagloria, esibendola, ricordandola a tutti, facendola pesare, mentre
avrebbe dovuto umiliarti e aprirti alla lode e alla gratitudine. L'unica
salvezza è la Verità. Quella che Gesù ha annunciato circa gli scribi e i
farisei; quindi anche su tuo figlio e su di te, padre ipocrita, e su di me,
prete moralista. Ingannati dal demonio "facciamo tutto per essere
ammirati", cioè non facciamo nulla gratuitamente, perché non abbiamo
ancora conosciuto la gratuità. Viviamo nella legge della menzogna, per questo
tutto ciò che diciamo e facciamo è artificiale; le relazioni, anche quelle più
intime, soffrono la superficialità e l'estemporaneità delle passioni, dei
sentimenti, e non hanno radici solide. Non siamo "maestri",
né "padri" e nemmeno "guide" perché non abbiamo
l'esperienza dell'essere discepoli, figli e parte di un popolo obbediente
perché sa di avere bisogno di un Pastore buono che lo conduca! Sino a
che non accetteremo questa realtà, galleggeremo sui giorni senza lasciare
traccia, come maschere obbligate a recitare a soggetto. Ingannati dal
demonio sulla nostra identità, su Dio e sulla nostra storia, come quegli
scribi e quei farisei, "leghiamo pesanti fardelli, difficili da
portare, e li poniamo sulle spalle della gente"; ciò accade perché,
avendoli sempre schivati "non volendo muoverli neppure con un
dito", le nostre spalle non conoscono il peso di una legge da portare
senza la Grazia che la scrive nel cuore. Sì, ci siamo "seduti sulla
cattedra" dell'uomo più umile della terra, profanandola con la
nostra arroganza. Mosé non diceva una parola una che fosse sua; ascoltava e
trasmetteva le parole che Dio gli annunciava, restando uno del Popolo,
considerandosi l'ultimo di tutti, il peggiore; era, infatti,
un fuggitivo, un assassino, e lo sapeva bene. E' la stessa verità che tutti ci
definisce, quella che il demonio ci ha occultato. Ma oggi Cristo viene di
nuovo a liberarci! Coraggio, sei un ipocrita, ma io ti amo. Ora sei umiliato,
con una catasta di fallimenti sulle spalle? Ora sperimenti il peso di regole e
criteri orfani dello Spirito Santo e non lo riesci a sopportare? Bene, è il momento
favorevole! Convertiti, convertiamoci! Non siamo Dio, tanto meno "maestri,
padri e guide". Accettiamolo, e iniziamo, una volta per tutte, a
seguire davvero il Signore; impariamo ad essere "discepoli, figli e pecore
del suo gregge". Allora potremo essere autentici, e andare,
balbettando umili come Mosè, ad annunciare quello che abbiamo visto, ovvero la
risurrezione di Cristo, e mostrare quello che abbiamo sperimentato, ovvero la
vita eterna nel seno verginale di Maria nostra Madre, la Chiesa che ci accompagna
e ci aiuta a scendere e a restare nella verità, all'ultimo posto. Riposa,
e lasciati amare! Riposa e vedrai che ritroveranno in te la speranza tutti
quelli che, a causa dei tuoi ipocriti moralismi, l'avevano perduta. Riposa e
fai la volontà di Dio come Mosè, obbedendo alla sua Parola e stringendo il
bastone della Croce. Allora vedrai il mare aprirsi dinanzi a te, e potrai
condurre alla libertà la tua famiglia, e tutte le persone che Dio ha legato al
tuo ultimo posto, al tuo "servizio" di annunciatore e testimone del
suo amore.
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DOMENICA 27 AGOSTO (XXI DEL TEMPO
ORDINARIO. ANNO A)
https://youtu.be/1qb4Su3EHwE (IN
OCCASIONE DELLA CATTEDRA DI SAN PIETRO)
CON LE CHIAVI DEL CIELO LA CHIESA FA DEL
MONDO IL TEMPIO DOVE CRISTO RISCATTA OGNI UOMO
Come Mosè, Pietro è scelto e chiamato
per liberare gli uomini dalla schiavitù. Non a caso la moderna teologia
liberale, quella protestante e il pensiero mondano rifiutano il primato di
Pietro perché non credono più alla dottrina sul peccato originale. Poi, certo,
vi sono altre implicazioni, ma il cuore della divisione tra i cristiani è la
stessa che separa la Chiesa dal mondo, dalle sue ideologie e filosofie: il peccato
originale. Per questo i protestanti hanno buttato via i sacramenti… Per
questo oggi, anche tra i cristiani, pochissimi vi si accostano o, senza ormai
comprenderne il senso, li reclamano a prescindere dal proprio cuore, quasi
fossero un certificato che legittimi le proprie scelte e la propria vita. I
sacramenti a timbrare e sigillare il peccato di Adamo... Il problema è
proprio l’ignoranza dei cristiani e dei loro pastori, inzuppati nell’acido del
buonismo della cultura contemporanea, figlio del teorema del “buon selvaggio”
di Rousseau, secondo il quale l’uomo è buono per natura ed è corrotto solo
dall’educazione e dalle strutture sociali, dal sistema. Infatti, molti
interpretano le parole che Gesù rivolge a Pietro in un senso sociale, per cui
la Chiesa dovrebbe impegnarsi a “sciogliere” gli uomini dalle catene
dell’ingiustizia. In quante parrocchie la domenica si parla di peccato? Al
massimo di peccato sociale e di strutture di peccato… E la gente torna a casa
più intristita di prima, con un peso e un senso di frustrazione che lascia
tutto com’è. Un marito, dopo essersi sorbito mezz’ora di omelia su mafie,
politici, disastri ambientali e responsabilità da denunciare; dopo mezz’ora di
parole vuote infarcite di spirito mondano, questo uomo potrà tornare a casa e
umiliarsi di fronte a sua moglie? Certo che no… E così, pur andando a
messa, finirà con il divorziare. Nessuno gli ha mai parlato di peccato, per
questo, nessuno gli ha mai annunciato la vittoria di Cristo, la sua
resurrezione come un evento per lui, per il suo matrimonio. Ma oggi la
Chiesa ci annuncia di nuovo la Pasqua! Con le parole che rivolge a Pietro Gesù
profetizza il suo Mistero Pasquale; non solo, ma ci rivela anche che il potere
di vincere il peccato e la morte è stato dato a Pietro e alla Chiesa. Che essa
esiste per liberare gli uomini e condurli, a poco a poco, in una vita
nuova. La Chiesa Orientale ha sempre raffigurato la risurrezione di Gesù
attraverso la sua discesa agli inferi. Ed è proprio a questo mistero della
nostra fede che professiamo nel Credo, che dobbiamo andare per comprendere il
Vangelo di questa domenica. L’iconografia orientale raffigura Gesù
luminoso della vita che non muore mentre passa e apre le “porte” degli inferi e
prendere per mano Adamo ed Eva: il demonio è sotto le porte, schiacciato, con i
suoi compagni. Gli stessi strumenti di tortura che l’avevano inchiodato alla
Croce sono lì, nelle profondità dell’inferno. La “chiave” che ha aperto le
“porte” è stata dunque la Croce, posata sulle sue spalle come era d’uso anticamente
fare con le chiavi della città, molto grandi; ed era un segno di comando e di
autorità: la Croce che ha accolto il sacrificio e la morte di Gesù ha avuto il
potere di scardinare l’accesso alla prigione dove il demonio teneva segregati
Adamo, Eva e i loro discendenti. Tu ed io. Ecco dunque "chi è
Gesù": il Figlio del Dio vivente, il Messia che ha vinto il peccato e la
morte! E’ vivo oggi, e “apre” oggi le “porte” che rinchiudono gli uomini nella
paura che li spinge a peccare. Pietro lo ha conosciuto per una rivelazione
speciale del Padre. Che significa? Che è stato chiamato a sperimentare la
“beatitudine” alla quale ogni uomo è destinato, per pura Grazia prima di ogni
altro uomo e per ogni altro uomo la discesa vittoriosa di Gesù agli inferi, ai
suoi! E’ questa l’elezione della Chiesa, vivere un anticipo di “vita beata”, la
vita nella fede, come un segno e una profezia per il mondo. Ed è la tua e
la mia vocazione: sperimentare che Gesù ha vinto la morte con “carne e il
sangue” uguali a tutti gli uomini. Ma senza la vita celeste dentro, “carne
e sangue” non “rivelano” chi sia Gesù. Per “la gente” che ha solo quelle, Egli
resta un “profeta”, uno speciale magari, e che insegnamenti sublimi, ma non è
Dio. Non ha cioè il potere di farmi risuscitare. Per la fede
gli uomini hanno bisogno di Pietro e della Chiesa, dove sperimentare le
“beatitudini”, ovvero la vita nuova di chi è stato liberato dalla prigione
degli inferi. Per questo è necessario un lungo e serio cammino di fede, come vi
era nella Chiesa primitiva. Non a caso, infatti, nel dialogo tra Gesù e
Pietro si ode l’eco del rito battesimale: prima di immergersi nell’acqua, i
catecumeni rinunciavano a satana e professavano la fede. Quella che professa
Pietro, e che Gesù pone a fondamento della Chiesa, che avrà sempre la meglio su
satana. E’ cristiano chi ha incontrato Pietro che viene ad “aprire” le
porte dell’inferno, “sciogliere sulla terra” la carne dalla paura e dal peccato
per “legarla in Cielo” a Dio per mezzo del potere di Cristo. E’ cristiano chi
ha ricevuto, come Pietro, il nome nuovo, ovvero la vita nuova da sempre
preparata per lui, in virtù della fede che ha dato il nome esatto a
Gesù. Ciò è possibile solo attraverso un’adeguata iniziazione cristiana
che, con la Parola e i sacramenti, sveli l’identità autentica di
Gesù. La Chiesa, infatti, ha le “chiavi” per aprire le “porte” che
separano il Cielo dalla terra; per mettere cioè in una prospettiva divina e
celeste gli affari dell’uomo sulla terra. La Chiesa ha la Croce gloriosa di
Cristo per “legare e sciogliere”, agganciando all’eternità ogni istante della
vita dell’uomo.
