αποφθεγμα Apoftegma
Amandolo, siete casta, toccandolo,
sarete più pura,
lasciandovi possedere da lui siete vergine.
La sua potenza è
più forte,
la sua generosità più elevata,
il suo aspetto più bello,
l’amore più
soave e ogni grazia più fine.
Ormai siete stretta nell’abbraccio di lui,
che ha
ornato il vostro petto di pietre preziose…
e vi ha incoronata con una corona
d’oro incisa con il segno della santità.
Santa Chiara d'Assisi
CATECHESI SU SANTA CHIARA
L'ANNUNCIO |
Dal Vangelo secondo Giovanni 15,4-10.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: « Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me, viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti dei Padre mio e rimango nel suo amore ».
CATECHESI DI BENEDETTO XVI
Cari fratelli e sorelle,
una delle Sante più amate è senz’altro santa Chiara d’Assisi, vissuta nel XIII secolo, contemporanea di san Francesco. La sua testimonianza ci mostra quanto la Chiesa tutta sia debitrice a donne coraggiose e ricche di fede come lei, capaci di dare un decisivo impulso per il rinnovamento della Chiesa.
Chi era dunque Chiara d’Assisi? Per rispondere a questa domanda possediamo fonti sicure: non solo le antiche biografie, come quella di Tommaso da Celano, ma anche gli Atti del processo di canonizzazione promosso dal Papa solo pochi mesi dopo la morte di Chiara e che contiene le testimonianze di coloro che vissero accanto a lei per molto tempo.
Nata nel 1193, Chiara apparteneva ad una famiglia aristocratica e ricca. Rinunciò a nobiltà e a ricchezza per vivere umile e povera, adottando la forma di vita che Francesco d’Assisi proponeva. Anche se i suoi parenti, come accadeva allora, stavano progettando un matrimonio con qualche personaggio di rilievo, Chiara, a 18 anni, con un gesto audace ispirato dal profondo desiderio di seguire Cristo e dall’ammirazione per Francesco, lasciò la casa paterna e, in compagnia di una sua amica, Bona di Guelfuccio, raggiunse segretamente i frati minori presso la piccola chiesa della Porziuncola. Era la sera della Domenica delle Palme del 1211. Nella commozione generale, fu compiuto un gesto altamente simbolico: mentre i suoi compagni tenevano in mano torce accese, Francesco le tagliò i capelli e Chiara indossò un rozzo abito penitenziale. Da quel momento era diventata la vergine sposa di Cristo, umile e povero, e a Lui totalmente si consacrava. Come Chiara e le sue compagne, innumerevoli donne nel corso della storia sono state affascinate dall’amore per Cristo che, nella bellezza della sua Divina Persona, riempie il loro cuore. E la Chiesa tutta, per mezzo della mistica vocazione nuziale delle vergini consacrate, appare ciò che sarà per sempre: la Sposa bella e pura di Cristo.
In una delle quattro lettere che Chiara inviò a sant’Agnese di Praga, la figlia del re di Boemia, che volle seguirne le orme, parla di Cristo, suo diletto Sposo, con espressioni nunziali, che possono stupire, ma che commuovono: “Amandolo, siete casta, toccandolo, sarete più pura, lasciandovi possedere da lui siete vergine. La sua potenza è più forte, la sua generosità più elevata, il suo aspetto più bello, l’amore più soave e ogni grazia più fine. Ormai siete stretta nell’abbraccio di lui, che ha ornato il vostro petto di pietre preziose… e vi ha incoronata con una corona d’oro incisa con il segno della santità” (Lettera prima: FF, 2862).
Soprattutto al principio della sua esperienza religiosa, Chiara ebbe in Francesco d’Assisi non solo un maestro di cui seguire gli insegnamenti, ma anche un amico fraterno. L’amicizia tra questi due santi costituisce un aspetto molto bello e importante. Infatti, quando due anime pure ed infiammate dallo stesso amore per Dio si incontrano, esse traggono dalla reciproca amicizia uno stimolo fortissimo per percorrere la via della perfezione. L’amicizia è uno dei sentimenti umani più nobili ed elevati che la Grazia divina purifica e trasfigura. Come san Francesco e santa Chiara, anche altri santi hanno vissuto una profonda amicizia nel cammino verso la perfezione cristiana, come san Francesco di Sales e santa Giovanna Francesca di Chantal. Ed è proprio san Francesco di Sales che scrive: “È bello poter amare sulla terra come si ama in cielo, e imparare a volersi bene in questo mondo come faremo eternamente nell'altro. Non parlo qui del semplice amore di carità, perché quello dobbiamo averlo per tutti gli uomini; parlo dell'amicizia spirituale, nell'ambito della quale, due, tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito” (Introduzione alla vita devota III, 19).
Dopo aver trascorso un periodo di qualche mese presso altre comunità monastiche, resistendo alle pressioni dei suoi familiari che inizialmente non approvarono la sua scelta, Chiara si stabilì con le prime compagne nella chiesa di san Damiano dove i frati minori avevano sistemato un piccolo convento per loro. In quel monastero visse per oltre quarant’anni fino alla morte, avvenuta nel 1253. Ci è pervenuta una descrizione di prima mano di come vivevano queste donne in quegli anni, agli inizi del movimento francescano. Si tratta della relazione ammirata di un vescovo fiammingo in visita in Italia, Giacomo di Vitry, il quale afferma di aver trovato un grande numero di uomini e donne, di qualunque ceto sociale che “lasciata ogni cosa per Cristo, fuggivano il mondo. Si chiamavanofrati minori e sorelle minori e sono tenuti in grande considerazione dal signor papa e dai cardinali… Le donne … dimorano insieme in diversi ospizi non lontani dalle città. Nulla ricevono, ma vivono del lavoro delle proprie mani. E sono grandemente addolorate e turbate, perché vengono onorate più che non vorrebbero, da chierici e laici” (Lettera dell’ottobre 1216: FF, 2205.2207).
Giacomo di Vitry aveva colto con perspicacia un tratto caratteristico della spiritualità francescana cui Chiara fu molto sensibile: la radicalità della povertà associata alla fiducia totale nella Provvidenza divina. Per questo motivo, ella agì con grande determinazione, ottenendo dal Papa Gregorio IX o, probabilmente, già dal papa Innocenzo III, il cosiddetto Privilegium Paupertatis (cfr FF, 3279). In base ad esso, Chiara e le sue compagne di san Damiano non potevano possedere nessuna proprietà materiale. Si trattava di un’eccezione veramente straordinaria rispetto al diritto canonico vigente e le autorità ecclesiastiche di quel tempo lo concessero apprezzando i frutti di santità evangelica che riconoscevano nel modo di vivere di Chiara e delle sue sorelle. Ciò mostra come anche nei secoli del Medioevo, il ruolo delle donne non era secondario, ma considerevole. A questo proposito, giova ricordare che Chiara è stata la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta, sottoposta all’approvazione del Papa, perché il carisma di Francesco d’Assisi fosse conservato in tutte le comunità femminili che si andavano stabilendo numerose già ai suoi tempi e che desideravano ispirarsi all’esempio di Francesco e di Chiara.
