αποφθεγμα Apoftegma
Quando era giunto per Dio il tempo di avere compassione
della sofferenza dell’umanità, sua diletta,
mandò il Figlio suo unigenito sulla terra
in quel palazzo sontuoso e tempio glorioso
che era il corpo della Vergine Maria.
Là, sposò la nostra natura e la unì alla sua persona,
grazie al sangue purissimo della nobile Vergine.
Fu lo Spirito Santo, il sacerdote che celebrò le nozze.
L’angelo Gabriele ne fu l’araldo,
e la gloriosa Vergine diede il suo consenso.
In questo modo Cristo, nostro sposo fedele,
si unì alla nostra natura,
venne a visitarci in una terra straniera
e ci insegnò i costumi celesti e una perfetta fedeltà.
Beato Jan Ruysbroeck
L'ANNUNCIO |
Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi».
SAZIATI DAL PANE DI VITA NELLA CHIESA, SIAMO INVIATI NEL MONDO A COGLIERE LIBERAMENTE I FRUTTI DELLA PASQUA
E' inutile illuderci che sulla terra si possa conquistare quello che è riservato al Cielo. Perché la terra non è non sarà mai il Paradiso. E' contaminata dal peccato e le sue conseguenze amare sono proprio il dolore, la fatica e il sudore che vorremmo cancellare o perlomeno evitare. Impossibile, e non perché Dio non esiste e se esiste è un mostro che castiga. E' l'esperienza personale che ce lo dice: se un bambino si avvicina al fuoco e disobbedisce allungandovi la mano, si scotta. E' un castigo? No, è una conseguenza. Ma proprio attraverso il dolore della scottatura il bambino capisce di essere diverso dall’adulto, di avere dei limiti e molto da imparare da sua madre. Così il dolore, il sudore e la fatica sono le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva e di ciascuno di noi, non i castighi che Dio ha inflitto all'uomo. Ma sono anche la prova che Egli esiste e non ha smesso di amarci, liberi sino in fondo; mentre attraverso il dolore ci rivela che non siamo Dio e non possiamo eludere o piegare la realtà a nostro piacimento. Il dolore della donna nel partorire (immagine del dolore che segna il suo essere femmina, sposa e madre, con la frustrazione che spesso sperimenta nei rapporti con l’uomo verso il quale la muove l’istinto d’amore), insieme con la fatica e il sudore dell’uomo per lavorare e mangiare (immagine del dolore che segna il suo essere maschio, marito e padre), sono la realtà da cui ripartire e convertirsi: sono, infatti, le attività che uniscono misteriosamente la creatura al suo Creatore. Ma, attraversate da dolore e fatica sono anche le ferite che le ricordano la propria origine generando in essa, come nel figlio prodigo, la nostalgia della casa paterna. Dio non ha voluto cancellare i nostri passi erranti nella libertà; i peccati commessi sono un fatto, non c’è possibilità di reset. Non sarebbe giusto e farebbe di noi dei burattini senza testa e cuore. Ma Dio ha fatto di più: con il suo Figlio è entrato Egli stesso nelle conseguenze dei nostri peccati per trasformarle in possibilità di bene. Gesù è entrato perfino nel dolore del parto (così ha profetizzato il suo Mistero Pasquale), nella fatica, nel sudore e nella morte per farne un cammino alla risurrezione e alla vita eterna che ci offre nella Chiesa, il vino nuovo in otri nuovi! Altro che toppe di panno grezzo su vestiti vecchi, come sono tanti nostri tentativi moralistici, superficiali e ipocriti di conversione, entusiasmi emotivi che evaporano alla prima difficoltà. Gesù è infinitamente più realista dei discepoli di Giovanni e dei farisei come di tutti noi. La sua Parola ci tira giù dai sogni improbabili di redenzione e riscatto, impedendoci di scappare nell’alienazione che ci propone il demonio. E ci chiama a tornare alla Patria perduta offrendoci nella Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo, un cammino di conversione dove imparare a digiunare per umiliare il nostro cuore. Essa, infatti, esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma contemporaneamente digiuna nell'attesa della parusia. Vive del Memoriale del suo Signore, celebrando il quale grida con nostalgia e speranza Maràn athà, certa che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! E’ la fede della Sposa con la quale la Chiesa entra nella storia sicura che lo Sposo verrà in ogni circostanza a dare compimento alla sua vita. Attraverso il digiuno esteriore che sottomette la carne, essa ci insegna ad entrare con Cristo nel digiuno che il Padre ci prepara nella storia. Quando cioè sperimentiamo la lontananza e l’assenza dello Sposo, nudi e indifesi, e a nulla vale il sentimento. E’ qui che, come una vedova vive nella memoria misteriosa del marito che le “è stato tolto”, possiamo sperimentare una presenza nuova di Cristo in noi, come un “abito nuovo”, una forma nuova di vivere di cui il digiuno è segno. Nell’“otre nuovo” infatti, l’amore dello Sposo disseta anche i nemici. La carne dell’uomo nuovo redenta nel seno della Chiesa, nelle cui vene scorre il “vino nuovo” del sangue di Cristo, digiuna tacendo di fronte alle ingiustizie senza resistere al male; digiuna dall’affetto, dalla stima e dalla considerazione accettando che l’altro lo umili, perché il suo Sposo viene proprio in quel dolore, per infondere in esso il compimento dell’amore.