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LUNEDI' 28 AGOSTO (XXI SETTIMANA
DEL TO)
CONSEGNATI ALL'UNICO BUONO CHE CI FA
PERFETTI PER SEGUIRLO VERSO LA GERUSALEMME DEL COMPIMENTO
La vita ci è data per diventare
"perfetti", e la "tristezza" incombe quando non riusciamo
ad esserlo. Tutto ciò che è meno della perfezione non ci appaga, non ci
realizza, non dà compimento ai nostri giorni; ci frustra e ci getta nel cinismo
e nell'accidia, madri sempre incinta della tristezza. Non a caso il
"tale" che si avvicina a Gesù è un "giovane". Se è lì
davanti a Gesù, innanzitutto è perché, come ogni giovane, non sa cosa
fare: se studiare o lavorare; che facoltà scegliere o dove presentare
domanda di lavoro; se fidanzarsi o no con quel ragazzo; se sposarsi o
aspettare; se dare ascolto a quella voce che sembra ti stia chiamando ad essere
prete o suora, oppure non farci caso e metterla a tacere. In
fondo, mentre tira su e arrotola la persiana dei pochi anni
vissuti, il giovane chiede a Gesù se esiste qualcosa di buono per
cui valga davvero la pena spendere la vita; una buona causa,
un buon ideale, un buon motivo per fare e
raggiungere l'eternità.
Manca la "perfezione", che non
si riferisce alla condotta morale, ma alla pienezza di vita dei cristiani.
Nella Chiesa primitiva essi erano definiti "perfetti", perché in
loro non mancava nulla della "pienezza" di Gesù
Cristo, perché, battezzati, vivevano ormai la sua
vita. "Perfezione" significa infatti "pienezza",
"compiutezza"; l'opera "perfetta di Dio" è la vita di Gesù
offerta sino alla fine, sino alla perfezione secondo
l'originale greco: quando, spirando sulla Croce, il Signore dice: "Tutto è
compiuto, tutto è perfetto". Al giovane "per essere
perfetto" - per non mancare di nulla - "manca una cosa": aprirsi
e svuotarsi, dare tutto quello che ostacola la presenza di Cristo in lui. Manca
vendere quello che lo riempie, per diventare affamato dell'unico pane che
sazia. Manca spogliarsi di tutto, per restare senza difese, un peccatore senza
diritti e opere davanti a Dio, e sperimentare che davvero è un Padre
buono, l'unico; il solo che perdona infinite volte, che non
giudica, non disprezza, che non chiede nulla in cambio del suo amore,
che, per amarci, non esige il nostro
"fare". Manca conoscere il Padre "buono" che
ci ha creati nella sua "bontà" come la sua creatura più
"buona". Al giovane, come ai nostri figli, e spesso anche a
noi, manca la conoscenza intima del Padre, al punto che la sua
"bontà" si rifletta in ciascuno, creato a sua immagine e somiglianza.
Ai giovani, per avere la vita eterna, per essere felici, per essere
perfetti manca proprio il "tesoro nel Cielo", manca il Padre! Il
giovane se va triste perché ha preferito restare orfano. Come tante volte
accade anche a noi, e ai nostri figli. Il giovane è triste perché
ha scelto di continuare a servire il patrigno, o meglio, l'aguzzino:
"seguendo Gesù" sul cammino della conversione e della libertà, dove
"vendere ogni bene per darlo ai poveri", avrebbe sperimentato di
avere un tesoro in Cielo, di non essere orfano ma figlio nel Figlio dell'unico
Padre buono. Seguire Gesù non significa dover abbandonare stoicamente i propri
beni, ma aver incontrato il Figlio che è immagine e somiglianza
"perfetta" del Padre, l'unico "buono" che dà la Vita
eterna, il "bene" assoluto. Ovvio che per seguirlo è necessario prima
tagliare le catene che legano agli idoli: ma non si tratta di un moralismo o
dell'eroismo di chi si illude di aver optato per Gesù. E'
invece opera del potere infinito della sua Parola che chiama a seguirlo. Ecco
dunque "che cosa fare": camminare nella Chiesa, ascoltare anche
oggi Gesù, accogliere nel cuore la sua chiamata d'amore, e lasciare
che Lui operi in noi la volontà "buona" del Padre
"buono". E questo siamo chiamati a trasmettere ai
"giovani": ad abbandonarsi all'amore di Dio, a mettere la propria
vita completamente nelle sue mani, come un foglio in bianco sul quale Egli
possa scrivere la sua volontà d'amore, attraverso la Chiesa, in un serio
cammino di conversione. Spesso, nelle indecisioni, si cela l'idolatria
della propria volontà e dei propri criteri. I giovani non sanno cosa
fare perché difendono ciò che vorrebbero fare e che non riescono a fare. Per
questo Gesù e la sua Chiesa, i pastori con i catechisti e i genitori,
annunciano alle nuove generazioni che c'è un solo cammino alla vita eterna,
quello dell'autentica libertà: essa si sperimenta solo
"seguendo" Gesù, "vendendo" ogni giorno "quello che si
possiede", le persone e le cose, i progetti e i criteri, soprattutto la
propria volontà, per "darlo ai poveri"; ciò significa convertirsi,
ovvero non vivere più per se stessi "possedendo", ma per gli altri
"offrendosi". Faranno allora la stessa esperienza di Pietro,
adulti nella fede e nella loro umanità: come lui, infatti, quando erano
"giovani" andavano dove volevano, facendo quello che la carne
desiderava; ma ora, anziani perché adulti nell'esperienza
dell'amore di Dio, possono tendere le loro mani, a scuola, nel lavoro,
nelle relazioni, e andare dove non vorrebbero, offrendo la propria vita
gratuitamente. Non saranno allora più in crisi per non sapere che cosa
fare, perché stretti nel dover fare solo quello che la libido e la concupiscenza
desidera, senza essere mai soddisfatti; al contrario, saranno felici perché
liberi di studiare quando non vorrebbero, sposarsi anche se la paura li
schianta, accettare un lavoro noioso e senza soddisfazione. Cogliamo
dunque ogni attimo per "vendere tutto" e avere dentro di noi la Vita
eterna, perché questo è "ottenerla", ereditarla: non solo dopo la
morte, ma oggi! Un cristiano ha la vita di Cristo dentro, perché ha tolto tutto
quello che le impediva di farsi largo nel cuore, nella mente, nello sguardo,
nei gesti, nelle parole. Chi ha la sua vita, ama in ogni "attimo" che
non sfugge più, ma è per l'eternità".
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MARTEDI' 29 AGOSTO MARTIRIO DI SAN
GIOVANNI BATTISTA
https://youtu.be/RdgVIZ6fsQk
PERDERE TUTTO PER LA VERITA'
Sì, si può perdere la testa per
Gesù. La verità, quella che ci fa liberi, quella che non è barattabile, la
nemica dei falsi compromessi volti a salvare la pelle, fa perdere la testa. Ci
sono sempre tagliatori di teste in cerca di poveri profeti disarmati che
annunciano senza posa la verità. E la verità, normalmente è scomoda. Ne
sappiamo qualcosa anche noi, quando qualcuno osa rimproverarci, evidenziarci un
errore, un peccato. Per la Bibbia correggere un saggio è renderlo ancora più
saggio. Correggere uno stolto invece, significa attirarne le ire. Facciamo due
conti e vediamo da che parte stiamo. Probabilmente da quella dei tagliatori di
teste, degli stolti, come Nabal, letteralmente, «colui al quale non si può dire
nulla». Uno stolto, uno che per tacitare la verità e potersi rimirare
tranquillo allo specchio, non esita a ghigliottinare il profeta. Il
Vangelo di oggi ci chiama a conversione, a guardare senza sconti la nostra
vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle
quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare,
voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell'amicizia che ci
insinua calunnie sugli altri, quell'affetto troppo corposo, che ha
già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al
tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che
vorremmo capace di essiccare il peccato; quell'adulazione che risuona nelle
nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno
più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. La verità che la Chiesa ci
annuncia ci fa liberi, smaschera il serpente antico e le sue menzogne che ci
tengono schiavi, e apre la strada al liberatore, il Signore Gesù, la Verità
incarnata per la nostra salvezza. "Non ti è lecito" gridava
Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per
essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non
si addice all'uomo, genera la morte, sempre. Erode si era infilato in una
strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell'egoismo.
Una vita infelice: "Se uno prende la moglie del fratello è una impurità,
egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli" (cfr. Lv.