Nel convento di san Damiano Chiara praticò in modo eroico le virtù che dovrebbero contraddistinguere ogni cristiano: l’umiltà, lo spirito di pietà e di penitenza, la carità. Pur essendo la superiora, ella voleva servire in prima persona le suore malate, assoggettandosi anche a compiti umilissimi: la carità, infatti, supera ogni resistenza e chi ama compie ogni sacrificio con letizia. La sua fede nella presenza reale dell’Eucaristia era talmente grande che, per due volte, si verificò un fatto prodigioso. Solo con l’ostensione del Santissimo Sacramento, allontanò i soldati mercenari saraceni, che erano sul punto di aggredire il convento di san Damiano e di devastare la città di Assisi.
Anche questi episodi, come altri miracoli, di cui si conservava la memoria, spinsero il Papa Alessandro IV a canonizzarla solo due anni dopo la morte, nel 1255, tracciandone un elogio nella Bolla di canonizzazione in cui leggiamo: “Quanto è vivida la potenza di questa luce e quanto forte è il chiarore di questa fonte luminosa. Invero, questa luce si teneva chiusa nel nascondimento della vita claustrale e fuori irradiava bagliori luminosi; si raccoglieva in un angusto monastero, e fuori si spandeva quanto è vasto il mondo. Si custodiva dentro e si diffondeva fuori. Chiara infatti si nascondeva; ma la sua vita era rivelata a tutti. Chiara taceva, ma la sua fama gridava” (FF, 3284). Ed è proprio così, cari amici: sono i santi coloro che cambiano il mondo in meglio, lo trasformano in modo duraturo, immettendo le energie che solo l’amore ispirato dal Vangelo può suscitare. I santi sono i grandi benefattori dell’umanità!
La spiritualità di santa Chiara, la sintesi della sua proposta di santità è raccolta nella quarta lettera a Sant’Agnese da Praga. Santa Chiara adopera un’immagine molto diffusa nel Medioevo, di ascendenze patristiche, lo specchio. Ed invita la sua amica di Praga a riflettersi in quello specchio di perfezione di ogni virtù che è il Signore stesso. Ella scrive: “Felice certamente colei a cui è dato godere di questo sacro connubio, per aderire con il profondo del cuore [a Cristo], a colui la cui bellezza ammirano incessantemente tutte le beate schiere dei cieli, il cui affetto appassiona, la cui contemplazione ristora, la cui benignità sazia, la cui soavità ricolma, il cui ricordo risplende soavemente, al cui profumo i morti torneranno in vita e la cui visione gloriosa renderà beati tutti i cittadini della celeste Gerusalemme. E poiché egli è splendore della gloria, candore della luce eterna e specchio senza macchia, guarda ogni giorno questo specchio, o regina sposa di Gesù Cristo, e in esso scruta continuamente il tuo volto, perché tu possa così adornarti tutta all’interno e all’esterno… In questo specchio rifulgono la beata povertà, la santa umiltà e l’ineffabile carità” (Lettera quarta: FF, 2901-2903).
BIOGRAFIA CATECHETICA DEL PADRE SICARI
Tratto
da: Il quarto libro dei RITRATTI DI SANTI di Antonio Sicari ed. Jaca Book
«Io,
Chiara, pianticella del nostro Santo Padre Francesco... .», così amava
definirsi la nostra Santa di Assisi.
L’immagine
risale forse al fatto che la madre di lei portava il nome di Ortolana e perciò
si diceva che Chiara era stata da lei coltivata «come una piantina fruttifera
nel giardino della Chiesa».
Certo
fu Francesco a farla crescere e maturare, quando ella, diciottenne, si rifugiò
da lui per chiedergli di consacrarla al Signore; ma è indubbio che Chiara
assorbì la prima linfa dalla madre, donna di eccezionale forza e dolcezza.
In
quegli anni di ferro, quando anche un breve viaggio era assai rischioso, ella
aveva avuto il coraggio di attraversare il mare, per recarsi pellegrina in
Terra Santa. E già era stata a Roma, a venerare la tomba degli Apostoli, e al
Santuario di san Michele, sul Gargano.
E
i racconti della madre dovettero essere il primo nutrimento di quella bambina.
Messer
Ranieri di Bernardo che, in qualità di parente, conobbe da vicino Chiara
fanciulla, testimonierà al processo di canonizzazione che la bambina, «quando
stava a sedere con quelli di casa, voleva sempre parlare delle cose di Dio».
Il
primo biografo, Tommaso da Celano, scrive con delicatezza che la grazia divina
dovette prima impregnare a fondo le radici (cioè, la madre) «acciocché poi
nella ramicella seguitasse copia di santità».
E
madre e figlia furono così unitamente abbracciate dalla grazia di Dio, che
Ortolana finirà la sua vita nel monastero di Chiara, lasciandosi condurre a
Dio, nella sua vecchiaia, dalla figlia divenutale spiritualmente Madre.
Allora
la vecchia Ortolana racconterà sottovoce alle consorelle d’avere sempre
conosciuto il destino di quella bambina:
da
quando aveva pregato dinanzi a un Crocifisso, nell’imminenza del parto, per
chiedere protezione, e s’era sentita dentro una voce che le diceva: «tu
partorirai una luce che riempirà il mondo!». Per questo l’aveva chiamata
Chiara!
L’antico
biografo avverte che quello era un secolo buio, in cui «il mondo appariva
oppresso dalla sua incombente vecchiezza, e l’occhio della fede s’era
offuscato, e sulle scorie del tempo s’erano accumulate le scorie dei peccati».
Ma
Dio aveva mandato Francesco, il Sole splendente di Assisi, e poi Chiara
«lampada luminosissima per tutte le donne».
All’infanzia
di lei non mancarono né la dolcezza, né la sofferenza.
La
dolcezza, perché i ricordi di quegli anni sono già tutti impregnati di
tenerezza francescana: una soccorrevole compassione per i diseredati, un amore
precoce per il Crocifisso, una spontanea felicità durante le sue preghiere di
fanciulla.
Dicevano
che, dopo la preghiera, la bambina avesse «un buon odore di cielo».
Ma
ci fu anche tanta sofferenza perché la famiglia di lei, quando la piccola aveva
solo sei anni, dovette subire un lungo esilio, a Perugia, assieme ad altre
famiglie nobili che avevano inutilmente osteggiato la nascita del governo
comunale di Assisi. Non erano mancati incendi, saccheggi, rivolte.
Fu
solo nel 1203, quando Chiara aveva quasi dodici anni, che poterono tornare in
patria.
Con
i fuoriusciti rientrarono ad Assisi anche i prigionieri di guerra, tra cui un
giovane borghese, brillante e scapestrato, che sembrava essere impazzito in carcere:
Francesco di Pietro Bernardone.