E' inutile illuderci che sulla terra si possa conquistare quello che è riservato al Cielo. Se pensiamo così, e così affrontiamo le giornate, il fidanzamento e il matrimonio, lo studio e il lavoro, le vacanze e le difficoltà, significa che il demonio ci sta ancora ingannando. Come hanno fatto le ideologie, inghiottendo intere generazioni nell'abbaglio che sia possibile fare della terra un paradiso. E oggi, dopo essersi sbriciolate nell'urto con la realtà, molti tentano di riciclarle facendo indossare loro i panni della salute e della qualità della vita, dei diritti, dell’emancipazione e dell'autodeterminazione, per attirarci nel miraggio di un mondo senza dolore, fatica e sudore. E senza la morte, che, in un paradosso tipico del demonio, si pensa di cancellare dando la morte alle persone e alle situazioni che la ricordano con più evidenza. Divorzio, aborto ed eutanasia sono l'inganno legalizzato che seduce la nostra incapacità di entrare nella sofferenza che la vicenda terrena suppone, trascinandoci però in sofferenze sempre più grandi. Fateci caso, è come una droga: più cerchi di scappare dal dolore combattendolo, più cresce; più cerchi di esorcizzarlo con evoluzioni culturali e conquiste civili, più allarga il suo cratere. Perché la terra non è non sarà mai il Paradiso. E' contaminata dal peccato e le sue conseguenze amare sono proprio il dolore, la fatica e il sudore che vorremmo cancellare o perlomeno evitare. Impossibile, e non perché Dio non esiste e se esiste è un mostro che castiga. E' l'esperienza personale che ce lo dice: se un bambino si avvicina al fuoco e disobbedisce allungandovi la mano, si scotta. E' un castigo? No, è una conseguenza. Ma proprio attraverso il dolore della scottatura il bambino capisce di essere diverso dall’adulto, di avere dei limiti e molto di imparare da sua madre. Così il dolore, il sudore e la fatica sono le conseguenze del peccato di Adamo ed Eva e di ciascuno di noi, non i castighi che Dio ha inflitto all'uomo. Ma sono anche la prova che Egli esiste e non ha smesso di amarci, perché ci lascia liberi sino in fondo, e non a corrente alternata come accade tra di noi. Mentre proprio il dolore ci rivela che non siamo Dio e non possiamo eludere o piegare la realtà a nostro piacimento. Ma ciò significa soprattutto che la nostra salvezza passa di lì, dal dolore, dal sudore e dalla fatica. Dalla nostra storia di oggi, così com'è, precaria, ferita, incompiuta perché lontana dal Paradiso. La nostra vita è un lungo “digiuno” in attesa di consumare le nozze per le quali siamo stati creati. Stiamo, infatti, vivendo i “giorni nei quali lo sposo ci è tolto”: non sperimentiamo quasi quotidianamente la delusione per le speranze che sembrano andare in fumo? La precarietà economica, fisica e spirituale ghermisce l'esistenza non lasciandole nulla a cui appoggiarsi. Ecco, proprio quando la Croce ci accoglie, nudi e indifesi come Adamo ed Eva lontani dal Paradiso il “digiuno” si rivela come la condizione essenziale per vivere autenticamente nell'attesa del compimento. Non mangiare, non fumare, non guardare la televisione, spegnere internet e social networks, insomma digiunare da qualcosa, non è solo una pratica pseudo-ascetica che, spesso, fa della religione un'idolatria dell’ego; quanti di noi preti saziamo la nostra libido con i selfie spirituali che ci scattiamo dopo una celebrazione, un incontro, un’omelia, un buon consiglio offerto...