18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto
della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più
disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno
di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una
vita in fumo. Come è accaduto a Davide che, alla vista della bellezza
di Betsabea, chiude in prigione ragione e fede, si lascia
trascinare dai vortici della passione, e macchina piani e menzogne per dar
corpo agli sconvolgimenti dell'istinto ormai senza freno. Morirà Uria, ucciso
dalla malizia di Davide. E morirà il bambino nato dalla passione, perché ogni
pensiero e ogni azione che non siano ispirate da Dio attraverso la ragione
illuminata dalla fede sono senza frutto. Erode «ascoltava perplesso»,
vigilava, temeva. Ma non era sufficiente. Aveva ormai consegnato il cuore a
Erodiade. Al contrario di Davide, peccatore, fragile, ma, inspiegabilmente per
chi legge le cose solo carnalmente, proprio lui è il campione dell'uomo
secondo il cuore di Dio. Il punto è tutto qui. Un cuore radicato in Dio,
anche se cade, è capace di contrizione e di umiltà. Anche se la mareggiata
della passione ne ha sconvolto gli equilibri, può tornare ad aggrapparsi
all'àncora che non ha smesso di legarlo misteriosamente a sé. Erode
invece ha scelto il peccato, lo ha scelto nel fondo del suo intimo,
laddove l'uomo è completamente libero e si giocano le sue sorti; Erode ha
reciso la fune che lo legava all'àncora e la tempesta ha rotto,
inesorabilmente, gli ormeggi. Lo si comprende al «momento propizio», che può
essere quello in cui il Signore scuote la coscienza intorpidita, ma anche
quello in cui il demonio sferra l’attacco decisivo. Per Davide il «kairos»
è giunto con il profeta Natan, le cui parole dissolvono la menzogna e lo
conducono al pentimento: «ho peccato» risponde, senza accampare scuse; così,
nel riconoscersi peccatore, Davide accetterà, umilmente, le sofferenze che ne
conseguono. Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato
l'anima, lo trascina nell'abisso, perché l'accendersi di una passione spalanca
sempre il passo a peccati più gravi. Per questo l'episodio di Erode ci
invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a
rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei
profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da
Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano
quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli,
svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di
ereditare il Cielo. La correzione, certo, quando arriva fa male, perché
graffia l’orgoglio che ci vorrebbe impenitenti, ma poi reca il bene immenso
della libertà. Accettiamo la correzione, per divenire liberi come Giovanni,
senza paura e lontani dai compromessi, dalle ipocrisie e dai ricatti, sino
a perdere la testa, cioè oltrepassando "il lecito" della
ragione strozzata dalla ricerca del proprio tornaconto; così mostreremo al
mondo che non è lecito chiudersi in ciò che è lecito per assecondare la
carne, mentre è lecito perché secondo Dio e per il bene dell'uomo,
abbandonare schemi e criteri che appesantiscono mente e cuore nell'egoismo, per
uscire da se stessi e donarsi senza riserve.
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MERCOLEDI' 30 AGOSTO (XXI SETTIMANA DEL
TO)
https://youtu.be/jiqH9jRtdJ8
SEPOLCRI IMBIANCATI TRASFORMATI IN SANTI
SEPOLCRI
Secondo la Torah, che etimologicamente
esprime il concetto di "mostrare" una condotta di vita, la
"santità" è il principio e il germe di ogni comportamento:
"Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo". Al principio
di ogni agire morale vi è l'Alleanza con la quale Dio ha accolto Israele nella
sua "santità" ("l'agire segue l'essere" afferma San
Tommaso d'Aquino). Per questo esso è un popolo diverso da tutti gli altri, è
"santo", "separato" dalle Nazioni e dai loro costumi civili
e religiosi. E guarda caso, "fariseo" significa proprio
"separato". Allora, con i suoi "guai" Gesù sta dicendo ai
farisei e agli scribi che erano un gruppo colto all'interno di essi:
"Siate voi stessi! Siate santi, siate farisei, siate quello che dite e
mostrate di essere!". Ma dice "guai" come in un lamento funebre,
pieno di commozione e compassione di fronte alla morte della loro elezione!
Così si comprende meglio perché Gesù li paragona a dei "sepolcri
imbiancati". Questa definizione allude all'usanza di cospargere di
calce, un mese prima della Pasqua, i sepolcri di Gerusalemme più vicini alle
strade perché non diventassero occasione di contatto involontario per quanti si
recavano in pellegrinaggio nella Città Santa; calpestandoli, infatti, sarebbero
diventati ritualmente impuri per sette giorni, con la conseguenza di non poter
avvicinarsi al Tempio. La "giustizia" che "appare davanti alla
gente" è, agli occhi di Gesù, come la "calce" che segnala il
pericolo di contrarre l'impurità. La "bellezza" di una vita apparentemente
pia può dunque essere il segno di "anomia", ovvero di iniquità, che
significa "senza legge". Ecco il cuore delle parole di Gesù:
"Guai a voi ipocriti" perché indossate la maschera della
"giustizia" - "sedeq" in ebraico, che nel linguaggio
biblico significa rettitudine morale, conformità alla volontà di Dio,
"essere amico di Dio" - illudendovi che questo basti per essere
"farisei e scribi"; "guai a voi" perché proprio questo
vostro apparire è il segno che siete morti, perché "dentro siete pieni di
ipocrisia e di iniquità". Non a caso Gesù dice che essi
"assomigliano" a dei sepolcri; "separati" dal mondo
dovrebbero essere nel mondo "immagine e somiglianza" del Dio
"separato", invece "assomigliano" a quanto è da Lui più
distante, la morte. Gesù dunque, definendo "sepolcri imbiancati"
quei farisei e quegli scribi sta mettendo in guardia tutti dalla loro
ipocrisia, a non farci attirare e sedurre dalla falsa bellezza di una vita
apparentemente giusta, perché finiremmo con il calpestare quei "sepolcri
imbiancati" che ci renderebbero impuri. Attenti all'ipocrisia ci dice oggi
il Signore, perché per quanto ci si sforzi per apparire
"giusti", se non si è "santi" ogni atteggiamento, parola,
pensiero è uno "scandalo" sul cammino verso il compimento della
nostra vita. Gesù ci chiama di nuovo a sé, a restare uniti a Lui per non
entrare in contatto con il peccato e la morte che sono l'impurità che ci
impedisce di vivere la nostra vita come una liturgia, rendendo vano il nostro
pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste. Ma è pur vero che Tutti
abbiamo un "esterno bello a vedersi" così come abbiamo un
"interno" pieno di "ossa di morti e di ogni
putridume". Siamo purtroppo convinti d'essere a posto, a parte certo
qualche peccatuccio, che so', una bugia, una parolaccia, ma furti, imbrogli,
omicidi, scherziamo? Siamo così "correct" che non perdiamo
occasione per onorare la memoria dei "profeti", sottolineando come
noi mai e poi mai li avremmo uccisi. Noi siamo diversi! Gli altri invece,
sempre loro, quelli del passato come quelli del futuro, ne hanno fatte e ne
fanno di tutti i colori. Noi preghiamo, curiamo le tombe, ci sforziamo, non
come l'inquilino di fronte, o come mia cognata che "Dio come tratta mio
fratello"... E così "colmiamo la misura" dei peccati, proprio
dentro a quell'indignazione così trendy, così cool e così perversa... Ma
poi - ed è l'amore indomito del Signore - avvengono fatti apparentemente
insignificanti che ci scuotono come in un attacco epilettico. Allora investiamo
i figli con lo tsunami della nostra ira, assaliamo il coniuge coprendolo con
ingiurie tra le più turpi, e tutto il candore ipocrita se ne va a carte e
quarantotto tra un eccesso di ira e fughe alienanti. La nostra
"giustizia" identica a quella "iniqua" dei "sepolcri imbiancati".
Ti stupisci allora perché tuo figlio sia diventato "impuro" e sia
scappato dalla Chiesa? Si è contaminato con la tua tomba fratello! E così tua
moglie e tuo marito, come anche tanti pagani che si avvicinano a te sedotti
dalla tua ipocrisia... Sì, perché il problema di ogni uomo è
l'ipocrisia, non l'iniquità; la menzogna e non il putridume. I peccati Dio
li perdona, ma l'ipocrisia impedisce a Cristo di avvicinarsi al sepolcro e di
entrarvi. E' la corazza nella quale ci infiliamo per difenderci dalla verità,
gelosi come siamo della tomba nella quale l'inganno del demonio ci ha fatto
scendere. E' così? Accettalo e coraggio! Un "tribunale iniquo",
composto proprio da quei "sepolcri imbiancati" ha giudicato Cristo, e
lo ha condannato! A che cosa? A morte, per scendere così proprio nei loro
sepolcri! Lo ha condannato anche la tua ipocrisia vero? Ma il Signore si è
fatto condannare da te proprio per scendere anche oggi a prenderti per
mano e farti risorgere nella vita nuova e "santa" in virtù della
quale puoi camminare nella "giustizia" autentica. Il suo
sepolcro è il nostro, e lì dentro Lui ha vinto davvero la morte! Sì,
Lui ha, oggi, il potere di strappare dalla tomba il nostro matrimonio, e di
donargli una vita "santa" che nella "giustizia" che compie
la volontà di Dio è immortale, più forte cioè del peccato. Lui può fare del
nostro matrimonio un segno così potente da attirare tutti a contemplare in esso
la "vittoria" e l'"innocenza" di Dio fatte carne in noi,
poveri e deboli peccatori. . Lui può trasformare un sepolcro imbiancato in
una tomba vuota avvolta di luce pasquale, la tua vita come il Santo
Sepolcro di Gerusalemme, il luogo più "santo" della terra: un
sepolcro che per il mondo dice morte, ma che in Cristo afferma la
"santità" di Dio, che cioè la morte non ha avuto potere su chi vi è
stato deposto, perché Dio lo ha "separato" da essa in virtù del suo
amore.