La
cittadina venne subito messa a rumore dalle sue stranezze: dapprima s’era messo
a riparare la vecchia chiesa diroccata di San Damiano, dove passava lunghe ore
in preghiera; poi sulla pubblica piazza - chiamato in giudizio davanti al
vescovo Guido - s’era spogliato di tutto, rinunciando ad ogni eredità e
scegliendo di vivere come un pezzente.
Aveva
gridato di non voler aver altro Padre se non quello dei cieli.
E
i balconi del palazzo di Chiara, a fianco della cattedrale, s’affacciavano
proprio sulla piazza di San Rufino.
La
Leggenda dei tre compagni racconta che, mentre restaurava San Damiano,
Francesco cantava, com’era solito fare un tempo, alla maniera dei giullari:
«Venite, aiutatemi in questa fatica!
Sorgerà qui un monastero di madonne, e per la fama di loro santa vita
sarà glorificato in tutta la Chiesa il nostro Padre celeste».
Certo
pensava alle fanciulle d’Assisi: l’avevano ammirato quando si atteggiava a
cavaliere intrepido e cortese, ora l’avrebbero seguito nella sua avventura di
«mendicante» del divino Amore.
Chiara
intanto cresceva «benigna et gratiosa», come dicono i testimoni del tempo;
buona al punto che una sua amica d’infanzia dirà - al processo di
canonizzazione - che «credeva fermamente che lei fosse stata santificata nel
ventre di sua madre».
E,
ripensando ai buoni consigli da lei ricevuti al tempo della comune adolescenza,
insisterà su queste espressioni dal sapore «mariano»: «Madonna Chiara era piena
di grazia, e voleva che anche le altre ne fossero piene!».
S’avvicinava
però il tempo di darle un buon partito: «la volsero mandare secondo la nobiltà
sua magnificamente ad uomini grandi e illustri, ma essa in nessun modo poté
essere indotta perché volse permanere in virginità e vivere in povertà», dice
l’antico cronista.
La
verità era che Chiara s’era già innamorata.
Aveva
seguito da lontano l’avventura di Francesco e dei giovani d’Assisi che
l’avevano seguito. Tra essi c’era Rufino, un cugino di Chiara. Vivevano alla
Porziuncola, vicino a una cappelletta dedicata a Santa Maria degli Angeli.
Lavoravano con le loro mani, vivevano di elemosina e si diceva che si
prendessero cura dei lebbrosi, presso Rivotorto.
Da
due anni ormai Chiara ascoltava, col cuore ferito, Francesco predicare la
quaresima. L’ anno precedente era accaduto nella chiesa di San Giorgio, e
quell’ anno - il 1210 - addirittura in Cattedrale. Così aveva voluto il
vescovo Guido, benché Francesco non fosse neppure prete.
Cominciarono
così gli incontri segreti tra Chiara e Francesco. Incontri voluti da ambedue -
dice il primo biografo - perché lei era «desiderosa di vedere e di ascoltare
quell’uomo nuovo», e lui «colpito dalla vasta fama di una fanciulla così ricca
di grazie, non meno desiderava di vederla e di parlarle.., per strappare al mondo
quella nobile preda».
Ma
aggiunge saggiamente: «entrambi regolano la frequenza dei loro incontri così
che l’ardore divino non sia manifesto agli uomini e non ci sia pretesto alle
insinuazioni».
Di
nascosto, accompagnata dalla più cara amica (quella Bona di Guelfuccio che la
giudicava «piena di grazia»), Chiara si recava da Francesco.
Le
domande di lei non è difficile immaginarie: la ragazza voleva che le parole
predicate indistintamente a tutti, Francesco le applicasse proprio a lei, alla
sua vita, al suo incontenibile desiderio di Dio.
Le
risposte, tramandate da Tommaso da Celano, sono piene di intimo fuoco.
Francesco
«sussurra nelle sue orecchie le dolci nozze con Cristo» e Chiara «accetta con
cuore ardente ciò che egli le manifesta del buon Gesù».
Quando
la quaresima si avvicinò alla settimana santa, Francesco decise che era giunto
il momento di rompere ogni indugio:
«Era
prossima la festa solenne delle palme, quando la fanciulla con cuore ardente si
reca dall’uomo di Dio per chiedergli che cosa debba fare e come, ora che vuol
cambiare la sua vita. Il padre Francesco le ordina di accostarsi alle palme nel
giorno festivo, in mezzo al popolo, ben vestita e adorna, e che la notte
seguente, ‘uscendo dall’accampamento’ ‘converta la gioia del mondo nel lutto’
della passione del Signore. Così la domenica, nella folla delle donne, la
fanciulla radiosa di splendore festivo entra in chiesa con le altre».
In
cattedrale accadde quel giorno un presagio.
Quando
giunse il momento in cui le fanciulle nobili dovevano salire all’altare, per
ricevere dalle mani del vescovo la palma benedetta, prima della solenne
processione, Chiara restò assorta al suo posto, probabilmente perduta dietro
quel sogno divino che le riempiva il cuore.
Si
vide allora il vescovo discendere i gradini dell’altare, per venire a portare
la palma alla fanciulla: agli occhi di tutti, era un atto di paterna affettuosa
condiscendenza; ma Chiara capì che Cristo veniva, per mezzo del suo ministro, a
sceglierla come Sposa.
Cominciava
la sua «settimana santa» di passione e di gloria. La notte seguente fuggì di
casa, da un uscio secondario, per non esser vista, anche se dovette
rimuovere prima un mucchio di legna e una pesante colonna di marmo che ne
impediva l’apertura. Al mattino, tutti si chiedevano, come ella avesse potuto
trovare tanta forza.
Ed
eccola sola nel buio, scendere in fretta la collina d’Assisi verso Santa Maria
degli Angeli, dove l’attendono Francesco e i suoi frati, con le torce accese.
Dopo
aver cantato Mattutino, Francesco le taglia i lunghi capelli biondi, li copre
con un velo nero, e ricopre le sue bianche vesti di fanciulla con un saio
povero e scuro.
Intanto
i frati cantano un Salmo di guerra con cui invocano Dio perché scenda con tutta
la sua forza e la sua divina armatura, ad annientare gli avversari e combattere
i nemici, per schierarsi a protezione dell’anima fedele che lo ha seguito
«senza opporre resistenza alcuna».
Anche
se a noi sembra strano, quel Salmo lo ha scelto proprio Francesco. Il fatto è
che noi tendiamo a immaginarci quella fuga notturna come un episodio romantico
e dolce, mentre Chiara e Francesco ben sapevano d’avere dichiarato guerra a una
intera città. Se era stata traumatica e contestata la prima decisione di
Francesco di «uscire dal mondo» (come egli scriverà nel suo Testamento), e se
ancor più lo era stata quella dei tanti giovani che avevano preso a seguirlo,
che cosa sarebbe accaduto ora che perfino una fanciulla nobile e ammirata si
lasciava travolgere da quella follia, aprendo un varco che nessuno avrebbe potuto
più chiudere?