Digiunare, invece, è un'esigenza, una questione di vita o di morte; è come il grido del popolo di Israele schiavo in Egitto. E' l'ascesi autentica che ci fa scendere nella verità per essere attirati nel suo compimento. Perché dopo il peccato originale Dio ha profetizzato che la salvezza sarebbe giunta proprio nelle sue amare conseguenze. Il dolore della donna nel partorire e la frustrazione nei rapporti con l’uomo verso il quale la muove l’istinto d’amore, insieme con la fatica e il sudore dell’uomo per lavorare e mangiare, sono la realtà da cui ripartire e convertirsi: sono, infatti, le attività che uniscono misteriosamente la creatura al suo Creatore. Ma, attraversate da dolore e fatica sono anche le ferite che le ricordano la propria origine generando in essa, come nel figlio prodigo, la nostalgia della casa paterna. Destata ancor più violentemente dalla morte, la conseguenza più grave del peccato. Tutti di fronte ad essa ci troviamo atterriti pensando che non sia possibile che finisca tutto così. Certo che no! Ma Dio non ha voluto cancellare i nostri passi erranti nella libertà; i peccati commessi sono un fatto, non c’è possibilità di reset. Non sarebbe giusto e farebbe di noi dei burattini senza testa e cuore. Ma Dio ha fatto di più: è entrato Lui stesso nelle conseguenze dei nostri peccati per trasformarle in possibilità di bene. E’ ciò che ha compiuto Gesù nel suo Mistero Pasquale: per amore di ogni peccatore è entrato nel dolore, nella fatica, nel sudore e nella morte per farne un cammino alla risurrezione e alla vita eterna. E ce lo offre oggi e ogni giorno come la possibilità di una vita nuova, come “vino nuovo in otri nuovi!”. Altro che “toppe di panno grezzo su vestiti vecchi”, come sono tanti nostri tentativi moralistici, superficiali e ipocriti di conversione, entusiasmi emotivi che evaporano alla prima difficoltà. Gesù è infinitamente più realista dei “discepoli di Giovanni e dei farisei” e di tutti noi. La sua Parola ci tira giù dai sogni improbabili di redenzione e riscatto dal grigiore e dai fallimenti, impedendoci di scappare nell’alienazione che ci propone il demonio. Per “tornare” alla Patria perduta occorre invece “convertirci”, cambiare cioè radicalmente il modo di pensare e di essere e imparare a “digiunare”, che, per Gesù e i suoi discepoli, significa amare. Per un cristiano il digiuno è "naturale" perché è il segno con il quale afferma di accettare di essere peccatore e di aver bisogno della storia così com’è, perché sa che è l’unico cammino alla salvezza e alla gioia. Solo entrando nel dolore che suppone ogni relazione autenticamente umana, e accettando la fatica di ogni giorno possiamo partecipare con Cristo al suo Mistero Pasquale. Per questo il digiunare autentico, al quale ci si allena con il digiuno esteriore che sottomette la carne, è quello che si compie nel cuore. E’ fare silenzio di fronte alle ingiustizie, non resistere al male che gli altri ci procurano, non intraprendere la via del divorzio, non reclamare quello che ci è stato tolto. Solo così anche il peccato e le sue conseguenze sono trasformate in "porte di speranza", vie alla salvezza. Ma per vivere così occorre partecipare al digiunare della Chiesa, sposa e vedova allo stesso tempo: essa, infatti, esplode di gioia intorno alla mensa eucaristica, ma contemporaneamente digiuna nell'attesa della parusia. Vive del Memoriale del suo Signore, l'eucarestia, presenza viva del suo Sposo amatissimo. Nel mezzo del banchetto pasquale rinnovato ogni settimana erompe in un grido di nostalgia e speranza: Maràn athà, con il quale afferma la certezza che il Signore nostro viene, ma che si può leggere anche marana tha, Signore nostro, vieni! Con la comunità cristiana, il digiuno realizzato nella storia sarà il nostro Maràn athà, il grido che implora il ritorno dello Sposo per saziare la fame d’amore che nulla e nessuno è capace di saziare. E spera in ogni circostanza che ci porti con Lui, nel posto che ha preparato per noi nel Paradiso.
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