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GIOVEDI' 31 AGOSTO (XXI SETTIMANA DEL
TO)
https://youtu.be/0HhUbQBYauU
DESTATI DALL'AMORE PER NASCERE OGNI GIORNO
NELLA VITA NUOVA CHE CI CONSEGNA AL FRATELLO
"Vegliare, stare pronti": con la
parabola di oggi il Signore ci svela quale sia l"agire" dei
cristiani, il loro atteggiamento fondamentale nella vita. Che
significa? Non dormire? Non proprio, visto che nella parabola delle dieci
vergini si addormentano tutte. E' qualcosa di più profondo, e dobbiamo andare
al Cantico dei Cantici: "Quando dormivo ma il mio cuore
vegliava". Ecco, la Chiesa è l'amata che attende l'Amato. "Vegliare"
è attendere il Signore, istante dopo istante. Il "cuore"
che "veglia", infatti, è un cuore innamorato. E' l'intimo di
chi ha conosciuto l'amore di Cristo che guarda sempre la sua amata come
"la sua perfetta", anche se è un cumulo di difetti e peccati. E lì,
nel cuore, decide il bene, desidera compiere la volontà di Dio, per questo
"veglia" in attesa dell'occasione per unirsi a Lui; è sempre
"pronto" a salire sulla Croce che la storia gli presenta, perché vi
riconosce il letto d'amore dove consumare le nozze con lo Sposo. Chi
"agisce così" nel cuore è un "servo prudente e fidato"
perché non ha altro pensiero che Cristo, il "suo
Signore". M Tutto questo significa lasciare che il Mistero
Pasquale del Signore giunga di nuovo a noi attraverso la Chiesa; ascoltare
questa Parola come una Buona Notizia che mi riguarda, accogliendola nel cuore
perché abbia il potere di compiere ciò che annuncia; accostarci ai sacramenti
che realizzano in noi il Mistero che trasforma la "notte" di morte in
un'alba di luce che non muore, che fa di un "figlio delle tenebre"
oppresso dal sonno del cuore, un "figlio della luce" innamorato dello
Sposo che attende con perseveranza. Fratelli, la "notte" nella quale
stiamo vivendo è la "notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al
cielo e l’uomo al suo creatore" sulla Croce gloriosa del suo Figlio
diletto. E' la "notte" che ci desta dal sonno della morte e ci fa
"beati", perché il Vangelo oggi ci dice che la
"beatitudine" consiste nel "vegliare",
"agendo" con "prudenza e fedeltà", cioè con sapienza e
amore, adempiendo l'"incarico" che è stato affidato. Allora,
accogliamo oggi Cristo, lo Sposo che per noi si è fatto "servo fedele
e prudente" "spogliando se stesso, assumendo la condizione di servo e
divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha
esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome... e
ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Kyrios, il Signore, a gloria di Dio
Padre". "Servo" e "Signore" sono proprio i due
termini che appaiono nel Vangelo di oggi: chi ha sperimentato l'amore sino alla
fine del "Servo" che, chinandosi sin dentro la propria "notte"
lo ha innalzato con Lui nella sua Signoria, seguirà nella sua vita le sue orme.
Sarà cioè un "servo" che "obbedirà" ed entrerà
"umilmente" nella "morte di croce" che la storia gli
presenterà. Così, e solo così, anche noi parteciperemo della Signoria di
Cristo, saremo cioè "kyrios", "signori" che hanno in sè il
potere di consegnare la propria vita come "cibo".
Fratelli, la vita ci è data come un "incarico" d'amore con
il quale dare pienezza e compimento al tempo. Ci hai mai pensato? L'amore
è un incarico che si realizza distendendo le braccia sulla Croce; solo così
potremo unirci al "Servo", accogliere in noi la sua vita, e così,
risorti, siamo "messi a capo dei domestici del Signore per dare
loro il cibo a suo tempo", esattamente come è accaduto, guarda caso sul
far della notte, quando Gesù ha moltiplicato i pani e i pesci. L'amore ci
trasforma in "servi" che "moltiplicano" l'amore riversato
in loro perché divenga "cibo" da dare ai "domestici", cioè
alle persone affidate a ciascuno di noi. C'è un "tempo" favorevole
per donare se stessi, un "kairos" che solo un cuore innamorato sa
discernere, perché l'amore è riversato in esso per mezzo dello Spirito
Santo che fiuta nelle persone e negli eventi il profumo di
Cristo. Per questo Gesù dice che tornerà "quando meno ce lo
aspettiamo": è tipico dello Sposo che vuole accendere, far crescere e
tenere vivo in noi l'amore. Il "cuore" della sposa, infatti,
"veglia" anche "mentre dorme". Per divenire "servi
prudenti e fedeli" dobbiamo camminare dietro a Cristo come la Sposa del Cantico
dei Cantici: imparare a udire il "Diletto che bussa", che "mette
la mano nel chiavistello della porta" del nostro cuore; sentire
"palpitare le viscere", la sede dell'angoscia e della compassione, e
"alzarsi per aprire all'Amato" e sentire le "mani impregnarsi di
mirra", quella di prima qualità con la quale fu unto il corpo di Gesù; sì,
dobbiamo sperimentare il suo amore crocifisso per noi sino a che esso fluisca
sulle nostre mani schiudendole ai chiodi che la storia ci prepara. Dobbiamo
crescere nella fede fratelli, e si cresce solo camminando sulle orme
dell'Amato, sino ad "incontrarlo e a non lasciarlo mai" più nelle
nozze eterne con Lui. E' il destino che ci attende in Cielo e che cominciamo a
pregustare sulla terra, ovvero la "beatitudine" celeste
dell'"amministratore di tutti i suoi beni", partecipando cioè della
sua vita immortale.
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VENERDI' 1 SETTEMBRE (XXI SETTIMANA DEL
TEMPO ORDINARIO)
https://youtu.be/BGoZUpQRJbY
APPROFITTANDO DI OGNI OCCASIONE PER
ACCOGLIERE IL SIGNORE E AMARLO NEI FRATELLI
Il cristianesimo è una cosa seria, non è
sentimentalismo e amore sdolcinato. E' una missione, e chi è chiamato ad essere
cristiano, deve sapere che diventarlo significa essere trasformati in sale,
luce e lievito del mondo, offrendo se stesso per salvezza di ogni uomo. Le
"dieci vergini" erano delle damigelle di onore allo sposo
che, secondo la tradizione ebraica, dovevano accompagnare alla casa della sposa
e da qui alla sala del banchetto. Loro compito era tenere accese le lampade nel
momento in cui lo Sposo tornava dalle spesso lunghe trattative
pre-matrimoniali, e per questo avevano anche un "piccolo
vaso" che conteneva l'olio di riserva. Esse rappresentano i
chiamati ad essere cristiani ai quali è stata donata la primogenitura:
i cristiani sono chiamati a fare da corona allo Sposo quando tornerà, a sedere
sui troni accanto a Lui e a giudicare le Nazioni. Essi sono promessi
a un unico sposo, per essere presentati quali vergini caste a
Cristo (cfr. 2 Cor. 11,2). E San Paolo sta parlando del battesimo. Durante
la "Veglia" Pasquale, dopo essere scesi nel fonte battesimale e aver
ricevuto l'unzione con l'olio crismale (la cresima), colmi dello Spirito Santo
i neofiti attendevano lo Sposo per entrare con Lui al banchetto.
Erano "vergini", cioè rinnovati e senza peccato originale, e
"nei piccoli vasi" avevano l'olio dello Spirito Santo che aveva
compiuto in loro segni e prodigi durante l'iniziazione cristiana conducendoli
alla statura adulta della fede. Avevano "vigilato" e ora, con i loro
piccoli vasi colmi del crisma, erano pronti ad accendere le
"fiaccole" con la luce delle opere sante e soprannaturali che
rivelavano in essi la nuova natura ricevuta. E proprio nel cuore della
notte di Pasqua, un grido li destava: "ecco lo sposo!", è risorto,
"andategli incontro". Allora essi si alzavano dal sonno, andavano ad
accogliere il Signore che li conduceva con Lui al banchetto dell'Eucarestia,
culmine e fonte della liturgia. Anche per noi, la chiamata che abbiamo
accolto nelle diverse circostanze, ha inaugurato un cammino attraverso la
storia reale e concreta di ciascuno per giungere alla maturità della
fede. Tutto si costruisce passo dopo passo, attraverso la fedeltà nelle
piccole cose: "afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per
compiere azioni ordinarie in modo straordinario" (Card. Van Thuan). La
saggezza è questa fedeltà paziente e semplice; la stoltezza è la superficialità
che disprezza il sacrificio quotidiano aspettando il grande slancio, le
emozioni forti. La "sapienza" è l'umiltà fondata nella verità. La
"stoltezza" è la superbia radicata nella menzogna. I
"piccoli vasi" indicano le orme che precedono i nostri passi:
essi sono immagine delle piccole occasioni che Dio ci offre
nella nostra storia; è in esse che occorre essere fedeli, pronti, colmi di olio.
Per questo la vera saggezza è procurarsi l'olio dello Spirito Santo, rinnovare
ad ogni evento della vita l'Alleanza che ci fa primogeniti. Ci si può
addormentare, siamo deboli, ma è proprio nella debolezza che si manifesta la
potenza di Dio. Per questo il ritardo del Signore è fecondo, perché in
esso si cela il suo mistero di Pasqua, di vita che distrugge la morte. Gli
stessi verbi utilizzati da Matteo rimandano a questo significato: le
vergini si "destano" come il Signore si "desta" dalla morte!