Siamo
nel 1212. A costo di anticipare troppo la nostra storia, possiamo già
annunciare che nell’agosto del 1228 - quando Chiara domanderà al papa Gregorio
IV il celebre «privilegio della povertà» - saranno già stati fondati in Italia
almeno venticinque monasteri di clarisse. E alla morte di Chiara, i monasteri
sparsi in tutto il mondo saranno almeno centotrenta.
Ma
quella notte Chiara è sola; in fretta i frati la conducono in un monastero di
benedettine tra Assisi e Perugia.
Avevano
una sola arma per resistere all’imminente attacco:
quel
diritto di asilo inviolabile che la Chiesa riconosceva ad ogni monastero, pena
la scomunica. Davanti a quelle porte perfino gli imperatori dovevano
arrestarsi.
Al
loro arrivo i parenti trovarono Chiara inginocchiata ai piedi dell’altare,
avvolta in quella veste indecorosa che li faceva fremere di sdegno.
«Trame
avvelenate e promesse lusinghiere», così l’antico cronista definisce i
tentativi messi in atto per distoglierla da quella «condizione umiliata, che non
è all’altezza della famiglia e non ha precedenti nella contrada».
Ma
quando i parenti (soprattutto un terribile zio che agisce come capo-famiglia)
stanno per passare alle maniere spicce e violente - in fondo, per loro, Chiara
non è una monaca, ma solo una ragazza capricciosa e infatuata - , ella compie
quel gesto magnifico e irreparabile che nella società medievale era
immediatamente compreso. Si toglie il velo e la testa malamente rasata dice a
tutti che ella ha «ripudiato il mondo»; e intanto stende l’altra mano per
afferrarsi alle tovaglie dell’altare, come un umile aggrapparsi alle vesti di
Gesù, figlio di Dio.
Ora
tutti sanno che la Chiesa-Madre difenderà gelosamente quella creatura, come
intangibile proprietà di Cristo. E nessuno osa più stendere su di lei la sua
mano.
Ma
i parenti hanno visto giusto. Il varco aperto da Chiara è una porta attraverso
la quale passeranno tante giovani donne. La prima a seguire Chiara è Agnese,
sua sorella di sangue, quindicenne.
Anch’ella
fuggì di casa, la successiva domenica in Albis, perché - dice il cronista - «le
venne il mondo in disgusto e Iddio in desiderio», e a ciò non furono estranee
le preghiere di Chiara che sognava d’averla con sé.
Questa
volta i parenti non erano disposti a fermarsi: il solito zio, ancor più
violento, giunse con i suoi armati; la ragazza venne strappata via dal
monastero, malmenata, schiaffeggiata e trascinata via a forza.
La
poverina tendeva le mani a Chiara, come se la sorella potesse difenderla da
tanta violenza, diceva che «non voleva essere tolta a Cristo».
Non
si sa bene quello che accadde. Lo stesso zio racconterà che l’avevano afferrata
in quattro, ma erano riusciti a trascinarla, giù per il declivio del monte,
solo per poche centinaia di metri. Poi quel corpicino da niente s’era fatto
pesante, sempre più pesante. «Sembrava - dirà nel suo rozzo linguaggio - che
avesse mangiato piombo tutta la notte».
La
ragazzina era diventata irremovibile nel senso letterale del termine: non si
riusciva più a smuoverla! Anzi, era lui, lo zio, che da quando l’aveva percossa
con uno schiaffo, non riusciva più a muovere bene la mano, come se colto da
paralisi.
Quando
Francesco la consacrò a Cristo, recidendole con le sue mani i capelli, come
aveva fatto con Chiara, le disse con dolcezza che aveva fatto onore al suo
nome, Agnese: era stata davvero un agnellino che aveva trovato forza e
robustezza combattendo per Gesù, Agnello innocente di Dio, immolato per nostro
amore.
È
giusto ricordare subito che anche Agnese è onorata dalla Chiesa come santa. E
sarà lei a fondare in Italia il secondo monastero di clarisse.
Dopo
Agnese, vennero tutte le amiche di Chiara, con quei loro nomi che sembravano
augurio e presagio: Pacifica, Benvenuta, Amata, Angeluccia, Cecilia, Cristiana,
Francesca, Lucia, Cristina, Benedetta... E poi altre fanciulle della contrada.
Giungerà perfino la terza sorella di Chiara, Beatrice, e poi la mamma Ortolana,
rimasta vedova, che si dedicherà davvero a coltivare il povero orticello del
monastero.
Iniziò
così la storia delle «povere Donne di san Damiano». Francesco ottenne che
quella prima chiesetta ch’egli aveva riedificato (dove il grande Crocifisso
bizantino gli aveva parlato) venisse adattata a monastero e posta sotto la
protezione del vescovo Guido. Ed egli stesso scrisse, per loro, la prima
«Formula vitae». Più che una regola, era una sorta di documento di alleanza tra
i frati di Francesco e le suore di Chiara: «Poiché per divina ispirazione vi
siete fatte figlie e ancelle dell’Altissimo sommo Re, il Padre celeste, e vi
siete sposate allo Spirito Santo, scegliendo di vivere secondo la perfezione
del Santo Vangelo, voglio e prometto da parte mia e dei miei frati di avere
sempre di voi, come di loro, cura diligente e sollecitudine speciale.
È
un testo di particolare valore, perché Francesco si esprime in maniera
inusuale: non le chiama «Spose di Cristo» - come era ed è tradizione - ma
«Spose dello Spirito Santo». Il motivo è che egli sta ricostruendo nella sua
mente la vicenda dell’Annunciazione, quando Maria si era proclamata «Serva del Signore»
e aveva «concepito di Spirito Santo» per dare alla luce il Figlio Santo di Dio.
Così
le monache di San Damiano impararono subito non solo la «mistica sponsale» (la
scelta appassionata di Cristo Sposo), ma anche la «mistica materna». Dovevano
vivere quotidianamente il mistero dell’Incarnazione, abituandosi a essere «una
culla vivente», un grembo, per il Figlio di Dio che chiede sempre di venire al
mondo.
E
Chiara lo mostrava quasi fisicamente.
Ecco
la testimonianza che una monaca rese al Processo di canonizzazione:
«Suor
Francesca di Messer Capitano di Col di Mezzo disse con giuramento... che una
volta, nel primo giorno di maggio, vide nel grembo di madonna Chiara, avanti al
suo petto, un mammolo bellissimo («mammolo» è il tenero nome medievale dato ai
bambini che hanno ancora bisogno della mamma) tanto che la sua bellezza non si
potrebbe esprimere; e la testimone, per il vedere quel mammolo, sentiva una
indicibile soavità di dolcezza. E senza dubitare lei credeva che quel mammolo
fosse il Figlio di Dio...».
Ma
per disporsi a un tale mistero, condizione indispensabile era la povertà: «Non
voler aver nulla, se non Nostro Signore».
Per
questo ella le esortava «a conformarsi, nel piccolo nido della povertà, a
Cristo povero che la madre poverella depose piccolino in un povero presepio».
Dice
Tommaso da Celano che Chiara si portava addosso questo ricordo come una donna
si appunta al petto un fermaglio d’oro. Celebre restò la questione del
«privilegio della povertà».
Chiara
ricorse più volte al Santo Padre perché voleva per iscritto, confermato dalla
suprema autorità, il privilegio che le sue comunità restassero sempre
assolutamente povere: che nessuno avesse mai potere di costringerle a possedere
qualcosa, o di consigliarle in tal senso.
Se
lo fece accordare la prima volta nel 1213 da papa Innocenzo III, lo richiese
per iscritto nel 1228 a Gregorio IX che, quand’era ancora cardinale, le aveva
scritto tante lettere affettuose, e l’aveva chiamata «sorella amatissima in
Cristo, madre di salvezza dell’ anima mia».
Le
aveva perfino detto: «Tu sarai responsabile di me nel giorno del Giudizio, se
non ti prenderai cura della mia salvezza».
Ora
era diventato papa e le chiedeva con affettuosa insistenza di ripensare alla
questione della Povertà. Le ricordava che le circostanze della vita erano tante
e tanti erano i pericoli del mondo. Un qualche possesso - anche se limitato -
avrebbe meglio garantito i suoi monasteri, se non altro perché ne avrebbe
assicurato la sopravvivenza e la libertà.
Ma
Chiara non aveva voluto cedere. E il papa che si recò ad Assisi, per la
canonizzazione di Francesco, si fermò apposta a San Damiano, per cercare di
convincerla.
«Se
hai paura per il voto che hai fatto - le disse a tu per tu - Noi te ne
dispensiamo». La risposta che ne ebbe non fu priva di umorismo: «Santità -
ribatté Chiara - , io non desidero in alcun modo di essere dispensata dal
seguire Gesù Cristo».
E
così Gregorio IX scrisse di suo pugno, sulla povera tavola del refettorio di
San Damiano, il testo di quello strano privilegio («proposito di altissima
povertà»); e lo fece - annota il cronista - «cum magna hilaritate»: con grande
gioia; ma l’espressione insinua anche che il papa percepì l’ironia della
situazione: tutti lo tormentavano per avere privilegi e benefici o dispense;
quella donna lo aveva tormentato per ottenere da lui «il privilegio della
povertà».
Prima
di ripartire per Roma volle condividere il semplicissimo pasto delle monache.
Un
cesto di pani era tutto ciò che esse potevano offrire e il papa costrinse
Chiara a benedire la mensa.
Ed
ecco che, al gesto di lei, proprio sotto gli occhi del Pontefice, la crosta dei
pani si aprì leggermente, formando una croce ben delineata.
Così
Gregorio IX poté mangiare pani davvero «benedetti» e capì che con quel miracolo
gentile Gesù mostrava di approvare la povertà crocifissa e benedetta che Chiara
aveva implorata come un dono.
Abbiamo
un po’ anticipato il nostro racconto, toccandone, per così dire, i punti
culminanti, perché dall’alto è più facile vedere l’insieme.
La
vita della nostra Santa e delle sue sorelle fu tutta un’anticipata obbedienza
(e poi una difesa di questa eredità) a quelle «ultime volontà per le suore di
Chiara» che Francesco dettò nel 1226, prima di morire:
«Io
piccolo frate Francesco voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo
Signor Nostro Gesù Cristo e della sua Santissima Madre e perseverare in essa
fino alla fine. E prego voi, mie Signore, e vi consiglio che viviate sempre in
questa santissima vita e povertà. E guardatevi attentamente dall’allontanarvi
mai da essa in nessuna maniera, per l’insegnamento o il consiglio di qualcuno».
La
vita nel monastero era tutta impregnata di questa passione. In un’epoca in cui
i movimenti pauperistici cadevano sistematicamente in uno spiritualismo
eretico, Francesco e Chiara mostrarono che il problema era soltanto quello di
amare veramente e personalmente Cristo povero.
Il
problema non era di avere persone o comunità povere (questo erano in tanti a
volerlo), ma di avere comunità e persone «ricche di povertà»: e questo è possibile
solo a chi «corre dietro a Cristo», come a uno Sposo per il quale si è disposti
a lasciar cadere ogni cosa.
Perciò
chiunque oggi parla di «voto di povertà» come di una scelta vagamente
«religiosa», tesa a contestare gli abusi sociali, la riduce a un’ideologia
propria di intellettuali sofisticati, e per di più priva di reale incidenza
storica: una ideologia ignota a tutta la spiritualità cristiana, e sconosciuta
ai santi. E questo vale anche se ci si richiama a Cristo, trattandolo
benignamente come esempio da imitare!
Chi
non comprende questo, esalta volentieri la povertà di Francesco e di Chiara, ma
si mostra poi molto imbarazzato e infastidito a descrivere gli altri aspetti
della loro scelta.
Le
penitenze di Chiara, ad esempio: aspre, incredibili.
I
suoi digiuni prolungati («si alternavano - dice il cronista - giorni di
insufficiente nutrimento a giorni di completa astinenza», tanto che Francesco
dovette intervenire dandole l’obbedienza di mangiare «almeno un’oncia e mezzo
di pane al giorno»); i suoi cilici insopportabili, fatti di setole di porco,
portati sulla nuda carne; le lunghe notti passate in preghiera, prostrata in
terra per ore e ore; il poco sonno preso giacendo su dei sarmenti («e aveva al
capo una pietra del fiume»); il riservare a se stessa le incombenze più umili e
disgustose (sosteneva che toccava proprio a lei «lavare i sedili delle
inferme») e voleva lavare e baciare i piedi infangati delle suore che tornavano
dalla questua.
Da
tutto ciò la contestazione sociale è lontana, come lo è l’astrazione
dall’amore. Vicinissimo a Chiara era invece il volto di Gesù Crocifisso, per
cui si struggeva, e le lacrime le inondavano gli occhi, al punto che le sorelle
temevano che perdesse la vista: «sembrava - scrive il primo biografo - che
avesse sempre tra le braccia Cristo, bagnato da quelle lacrime, ricoperto da
quei baci».
E
ogni giorno, verso le tre del pomeriggio, ricordando la morte di Gesù, si
flagellava duramente, perché «nell’ora della Sua passione non si poteva
piangere tanto che bastasse».
Dell’educazione
che ella impartiva alle novizie, si dice soltanto: «Insegnava alle novizie a
piangere Cristo Crocifisso... e spesso, mentre le esortava singolarmente a
questo, il pianto preveniva le parole».
Ma
nessuno la vide mai triste. «Se è vero - osserva il cronista - che una dura
penitenza fisica genera di solito depressione spirituale, l’effetto risplendeva
in Chiara ben diversamente: in ogni sua mortificazione manteneva una sembianza
gioiosa».
A
ventun anni - per imposizione di Francesco - ricevette il titolo e l’autorità
di Badessa, carica che ricoprì per quarant’anni.
«Comandava
- raccontano le suore - con molto timore e umiltà».
Dire
che guidava la comunità con l’esempio, è troppo poco. La conduceva mostrando in
sé «lo splendore della verità».