Il ritardo è l'occasione per crescere nell'amore, per prepararsi all'incontro
con lo Sposo, per assomigliare a Lui in tutto. Così ogni ritardo nella nostra
vita, quello della moglie nello stirare la camicia e del marito nel comprendere
le esigenze della sposa, quello dei figli nell'obbedire e dei genitori
nell'ascoltare i figli, quello del corpo che non ce la fa a guarire, quello del
datore di lavoro nel promuoverci o nel darci le ferie o lo stipendio; tutto
ciò che ritarda il compimento dei nostri desideri e delle nostre speranze
costituisce l'occasione per vivere come primogeniti che hanno i nomi iscritti
nei cieli, pronti al sacrificio, a crocifiggere la propria carne con le sue
passioni, e a vivere la vita nuova secondo lo Spirito. Essere
"vigilanti" è, secondo il grande esegeta H. Schlier, essere sobrii,
che "significa vedere e prendere le cose così come esse
sono». Prenderle anche quando richiedono un sacrificio, che è
l'unico polo capace di attrarre l'attesa e tenerla desta orientandola verso la
bellezza. Tutto quello che ci è dato di vivere è un'occasione per crescere
e prepararsi all'ultima opportunità, quella che ci attende sulla soglia del
banchetto escatologico. Solo gli stolti si lasciano scappare i kairos pieni di
amore, i fatti e le persone che Dio ci invia ogni giorno perché siano vissuti
cristianamente, intrisi cioè nell'unzione del Crisma profetico,
sacerdotale e regale. In tutto come profeti del Cielo, re della carne
e dei suoi desideri, sacerdoti che intercedono per ogni uomo. Le vergini
stolte sono, infatti, immagine di chi non persevera nelle opere di Cristo,
preferendo, per sciatteria e superficialità, le proprie. Dormono ma il
loro cuore non veglia. Ogni relazione, ogni esperienza è per loro come
quella di un corpo addormentato dopo un'ubriacatura, preda di sogni e passioni,
ma incapace di cogliere la realtà nella sua essenza. Sono stolte perché
nemmeno si rendono conto di essere state chiamate ad accompagnare lo Sposo, ad
esserne le damigelle d'onore; hanno dimenticato l'abito nuziale, l'olio per
le lampade, la primogenitura: sono stolte perché senza memoria. La
stoltezza è negare la Croce, ed è sempre opera dell'anticristo che nega
l'incarnazione, le piccole occasioni dove incontrare il Signore. Ma,
alla resa dei conti, la stoltezza si rivela per quello che è: zizzania
cresciuta accanto al grano, buona solo per essere gettata fuori. Si
muore come si è vissuti: benedicendo per chi ha benedetto; amando per chi ha
amato. Per questo, come alla fine della vita, anche ogni giorno occorre
pensare seriamente e saggiamente a se stessi. Vi sono cose che nessuno potrà
mai fare per noi. Non è possibile distribuire l'olio destinato a ciascuno,
perché non ne venga a mancare a tutti. Si può amare, pregare, offrire la
propria vita, ma l'olio dello Spirito Santo capace di far compiere le opere per
le quali siamo predestinati, quello è dono esclusivo di Dio. A Lui
bisogna chiederlo al tempo opportuno. Vi è sempre un ordine
fondamentale, perduto il quale si inciampa e ci si perde: una madre
non può trascurare il proprio rapporto con il Signore per tentare di aiutare
suo figlio. Sarebbe assorbita dalle stesse sabbie mobili. Per questo l'amore
autentico agli altri sorge da un'intimità profonda con il Signore: spesso
è meglio parlare a Dio delle persone che alle persone di Dio. La
libertà è la firma di Dio nella vita di ciascuno e spesso ci procura
dolore; la stoltezza di un figlio, di un amico, di una persona cara ci spezza
il cuore, ma non possiamo sostituirci a lui. L'unico che è morto al posto di
ciascuno di noi è Cristo! Amare autenticamente, saggiamente, è dunque curare il
nostro cuore, tenerlo desto, ricevere e custodire lo Spirito Santo perché in
noi ogni stolto possa incontrare Lui, e, se ancora in tempo, accogliere il suo
amore.
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SABATO 2 SETTEMBRE (XXI SETTIMANA DEL
TO)
https://youtu.be/v3sX99u6Quc
ACCOGLIERE IL POTERE DI CRISTO CHE CI FA
SERVI
L'inizio della parabola descrive, in una
profezia, il cuore della missione di Gesù e della sua Chiesa: "consegnando
i suoi beni", l' "uomo", immagine di Gesù, "consegna"
tutto se stesso. Ma quest' "uomo" è anche immagine di ogni uomo,
creato da Dio a immagine del Figlio, perché si "consegni" senza
riserve. Dopo aver compiuto il suo Esodo dalla morte alla Vita, Egli
chiama gli apostoli "che si era scelti nello Spirito Santo" e
impartisce loro le istruzioni sulla missione svelando i segreti del
Regno. A Gesù che sta per partire, è stato dato ogni potere in cielo e in
terra: consegnando i “talenti” Egli dice agli apostoli: "Andate dunque e
ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho
comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo"
(Mt. 28, 18-20). I "talenti" sono dunque colmi del potere stesso di
Cristo. Comprendiamo allora l'incipit della parabola, che è poi quello
della nostra vita, come lo è stato di quella del Signore: l'amore smisurato
spinge il Padre a consegnare il Figlio al posto nostro, e il Figlio a
consegnarsi al Padre. Il frutto di questo amore intimo e perfetto, è la
consegna dei beni di Dio alla Chiesa, a ciascuno di noi, perché siano
consegnati ad ogni uomo. E il bene più grande di Dio è il Figlio stesso. E' Lui
il talento prezioso che i servi ricevono. "Come il Padre ha mandato
me anche io mando voi", perché "come il Padre ha amato me, anche io
ho amato voi". Il "come" è descritto nel diverso numero dei
talenti che ricevono i servi. Non si tratta di qualità umane diverse, ma delle
varie grazie donate in funzione della missione specifica che ciascuno
riceve. Se il talento è Cristo, consegnato attraverso la sua Parola, i sacramenti
e tutti i beni che la Chiesa ha sempre custodito e amato, anche chi riceve un
solo talento non ha affatto ricevuto meno. Al contrario, ha ricevuto tutto, e
nulla manca per compiere la sua missione. Significa che la storia di
ciascuno è diversa e irripetibile; agli occhi di Dio la vita di San Francesco
Saverio non è più importante di quella di una sconosciuta monaca di clausura
nascosta a Lisieux. Il Papa riceve i talenti necessari per adempiere alla sua
missione, così come la vedova ammalata che vive in uno sperduto paese di
montagna. E noi, che ne abbiamo fatto dei “talenti” che Dio ci dona? Qui
sorge una prima questione, fondamentale: per riceverli abbiamo bisogno della
Chiesa. Per consegnarli, infatti, “l’uomo chiama i suoi servi”: c’è una chiamata
alla quale occorre rispondere. Abbiamo ascoltato l’annuncio della Chiesa e
accolto in esso la voce del Signore che ci “chiama”? Altrimenti è inutile
cercare i talenti, di fronte alle situazioni della vita nelle quali potremmo
“farli fruttare”, non avremo nulla da “consegnare”. Ma, anche se abbiamo
accolto la “chiamata” ciò non assicura i “frutti”. I “talenti” dei quali parla
Gesù non appaiono così, all’improvviso, ma essendo dati in funzione di una
missione, si accolgono nella comunione della Chiesa, dove si impara a
“trafficarli”. Nei momenti di dolore e precarietà, lungi dall'essere
duro ed esigente, Dio rivela il suo volto pieno di generosità e misericordia:
proprio nella durezza della vita - che esiste a causa del peccato - Dio
elargisce gratuitamente il suo potere. Per questo, quando ci assalgono i
pensieri tristi che ci gettano nella paura e nell'invidia bisogna correre
"dai banchieri", dagli esperti del “trading”, per imparare da loro, e
perché ci aiutino a trafficare bene quanto ricevuto. Quando ci accorgiamo
di perdere il gusto per la volontà di Dio, avviciniamoci ai presbiteri, ai
catechisti, ai genitori, agli esperti nella fede che Dio ha messo sul nostro
cammino, e affidiamoci a loro. Il Vangelo di oggi rovescia completamente
la prospettiva del servo. E’ una catechesi decisiva nel cammino di fede che
veniva data ai catecumeni perché non perdessero tempo e obbedissero alla
Chiesa, che li invitava a trafficare nel crogiuolo della storia le Grazie e i
beni, anche il denaro, ricevuti da Dio. Per questo, "i servi fedeli
nel poco" che ancora è questa vita terrena, con le occasioni di amare che
ogni giorno ci offre, consegnano al Signore i talenti esattamente raddoppiati:
a ciascun talento corrisponde un evento redento, un uomo salvato. A
ciascun talento, infatti, corrisponde lo Spirito Santo per entrare nella
storia. Anche oggi l'"Uomo" vero, Cristo risorto, si consegna a noi
perché possiamo "trafficare" il suo amore con tutti. Sono loro
"i frutti" già maturi per l’opera di Cristo che attendono il nostro
talento per tornare a Lui.