«Quando
tornava dall’orazione - racconta una di esse - le suore si rallegravano, come
se fosse venuta dal cielo». «Pareva che tutti i beni fossero in lei» - insiste
un’altra.
Tanto
era severa con se stessa, tanto era «benigna e amorevole» con le sue monache.
Diceva che una superiora deve sapere «consolare le afflitte ed essere l’ultimo
rifugio delle tribolate». E non mancava di saggezza pedagogica: «Quando la
santissima Madre mandava le suore serventi fuori dal monastero - rammentava una
di esse - le esortava che, quando vedessero gli alberi belli, fioriti e
fronduti, laudassero Iddio; e similmente quando vedessero gli uomini e le altre
creature, sempre di tutte e in tutte le cose laudassero Iddio».
Bona
di Guelfuccio, l’amica che l’aveva accompagnata fanciulla nei segreti
appuntamenti con Francesco, e l’aveva poi seguita in monastero, restando con
lei per tutta la vita, quando fu interrogata come testimone per la
canonizzazione di Chiara, raccontò alcuni episodi della giovinezza. Ma poi
quando dovette parlare dei lunghi anni della loro convivenza monastica, non
riuscì a parlare: «della santità di Chiara, disse che fu tanta, che lei nel
cuore ne serbava infinite cose, che con la lingua non sapeva dire, perché il
parlare della madre santa Chiara era tutto un ammaestramento».
Dobbiamo
tralasciare di raccontare i miracoli che accadevano di solito quando Chiara
tracciava quel segno di Croce con cui pareva trasmettere sui malati e sulle
cose il suo appassionato amore per Cristo. E Gesù le rispondeva coi prodigi.
Tutti li consideravano quasi normali, perché capivano «che il Crocifisso Amato
ricambiava l’Amante».
Dobbiamo
tralasciare anche le visioni. Queste non le aveva solitamente Chiara, che
sembrava sempre personalmente immersa nel divino. Erano le sue suore che a
volte percepivano visibilmente la sua familiarità col Figlio di Dio.
Tuttavia
è giusto almeno rievocare il celebre episodio dell’assalto dei mercenari
Saraceni al monastero. Li aveva scagliati contro Assisi, per far dispetto al
papa, Federico II che era stato il prediletto di Innocenzo III (che gli aveva
fatto da tutore), ed era stato battezzato - come Chiara e Francesco - allo
stesso fonte battesimale, nella cattedrale di Assisi. Molti lo consideravano
ormai l’incarnazione dell’Anticristo.
La
città si è preparata all’assedio, ma San Damiano è fuori dalle mura, e non c’è
nessuno a difendere quelle «povere Donne».
Non
ci sono neppure i frati. Francesco - che aveva avuto il coraggio di affrontare
disarmato perfino il terribile Sultano Melek-el-Kamel - è morto.
Chiara
è da tempo malata, immobilizzata nel suo povero lettuccio di paglia, che ha
dovuto accettare per obbedienza.
Si
fa condurre davanti alla porta del monastero e davanti a sé fa mettere il
cofanetto d’argento che custodisce l’Eucaristia. A fatica si prostra a terra.
Quando già i crudeli Saraceni hanno scavalcato il muro di cinta del monastero,
Chiara sfiora con le mani il prezioso cofanetto. Prega: «Signore, guarda tu
queste tue serve, perché io non le posso guardare». E le due sorelle che
sostengono Chiara odono - e ne daranno testimonianza giurata al processo di
canonizzazione - la voce dolcissima di un bambino, proveniente dal tabernacolo,
che dice: «Io ti difenderò sempre».
Nessuno
sa quel che accadde. Improvvisamente però i Saraceni si ritirarono, senza osare
avvicinarsi alla porta dove Chiara pregava. Alla sera di quel giorno, ella
chiamò le due sorelle e fece loro giurare che, lei viva, non avrebbero mai
raccontato a nessuno quel che avevano udito.
Non
mancarono poi, anche nella vita di Chiara, quei tipici fioretti francescani nei
quali la santità si manifesta come ritorno alla condizione paradisiaca; come
capacità di farsi comprendere e amare perfino dagli animali.
Ecco
il racconto di Suor Francesca durante il processo per la canonizzazione:
«Una
volta madonna Chiara non si poteva levare dal letto per la sua infermità, e
domandando che le fosse portata una certa tovagliola, e non essendo chi gliela
portasse, ecco che una gattuccia, la quale era nel monastero, incominciò a
tirare e strascicare quella tovagliola per portargliela. E allora madonna
Chiara disse a quella gatta: ‘Cattiva, tu non la sai portare: perché la
strascichi per terra?’. Allora quella gatta, come se avesse intesa quella
parola, incominciò a ravvolgere quella tovagliola perché non toccasse terra».
Interrogata
come sapesse le cose dette, rispose che madonna Chiara glielo aveva raccontato
ella stessa.
Erano
delle tovaglie «di delicatissimo tessuto» che Chiara, ormai anziana,
immobilizzata sul suo pagliericcio da lunga malattia, continuava a filare, per
farne corporali per la celebrazione della Santa Messa.
Li
inviava alle chiese povere della provincia di Assisi - ne tessé più di
cinquanta - perché il suo Gesù Eucaristia potesse esservi appoggiato in modo
dignitoso.
E
per ciascun corporale ella aveva fatto con le sue mani una custodia di cartone,
foderata di seta: una invenzione che poi entrò nell’uso.
Finora
il nostro racconto ha volutamente sorvolato sui rapporti tra Chiara e
Francesco.
Sappiamo
che Francesco si mostrò sempre estremamente riservato. Evitava perfino di
fissare il volto delle donne che incontrava. Diceva che egli poteva riconoscere
in faccia soltanto Chiara e Madonna Giacomina di Settesoli. E aveva per loro
un’affezione particolare perché una gli ricordava Maria, quella che voleva
sempre stare ad ascoltare Gesù, e l’altra Marta, che si dava tanto da fare per
Lui.
Ma
le visitava molto di rado. Il fatto è che doveva educare i suoi frati - in
un’epoca difficile - a non eccedere in confidenza con quelle fanciulle che
appartenevano a Cristo. Dicono che un giorno, davanti a certa eccessiva
confidenza di qualche fraticello, abbia sospirato: «Il Signore ci ha tolto le
mogli, e il diavolo ci procura delle sorelle!».
Da
parte sua evitava perfino di pronunciare il nome di Chiara. Quando si riferiva
a lei, la chiamava «Cristiana» per riconoscere che lei era tutta e soltanto di
Cristo.
A
chi lo rimprovera di troppa freddezza, Francesco rispondeva: «Non crediate che
io non le ami pienamente... Non averne cura dopo averle chiamate sarebbe vera crudeltà.
Ma io vi do esempio, perché facciate come ho fatto io».
Un
giorno però accettò di recarsi a San Damiano dove Chiara e le sorelle
desideravano ascoltare, per una volta, una sua predica.