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DOMENICA 3 SETTEMBRE XXII DEL TEMPO
ORDINARIO. ANNO A
https://youtu.be/7pVc7g41k50 (RELATIVO
AD UN'ALTRA OCCASIONE)
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LUNEDI' 4 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL
TO)
https://youtu.be/L_dJFJPpGQI
GESU' E' IL PROFETA CHE FA DI OGNI
"OGGI" IL COMPIMENTO DELLA VOLONTA' DEL PADRE
Anche
oggi, in questo lunedì che segna per molti il ritorno al lavoro dopo le vacanze
estive, "secondo il suo solito" Gesù si reca alla sinagoga – immagine
della tua vita - come duemila anni fa a Nazaret; ma, come fu quel giorno, oggi
è diverso dal solito. Vi è un momento, infatti, in cui la stessa routine
accoglie una novità imprevista che la trasforma in uno scrigno colmo di Grazie
inaspettate. Perché l'istante nel quale risuona l'annuncio del Vangelo
trasforma quel giorno nel Sabato delle nozze, giorno di festa e felicità. Che
meraviglia, mentre il mondo sfila triste verso i posti di lavoro quasi fosse
deportato in un campo di sterminio, per noi oggi è il giorno più bello che ci
sia, l'"oggi" che inaugura “l’anno di Grazia del Signore”, il
Giubileo nel quale sperimentare il compimento dell'amore del Padre che Gesù
depone nelle nostre ore. Allora, tornare al lavoro non è una condanna a
morte... Come non lo è il ritmo trafelato dei nostri giorni. Fatica certo, e
debolezze e peccati, che però non sono che la buccia del frutto delizioso che è
quest'oggi nel quale il Signore viene a dare compimento al nostro desiderio di
essere amati e di amare. Oggi, infatti, con il suo annuncio, ci prende
così come siamo, “poveri, ciechi, prigionieri e oppressi” per liberarci e farci
cittadini del Cielo. Viene attraverso la Chiesa, con la Parola e i sacramenti,
per farci suoi "compatrioti". La vera Patria di Gesù, infatti, non è
la Nazaret geografica e i "suoi" non sono quelli che vi sono nati:
loro lo hanno rifiutato, come accade a noi quando ascoltiamo le menzogne con
cui il demonio ci convince che nessun medico può guarirci. La Patria di Gesù è
la Croce dischiusa sulla resurrezione, e i suoi compatrioti sono i peccatori
che accolgono il suo amore. Per loro si è fatto peccato, con loro ha condiviso
il destino di morte per trasformarlo in pienezza di vita. E' il mistero celato
in Gesù di Nazaret, il Messia sofferente, il Servo di Yahwè che ci visita nella
carne di chi ci è accanto, negli eventi tristi e difficili che ci attendono.
Ecco perché due pagani, la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, hanno
riconosciuto e accolto Dio nei suoi profeti; l'indigenza e l’umiliazione,
infatti, ne avevano purificato il cuore. Fratelli, oggi potrà vedere e
accogliere il Signore che si fa carne nella storia solo chi ha gli occhi
purificati nel crogiuolo dell’umiliazione. Coraggio allora, perché proprio per
il nostro cuore "vedovo e lebbroso" a causa dei peccati è preparato
quest'oggi nel quale distogliere lo sguardo da noi stessi per ascoltare Gesù e
fissare gli occhi su di Lui che ci accoglie nella sua intimità, un frammento di
Paradiso da vivere in ogni oggi che ci è dato sulla terra.
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MARTEDI'
5 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/2WrW3Qj_nO0
SOLO
LA PAROLA DELLA CROCE CHE CI ANNUNCIA LA CHIESA CI SALVA "SENZA FARCI
ALCUN MALE"
Abbiamo
bisogno dell'"autorità" e del "potere" della Parola di
Gesù. Senza di essa i demoni e i loro inganni non si smascherano, e noi
continuiamo a vivere profondamente insoddisfatti perché obbligati a frustrare
la missione che dà senso alla nostra vita. Certo, ci fanno soffrire molte cose
esterne a noi, ma non sono queste a "rendere impuro" il nostro cuore.
Infatti, nonostante le lotte e gli sforzi, restiamo "impuri",
incapaci cioè di vivere nella gioia e nella benedizione. In Israele la
"purità" era proprio la condizione per celebrare il culto. Gli ebrei
sapevano che il peccato che rende "impuro" è legato alla morte,
entrata nel mondo per invidia del demonio. Scelto e "santificato",
cioè separato dall'impurità del mondo, attraverso la "purezza" di una
vita obbediente alla Torah, Israele era la primizia chiamata a mostrare i
frammenti di quello che l'umanità ha perduto con il peccato. Ma anche Israele è
stato infedele a causa della sua dura cervice sedotta dal demonio, e si trovava
"impuro" nella sinagoga dove avrebbe dovuto celebrare il culto.
Doveva venire il Messia, la cui "parola comandasse con autorità e potenza
agli spiriti immondi". Doveva "discendere" Gesù a Cafarnao, la
città dove giaceva "posseduto da uno spirito impuro" ogni figlio di
Israele; doveva visitare di "sabato" la "sinagoga", il
luogo che sostituiva il tempio per le liturgie settimanali, perché è proprio lì
che satana attira nella sua impurità pervertendo la Parola di Dio. Satana è un
angelo decaduto, conosce le liturgie celesti, figurati quelle celebrate sulla
terra... "Sa chi è" Gesù e ce lo dice proprio mentre ascoltiamo la
Parola e la predicazione, magari nella preghiera, a messa, durante le attività
della parrocchia, presentandoci Gesù come il "santo di Dio”. E cadiamo nel
tranello di una verità avvelenata dalla menzogna, perché il Gesù di satana è un
Messia secondo il pensiero del mondo, un taumaturgo che deve risolvere i
problemi e cambiare la storia. E siccome Gesù non compie la nostra volontà che
ci condurrebbe alla rovina riservata ai superbi, ma la volontà d'amore del
Padre che ci vuole salvi a tutti i costi, cominciamo a mormorare: “se Gesù è il
Figlio di Dio non può permettere questa sofferenza, la deve eliminare e
cambiare la storia e le persone”. Ci ribelliamo e non vogliamo "avere
niente a che fare" con il Messia crocifisso perché il demonio ci ha
convinto che Gesù, piantando la sua Croce nella nostra vita, “venga a
rovinarci”. Per questo "gridiamo forte" prestando la voce al demonio
che "possiede" il nostro cuore, e diciamo “basta!" alla volontà
di Dio. Ma proprio questo grido di ribellione è il segno che Gesù è
"disceso" alla nostra vita e ci sta salvando; attraverso la sua
parola che ascoltiamo nella Chiesa, sta “intimando” al demonio con
"autorità" e "potenza" di “tacere e di uscire da noi”. Gesù
ci sta esorcizzando oggi attraverso la parola della Croce sulla quale ci attira
e dove “si dirige” al demonio: è lui infatti il padre che ci ha generati
all'impurità, sarebbe inutile parlare con noi. Proprio come accade in ogni esorcismo.
E il demonio tace, perché ad ogni suo inganno, la Croce di Gesù oppone la
verità dell'amore infinito di Dio. Coraggio allora, lasciamoci abbracciare da
Cristo crocifisso, perché, al contrario di ciò che pensa il mondo, solo sulla
Croce potremo sperimentare che il suo amore ci salva “senza farci alcun male”.
La Croce, infatti, "getta a terra" il nostro uomo "impuro"
per far nascere in noi l'uomo "puro" che entra nella storia
benedicendo Dio, come un segno del suo amore "in mezzo a tutti".
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MERCOLEDI'
6 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TO)
https://youtu.be/EaVVi6xuDF8
CHINATI
CON CRISTO SU OGNI UOMO IN PREDA ALLA GRANDE FEBBRE DELLA MENZOGNA
Dalla
sinagoga alla casa: dopo aver scacciato il demonio che affligge la comunità, e
averla purificata, Gesù si dirige a casa. Prima dell'intimità vi è la
"bonifica" dell'ambiente. Senza la "sinagoga" - comunità
non vi può essere autentica e profonda guarigione, perché solo in essa i demoni
vengono alla luce per essere scacciati. Nel mondo essi si camuffano e nessuno
li disturba... Per questo i discepoli, forti dell'esperienza vissuta nella
sinagoga, possono pregare “insieme” per la suocera di Simone. La fede, infatti,
non è mai una questione privata. Le fughe intimistiche sono sempre malsane e
precludono qualsiasi guarigione: "non isolatevi, rinchiudendovi in voi
stessi, come se foste già giustificati, ma riunitevi insieme cercando quello
che è di vantaggio per tutti" (Dalla "Lettera" detta di
Barnaba"). Vediamo, quale è l’atteggiamento di fronte al fratello quando è
"in preda a una grande febbre"? Cosa penso, dico e faccio, insieme ai
fratelli di fronte alla sua impossibilità di alzarsi dal letto
"servire"? Mi fermo all'esterno della coppa e comincio a riempirlo di
catechesi e consigli nello stolto tentativo di purificarlo, oppure accompagno
il Signore con una preghiera intrisa di fede perché "si chini" sul
suo cuore malato? Attenzione, perché quando cominciamo a investire l'altro con
moralismi e consigli, significa che abbiamo dimenticato che "ciascuno di
noi è febbricitante. Quando sono colto dall’ira, ho la febbre, e ogni vizio è
una febbre" (San Girolamo). Così, come recita il salmo 41 nell'originale
ebraico, "quando lo visitiamo diciamo il falso" perché "nel
nostro cuore accumuliamo malizia" e "fuori sparliamo" di lui con
"accuse inique"; abbiamo su di lui il pregiudizio mondano che
condanna il peccatore e non il peccato, perché lo riteniamo causa della sua
"febbre". Per questo, con le nostre parole "religiosamente corrette",
in fondo "tramiamo la rovina per il fratello" perché convinti che,
essendo "preda" di "una parola di Belial", "colui che
giace mai si rialzerà". Etimologicamente "Belial" potrebbe
essere reso con "non serve a nulla" (Ravasi). Ed è proprio così,
perché in fondo quello che speriamo è che l'altro ci "serva", e
quando ciò non accade lo cancelliamo. Per questo i nostri atteggiamenti nei
confronti del fratello infermo sono ipocriti, ispirati dal giudizio di condanna
piuttosto che dalla compassione. Gesù, invece, non rivolge una sola parola
alla suocera, ma "intima" alla febbre, come in ogni esorcismo. Lui
"si china" su di lei con amore perché, come dicevano i rabbini,
"la Shekinah (presenza) di Dio si trova sopra la testa del malato";
non la giudica per condannarla perché sa che Dio non l'ha abbandonata, anche se
il demonio l'ha ingannata e la tiene schiava a letto. Non esige nulla come
facciamo stoltamente quando pretendiamo che il fratello infermo faccia cose che
nemmeno noi facciamo. Gesù si umilia per entrare nella sua malattia, si carica
con la sua "febbre" per vincere il demonio che la causa con la sua
parola fatta carne. Così noi siamo chiamati a fare, perché "per questo
siamo nati" in Cristo sperimentando la guarigione nella Chiesa. Solo con
gli occhi della fede che vedono la "presenza" di Dio in tutti,
“chinati” accanto al fratello sino a portare con lui la sua "febbre"
potremo "intimare" alla sua "febbre" nel Nome di Gesù.
Nella libertà dell'amore gratuito siamo "mandati" nel mondo perché
tutti possano "levarsi all'istante", risuscitare e tornare a
"servire". Ma, per non “lasciare parlare i demoni”, cioè per non
cadere nelle trappole affettive e non farci "trattenere" dalla carne
che esige sempre gratitudine, "sul far" di ogni "giorno"
dobbiamo alzarci (risuscitare) nell'intimità con Cristo, ovvero pregare prima
di ogni cosa per non dimenticare il suo amore che ci ha salvato. Ci aspetta,
infatti, ogni giorno “un’altra città”, un’altra persona verso la quale
"uscire": attraverso i modi più diversi, ci porteranno "infermi
colpiti da mali di ogni genere" perché "li conduciamo a Cristo",
l’unico che, "imponendo loro le mani" nella Chiesa, li possa guarire.
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GIOVEDI'
7 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO)
https://youtu.be/fO7b8NWG6tk
PESCATI
DALL'AMORE DI CRISTO PER PESCARE NELL'AMORE OGNI UOMO
Anche oggi Gesù è
"presso" il lago, immagine dei luoghi dove “peschiamo” per vivere e
dove spesso troviamo la morte. Ma bisogno di una "barca" perché
"la folla" gli "fa ressa intorno". Per questo si “leva in piedi”
come “risorgendo” dal sepolcro dell'anonimato della massa, dove il demonio,
sollecitando la paura di essere giudicati e rifiutati, ci spinge
a confondere le nostre cicatrici con quelle degli altri per impedire
così alla salvezza di trovare il destinatario. Nella “folla”,
infatti, il mal comune è mezzo gaudio, perché i peccati perdono i
loro proprietari; indossano la maschera del bene perché nel mondo, “costruiamo
regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Non
esistono peccati ma esistono reati. Quando finisce un’epoca, finisce anche
una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura
per costruirne un’altra” (Scalfari). Ma con la sua resurrezione Cristo ha
inaugurato un’epoca nuova aperta sull’eternità e fondata sull’immutabile Verità
del suo amore: Gesù “si leva in piedi” dalla notte nella quale era sceso
per distruggere la morte che afferra chi costruisce “nuove architetture” perché
confuso nella massa “sballottata qua e là da qualsiasi vento di dottrina”. “Si
leva in piedi” dalla “folla” per "vedere" le barche “ormeggiate alla
sponda” dello sconforto; il suo amore non si lascia afferrare dalla massa, ma
giunge a ciascuno ormai "sceso" dalla barca e arreso al
fallimento. Gesù vuole proprio quelle barche per
“salirvi” e farsi pescatore con quei pescatori, socio del loro
“non aver preso nulla”. Gesù vuole te così come sei, per farsi uno con il tuo
fallimento, e lì, accanto a te, “pregarti di scostarti un poco da terra".
E' il primo passo, frutto dell'iniziativa di Gesù che solo dopo essersi donato
a noi ci chiede di aprirci “un poco” a Lui. Ma quel "poco" è
decisivo: è quando ascoltiamo il Kerygma, lo accogliamo e cominciamo a
camminare nella Chiesa. Solo chi ascolta Gesù che lo “ammaestra” “seduto” nella
comunità, e sperimenta il potere della “sua Parola” può fidarsi
di Lui sino a "gettare" le reti proprio dove aveva fallito. Dove
non sono stato sincero sperimentare di poter dire la verità senza paura; dove
ho peccato nella sessualità, sperimentare la castità; dove ho giudicato,
sperimentare il perdono. E tutto in virtù della Parola di Cristo che ci
annuncia la Chiesa. Lo “stupore” che “prende” chi “pesca una quantità
enorme di pesci” nello stesso mare dove “ha faticato tutta la notte senza
prendere nulla”, illumina poi la verità: “peccare” è fallire, ma non c’è da
“temere”, perché Cristo ha vinto il peccato! La missione, infatti, è
il frutto della rinascita battesimale: “non temere”, entra nelle viscere di
misericordia della Chiesa, e risorgi a vita nuova, perché “d’ora in poi sarai
pescatore di uomini”. Per “diventare pescatori di uomini” dobbiamo cioè
sperimentare in noi la morte dell’uomo vecchio che pesca gli altri per saziare
se stesso e la nascita dell’uomo nuovo che pesca offrendo se stesso per tirarli
fuori dalle acque della morte. L'espressione “pescatore di uomini” nasce
al tempo dell’esilio in Babilonia, quando gli Israeliti erano dispersi, come
ciascuno di noi; Dio era andato a cercarli e pescarli: "Ecco,
io invierò numerosi pescatori che li pescheranno" (Ger.
16,16). Siamo stati "pescati" mentre ci dibattevamo nei
fallimenti ai quali ci avevano consegnato i nostri peccati. Siamo chiamati
con Pietro e la Chiesa ad entrare in ogni giorno come nell’esilio di tanti
figli di Dio dispersi dal demonio. La nostra vita è per loro, gettata da Dio
come una rete di misericordia per riportarli a casa. Ciò significa accorgerci della
loro barca, dando importanza alla loro vita ormeggiata nella massa con le reti
vuote; avvicinarci senza pregiudizi ed entrare nella
barca, farsi tutto a tutti, non temere di sporcarci perché altrimenti ogni
altra parola o gesto saranno inutili. Coraggio, non temere di salire
sulla barca dei perdenti, perché la fede ci fa vedere nel fratello più debole e
corrotto il "pescatore di uomini" che diventerà per il potere del
Vangelo. Solo dopo essere entrati nel suo dolore, partecipando alla sua
delusione e caricando i suoi peccati, potremo chiedere di "scostarsi
un poco da terra" per annunciargli il Vangelo. "Finito di
parlare", quando cioè la Parola ha preparato il terreno mostrando in noi
il suo potere di compiere l'impossibile di un amore che accoglie senza esigere
e giudicare, si potrà chiedere l'impossibile di "prendere il largo"
per inoltrarsi laddove ha fallito per "gettarvi" la propria vita.
Accompagnarlo cioè con l'offerta di noi stessi a "calare le reti" di
nuovo nel mare, perché "sulla Parola di Gesù" resa credibile dalla
testimonianza della Chiesa, quello che aveva prodotto morte ora genererà
vita! Fratelli, che meraviglia incontrare il Signore! La vita cambia
radicalmente, e senza alcuno sforzo. Quando siamo chiamati a gettare via
“tutto”, è per sperimentare che “tutto” di noi è importante, anche i difetti e
addirittura i peccati, perché proprio attraverso di essi possiamo conoscere
l'amore di Dio; e che la sua Parola sa tirare fuori la vita dalla morte, perché
ha il potere di fare delle “reti” con cui avevamo cercato di saziarci con i
peccati in strumenti di salvezza per noi e per gli altri. Dove accade una cosa
del genere? Non certo nella “massa” mondana. Solo nella Chiesa che è scostata
da terra ma a lei legata con amore, sempre pronta a prendere il largo con
Cristo per la salvezza del mondo! Ascoltiamo dunque la predicazione e
obbediamo “prendendo il largo” nella nostra storia, per sperimentare che la
Parola con la quale Gesù ci chiama ha il potere di compiere in noi la missione
che ci affida.