Francesco
entrò nel monastero, radunò la comunità, stette in mezzo a quelle sue figlie,
pregando intensamente in silenzio. Poi chiese che gli portassero della cenere:
la sparse a cerchio attorno a sé, come per collocarsi al suo giusto posto di
povera creatura, e se ne cosparse il capo. Infine recitò lentamente il Salmo
«Miserere», e uscì dal monastero lasciandole tutte in lacrime. Aveva predicato
senza dire nemmeno una parola.
Questo
significava per Francesco lasciarsi amare come segno di un Altro, essere padre
come segno di un’altra infinita e misericordiosa Paternità. Qualcosa di ben
diverso da tutte le scipite romanticherie che sono entrate nell’immaginazione
di tanti che parlano troppo volentieri della vita affettiva dei santi.
In
un’altra occasione si convinse a fare un’eccezione. Ascoltiamo il bel racconto
dei Fioretti, perché è una pagina inarrivabile e intraducibile nella sua
mistica bellezza:
«Santo
Francesco, quando stava ad Ascesi, spesse volte visitava santa Chiara dandole
santi ammaestramenti.
Ed
avendo ella grandissimo desiderio di mangiare una volta con lui e di ciò
pregandolo molte volte, egli non le voleva mai fare quella consolazione.
Onde
vedendo i suoi compagni il desiderio di santa Chiara, dissero a santo
Francesco: ‘Padre, a noi pare che questa rigidità non sia secondo la carità
divina; che suora Chiara vergine così santa, a Dio diletta, tu non esaudisca in
così piccola cosa, come è mangiare teco, ed ispecialmente considerando che
ella, per la tua predicazione, abbandonò le ricchezze e le pompe del mondo. E,
di vero, se ella ti domandasse maggiore grazia che questa non è, sì la dovresti
fare alla tua pianta ispirituale’.
Allora
santo Francesco rispose:
‘Pare
a voi ch’io la debba esaudire?’.
E
i compagni: ‘Padre, sì, degna cosa è che tu le facci questa consolazione’.
Disse
allora santo Francesco: ‘Dappoi che pare a voi, pare ancora a me. Ma acciò
ch’ella sia più consolata, io voglio che questo mangiare si faccia a Santa
Maria degli Angeli; imperò ch’ella è stata lungo tempo rinchiusa in Santo
Damiano, sicché le gioverà di vedere un poco il luogo di Santa Maria, ove ella
fu tonduta e fatta isposa di Gesù Cristo; ed ivi mangeremo insieme al nome di
Dio’.
Venendo
adunque il dì ordinato a ciò, santa Chiara esce dallo monistero con una
compagna, et accompagnata da’ compagni di santo Francesco viene a Santa Maria
degli Angeli, e saluta divotamente la vergine Maria dinanzi allo suo altare,
ov’ella era stata tonduta e velata, sì la menarono vedendo il luogo infino a
tanto che fu ora di desinare.
Et
in questo mezzo, santo Francesco fece apparecchiare la mensa in sulla piana
terra, siccome era usato di fare.
E
fatta l’ora di desinare si pongono a sedere assieme santo Francesco e santa
Chiara, et uno delli compagni di santo Francesco colla compagna di santa
Chiara, e poi tutti gli altri compagni si acconciarono alla mensa umilmente.
E
per la prima vivanda santo Francesco cominciò a parlare di Dio sì soavemente e
sì altamente e sì meravigliosamente che, discendendo sopra loro l’abbondanza
della divina grazia, tutti furono in Dio ratti.
Et
istando così ratti con gli occhi e con le mani levate in cielo, gli uomini di
Ascesi e quelli della contrada d’intorno vedevano che Santa Maria degli Angeli
e tutto il luogo e la selva... ardevano fortemente e parea che fosse un fuoco
grande che occupava la chiesa e lo luogo e la selva insieme.
Per
la qual cosa gli Ascesani con grande fretta corsero laggiù per ispegnere il
fuoco, credendo fermamente ch’ogni cosa ardesse.
Ma
giungendo allo luogo e non trovando ardere nulla, entrarono dentro e trovarono
santo Francesco e santa Chiara e con tutta la loro compagnia ratti in Dio per
contemplazione, sedere in quella mensa umile.
Di
che essi certamente compresero che quello era stato fuoco divino e non
materiale, il quale Iddio aveva fatto apparire miracolosamente a dimostrare e
significare il fuoco dello divino amore dello quale ardevano le anime di quelli
santi frati e sante monache; ond’essi tornarono con grande consolazione ne’
cuori loro, e con santa edificazione.
Poi,
dopo grande ispazio, ritornando in sé santo Francesco e santa Chiara insieme
con gli altri, e sentendosi bene confortati dallo cibo ispirituale, poco si
curarono dello cibo corporale.
E
così, compiuto quello benedetto desinare, santa Chiara bene accompagnata si
ritornò a Santo Damiano... A laude di Cristo. Amen» (cap. xv).
Non
c’è nella storia della santità cristiana un episodio che, meglio di questo,
illustri e commenti l’insegnamento biblico che «l’uomo non vive di solo pane,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
In
quale conto però Francesco tenesse Chiara è dimostrato dal fatto che ricorreva
a lei per rassicurare il suo spirito. Così aveva fatto nei primi anni della sua
avventura, quando s era a lungo dibattuto nella «grande dubitazione»: se egli
doveva dedicarsi soltanto alla preghiera (a cui il suo spirito anelava) o se
doveva anche impegnarsi nella predicazione, anch’essa così necessaria.
Aveva
detto a frate Masseo: «Va’ a suora Chiara, e dille da mia parte, ch’ella con
alcuna delle più spirituali compagne, divotamente preghino Iddio che gli
piaccia dimostrarmi quale sia il meglio».
La
stessa cosa fece chiedere a frate Silvestro, quello dei suoi frati che
considerava più santo.
Quando
frate Masseo tornò con la risposta, Francesco prima volle lavargli i piedi e
preparargli il desinare (voleva infatti accogliere come si conviene il
messaggero di Dio), poi gli si inginocchiò davanti, si mise con le braccia in
croce e chiese:
«Che
domanda ch’io faccia il mio Signore Gesù Cristo?».
La
risposta concorde fu che egli doveva anche andare predicando per il mondo,
«però ch’egli non t’ha eletto per te solamente, ma eziandio per la salute degli
altri».
E
Francesco si rialzò «con grandissimo fervore» dicendo:
«Andiamo,
nel nome di Dio». Raccontano i Fioretti che egli obbedì con tanto entusiasmo
che per via si mise a predicare anche agli uccelli i quali «cominciarono ad
aprire i becchi, a stendere i colli, ad aprire l’ali, e riverentemente chinare
i capi sino in terra, e con atti e con canti dimostrare che le parole del padre
santo davano a loro grandissimo diletto».
Dobbiamo
ancora ricordare che il celebre Cantico delle Creature Francesco
lo cantò per la prima volta davanti a Chiara.