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VENERDI' 8 SETTEMBRE NATIVITA' DELLA
VERGINE MARIA
https://youtu.be/VYxmcpiGOfQ
LA NOSTRA STORIA E' SANTA NELLA STORIA
SANTA DI MARIA
Quando si celebra un compleanno è come
una eucarestia, un rendimento di grazie che sgorga dal memoriale del dono della
vita. Nascere, infatti, nessuno di noi lo ha chiesto, è stato un miracolo
gratuito con il quale Dio ci ha tratto all'esistenza. Tuttavia c'è una storia
che ci precede e ha preparato la nostra nascita. I genitori, e prima ancora i
nonni, e poi i bisnonni, e poi più indietro nel tempo sino a disegnare quello
che si chiama l'albero genealogico. Esso è costituito da un tronco e da rami
che intrecciano storie reali, vite vissute che hanno dischiuso il cammino alla
nostra venuta al mondo. Non siamo frutto del caso, vite gettate alla rinfusa
che galleggiano nell'universo. Anche un atollo che spunta solitario
nell'oceano, nelle profondità invisibili si radica nella terra che lo lega al
continente. Forse non conosciamo i nomi e le vicende dei tanti che ci hanno preceduto,
ma ci sono stati e hanno trasmesso seme e sangue sino a noi. Senza di loro non
ci saremmo. Senza ogni istante della storia che ci ha preceduto non
esisteremmo. Così è stato anche per la Vergine Maria, promessa sposa di
Giuseppe, l'ultimo che incontriamo nella genealogia di Gesù. Tutta la sua
genealogia appare come un lungo e appassionato fidanzamento, la promessa di
sposare l'umanità peccatrice e adultera nella fedeltà e nell'amore che Dio
stesso le ha donato nel tempo preparandone il compimento in ogni generazione.
La storia della salvezza, la nostra storia sino ad oggi, è la "promessa
sposa" in attesa la pienezza dei tempi per celebrare le nozze con il
Creatore. Anche se nella nostra genealogia ci fossero dei camorristi, e
fallimenti, violenze e scandali, non importa, perché "Dio ha scelto ciò
che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le
cose che sono". Non sono i peccati di chi ci ha preceduto a condizionare
negativamente le nostre storie, neanche quelli dei nostri genitori, come ci
hanno insegnato i falsi maestri. Ciò che ferisce la nostra vita sono i nostri
peccati, con i quali abbiamo risposto liberamente alle vicende della vita; ci
siamo ribellati, abbiamo odiato tentando di farci giustizia e prenderci quello che
pensavamo ci fosse stato tolto. La nostra genealogia, invece, intessuta con i
peccati nei quali ogni madre ci ha concepito generazione dopo generazione, è il
grembo benedetto nel quale Dio ha gestato la sua promessa di matrimonio. Perché
così è stato anche per Gesù: senza la sua concreta genealogia di peccatori e
pagani come la nostra non sarebbe venuto al mondo e non ci avrebbe salvato.
Sino alla pienezza dei tempi, per la quale aveva preparato l’unica Madre
Immacolata per accogliere "l'unigenito Figlio di Dio” che nel suo grembo
“assunse la nostra natura, affinché, fatto uomo, facesse gli uomini dei"
(S. Tommaso d'Aquino). Nella Chiesa, infatti, si attualizza per
me ciò che accadde nel suo seno quando ascoltò e credette alle parole
dell'Arcangelo Gabriele: il vero Dio si fece carne per diventare vero uomo.
Quando la Chiesa annuncia il Vangelo, lo Spirito Santo depone in chi ascolta e
accoglie la predicazione il seme della vita divina che si unisce alla carne per
fare di lui un figlio di Dio. Il compimento della nostra vita, infatti, dipende
dall'accordarsi in noi delle due nature di Cristo delle quali anche noi siamo
chiamati ad essere partecipi. Saremo felici solo quando apparirà nella carne
l’amore soprannaturale che ci sospinge a donarci a tutti oltre i limiti che
essa impone. Per questo non basta nascere, occorre rinascere nelle viscere di
misericordia della Chiesa! Celebriamo allora la Natività di Maria con gioia e
gratitudine, perché è il giorno in cui anche la nostra genealogia ha trovato il
suo compimento nella misericordia: Maria, infatti, è nata per accogliere Gesù,
Colui che, sulla Croce del suo amore, ci avrebbe accolti e consegnati a Lei
perché in Lei giungesse a tutti noi il Mistero Pasquale con il quale realizzava
la nostra salvezza. Per questo Maria è nata per accogliere anche noi nel suo
seno benedetto che è la comunità cristiana, dove, come una madre, la Chiesa ci
ha accolto e ci accoglie senza pretese e pregiudizi; ci ha nutriti e ci nutre
gestandoci alla fede adulta perché si diano in noi i frutti del Battesimo nel
quale siamo rinati. Con il compleanno di Maria celebriamo dunque anche quello
del nostro uomo nuovo; quale miglior regalo potremmo fare oggi a nostra Madre
che lo stesso che le fece Giuseppe prima e Giovanni poi: accoglierla con noi
senza timore per consegnarci a Lei senza riserve. Accogliere cioè docilmente
l’opera che attraverso di Lei lo Spirito Santo vuole compiere in noi perché,
nascendo ogni giorno nella vita nuova dell’amore, il mondo veda e creda che Dio
è con noi, con ogni uomo, sempre.
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SABATO 9 SETTEMBRE (XXII SETTIMANA DEL
TEMPO ORDINARIO)
https://youtu.be/NHadT52vZtU
COME SPIGHE STRAPPATE AL PECCATO E ALLA
MORTA PER NUTRIRE IL MONDO
Dio ha donato la Legge per accogliere
l'uomo nell’Alleanza con Lui, e condurlo nella fedeltà sul cammino della vita.
Il sabato è il sigillo dell’Alleanza, la memoria dell’amore di Dio, la gioia
del riposo e dell’intimità nuziale con Lui. Ma alcuni farisei, con le loro
interpretazioni restrittive, avevano pervertito la Legge facendone una barriera
che precludeva proprio il riposo e la gioia dell’incontro con Dio ai più poveri
e deboli. L’esigenza e il disprezzo dei maestri li allontanavano da Dio, come
appare nel Vangelo di oggi. La tradizione concedeva di entrare nel campo a
raccolto ultimato, dopo che i poveri avevano spigolato la loro parte secondo i
dettami della Torah: «Quando è permesso a chiunque di spigolare? Quando
l’ultimo povero se n’è andato» (Mishnah, Peah 8:1). I discepoli di Gesù,
dunque, non avevano infranto la Legge: come Lui avevano raggiunto l'ultimo
posto, quello dietro all’ultimo povero, quello della libertà nella quale si
compie il Sabato. Nulla da fare o difendere, tutto da ricevere. Ma una parte
dei farisei considerava anche lo spigolare dei poveri illecito nel giorno di
sabato. Non c’era limite alla loro ipocrisia: proprio loro che, soprattutto
"di sabato", spigolavano nel campo del popolo per strappare con il
giudizio le spighe che non crescevano secondo la Legge, impedivano ai poveri di
strappare quattro spighe rimaste per miracolo nel campo. Ma questo lavoro era
"permesso", anche perché spesso il giudizio restava celato nel cuore,
e quando il disprezzo si palesava, lo faceva camuffandosi con gli abiti
dell’insegnamento e dell’ammonimento. Come spesso capita, soprattutto di
domenica, a noi preti clericali che giudichiamo i più deboli tra i
parrocchiani. Come accade ai genitori (e ai figli…) che esigono
moralisticamente il rispetto di regole probabilmente necessarie, ma svuotandole
dell’amore che ne è il compimento, e giudicano. In tutti noi, accanto al
fariseo esigente vi è anche il peccatore incapace di compiere la Legge. Per
questo, la fame di Davide in fuga da Saul è la nostra, quando il demonio ci
perseguita usando addirittura la Parola di Dio e l’autorità dei consacrati
(preti, genitori, maestri, catechisti) per toglierci l’alimento per la nostra
fede e impedirci di vivere l’elezione gratuita di Dio. Ma è arrivato
Cristo, e ha vinto il demonio consegnando a Davide, cioè a te e a me, la
dignità e la libertà che la gelosia dell'avversario gli avevano sottratto e
nascosto. Smascherando le trappole di Saul, ti annuncia che, rinato in Cristo
dalle acque del battesimo, sei figlio di Dio; unto con l’olio del suo Spirito,
sei re con Lui. Sei libero davvero perché l’amore di Dio è stato riversato in
te e non hai più bisogno di metterti le maschere con le quali apparire giusto
per esigere rispetto, considerare e affetto. Per non restare solo è sceso ed è
rimasto accanto a te immobile nel tuo sepolcro, proprio a Shabbat, compiendo
così in pienezza ogni precetto. Risorgendo è stato proclamato “Signore del
sabato” perché la sua vittoria sulla morte ha dato a Shabbat il compimento per
il quale era stato donato: la libertà per entrare nel riposo dell’intimità con
Dio preparato per te. Non a caso nel Talmud l'Era Messianica è chiamata “Yom
shekullò Shabbat, il giorno che sarà tutto Shabbat”. Coraggio allora, viene
oggi il Messia che, trasformando il sepolcro dove eri sepolto in un campo
fecondo del suo amore, ha fatto di tutta la tua vita uno Shabbat di libertà e
felicità. Il “sabato è per l’uomo” significa proprio questo: la tua famiglia,
la tua comunità, il tuo lavoro, ogni aspetto della tua vita è “per te”, perché
in tutto Cristo si dona come una spiga matura. Smetti di sforzarti, e lascia
operare Dio in te. Non temere, puoi e devi nutrirti dei “pani dell’offerta” una
volta riservati ai sacerdoti: Cristo, infatti, ha trasformato la tua vita in
una liturgia di Shabbat che, come sacerdote, sei chiamato a celebrare ogni
giorno. Non aver paura, non ti giudicare, ne hai diritto proprio perché debole
e povero. “Strappa” con la preghiera e l'ascolto della predicazione le “spighe”
colme dell’amore di Cristo; “mangiale” e accostandoti con piena fiducia e
gratitudine ai sacramenti.
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