Cieco
e febbricitante, col corpo ormai stigmatizzato, s’era eccezionalmente rifugiato
in una celletta di stuoie, che i suoi frati gli avevano costruito nell’orto del
monastero. Vi restò due mesi e Chiara gli tessé dei morbidi guanti per coprire
quelle sante mani ferite; gli aveva preparato anche un unguento di aromi, per
curare le piaghe sanguinanti.
E
un giorno le suore lo sentirono cantare quella sua dolcissima poesia.
A
Chiara Francesco confidò che l’aveva composta per l’intima gioia di una
rivelazione notturna. Dio l’aveva misericordiosamente rassicurato d’avergli
perdonato tutti i peccati, e che poteva esser certo della salvezza. Per questo
egli si era sentito in pace e in ringraziamento verso tutte le creature!
Qualcuno
disse che egli aveva pensato spontaneamente a Chiara, quando compose il verso:
«Laudato
si’, mi Signore, per sora luna e le stelle
in
celu l’hai formate chiarite
et
pretiose et belle».
Si
raccontava, a questo proposito, quel che Francesco aveva confidato a frate
Leone (quello della «perfetta letizia») durante un viaggio da Siena a Perugia.
Era quasi notte e i due si erano fermati a riposare vicino a un pozzo.
Francesco s’era chinato a guardare lo specchio d’acqua sul fondo, su cui si
rifletteva argentata la luna piena, ed era rimasto lì a lungo, incantato.
«Frate
Leone, pecorella di Dio - aveva detto Francesco - sai tu che cosa vedo
nello specchio dell’acqua?».
«La
luna nascente» - rispose frate Leone che conosceva la passione del santo per la
bellezza del creato.
«No,
frate Leone» - ribatté Francesco - «vedo il viso di sorella Chiara, puro e
splendente come di chi vive nella grazia del Signore».
Ma
anche se la portava sempre in cuore, egli si teneva lontano da San Damiano,
perché - spiega l’antico biografo - sentiva la responsabilità di «privarle
della sua presenza corporale, per unire più intimamente a Dio le sue figlie».
Chiara invece non sentiva questo bisogno.
C’è
a questo proposito una antica leggenda ricca di poesia. Accadde quel giorno che
Francesco decise di partire per un lungo viaggio, e si recò a salutare le
sorelle di San Damiano. Era inverno, e c’era la neve.
«Padre,
quando ci rivedremo?» - domandò Chiara, nascondendo in cuore la sua pena.
«Forse,
quando fioriranno le rose» - rispose Francesco, indicandole i rami nudi e
spinosi di un rosaio.
«Sia
fatta la volontà di Dio» - assentì Chiara umilmente.
Ed
ecco che, mentre Francesco si allontanava, delle rose cominciarono a spuntare
su quei gelidi rami. Chiara lo rincorse e gliele offrì con un sorriso. Le
leggende popolari sanno trasmettere i loro segreti insegnamenti.
Storica
è invece la pena che Chiara provò quel giorno che le annunciarono che Francesco
era gravemente malato.
«Faceva
amarissimo pianto, né poteva prender consolazione, temendo di non rivedere
avanti la sua morte l’unico suo Padre dopo Dio, il beato Francesco, che era suo
consolatore e maestro... il quale timore, per mezzo di un frate, significò al
beato Francesco».
«Va’
a dire alla sorella Chiara - rispose Francesco al messaggero - che deponga ogni
dolore e tristezza, perché ora non mi può vedere, ma sappia in verità che sì
essa che le sue figlie mi vedranno e ne prenderanno grande consolazione».
E
così avvenne. Il corteo funebre che accompagnava il suo beato corpo si mosse da
santa Maria degli Angeli verso la chiesa di San Giorgio ad Assisi; giunti
davanti al monastero San Damiano, esso si arrestò.
«E
rimossa la grata di ferro per la quale erano solite comunicarsi e udire la
parola del Signore, i frati tolsero quel santo corpo dal cataletto e lo
sostennero sulle braccia, avanti la finestra per lungo spazio di tempo, sino a
che madonna Chiara e le altre sorelle ne furono consolate».
Chiara
sopravvisse a Francesco di ben ventisette anni, tutti passati a difenderne
l’eredità e la memoria. La sua vecchiaia fu costellata di quella tenerezza che
ella aveva imparato da lui, tenerezza che andava anzitutto e sempre al Santo
Bambino del Presepio, a Cristo povero Crocifisso e all’Eucaristia.
Solo
nell’ultimo Natale della sua vita Chiara si sentì un po’ triste:
«In
quel momento del Natale, quando il mondo esulta per il Bambino appena nato,
tutte le suore si avviano per il Mattutino al luogo della preghiera, lasciando
sola la madre gravata dalle infermità. E, avendo cominciato a pensare a Gesù
piccolino e a dolersi molto di non poter partecipare al canto delle sue lodi,
sospirando gli dice: ‘Signore Iddio, eccomi lasciata qui sola per Te!’. Ed
ecco, all’improvviso cominciò a risuonare alle sue orecchie il meraviglioso
concerto che si faceva nella chiesa di Santo Francesco. Udiva i frati
salmodiare nel giubilo, seguiva le armonie dei cantori, percepiva perfino il
suono degli organi... E - prodigio ancora più grande - ella fu degna di vedere
il presepio del Signore. Quando al mattino le figlie andarono da lei, la Beata
Chiara disse: ‘Benedetto il Signore Gesù Cristo che quando voi mi avete
abbandonata, non mi ha abbandonata. Ho udito per grazia di Dio tutte le cerimonie
che sono state celebrate questa notte, nella chiesa di Santo Francesco ».
L’antico
cronista si premura di osservare che il luogo lontano «non consentiva la
percezione di quei suoni» e che «quella solennità era stata resa sensibile a
lei per forza divina, oppure il suo udito era stato rafforzato oltre ogni
possibilità umana».
Giuste
osservazioni «tecniche»! E la Chiesa - persuasa che questi antichi racconti
parlino davvero dell’opera della grazia di Dio, e che i moderni prodigi della
tecnica siano solo una lontanissima imitazione dei miracoli - ne ha
approfittato, nel 1938, per proclamare Chiara «patrona di tutti coloro che
lavorano alla televisione».
Ma
il miracolo maggiore di Chiara - assolutamente realistico e documentabile - fu
quell’influsso materno che si irrradiava anche in lontanissime nazioni e
travolgeva chi neppure la conosceva e tuttavia la considerava Madre.
Furono
così attratte da lei, vivente in un piccolo e lontano comune d’Italia, perfino
principesse e regine come Isabella di Francia, Agnese di Praga, Elisabetta di
Ungheria, Margherita vedova di re Ludovico, Bianca di Filippo v di Francia,
Eufemia d’Asburgo, Elena di Portogallo, Salomè e Jolanda di Cracovia, Cunegonda
regina di Polonia, Ermentrude di Bruges.
Basta
accennare a una sola tra esse: Agnese, figlia di Ottokar I , re di
Boemia, che rifiutò di sposare il figlio del grande imperatore Federico II per
seguire quella lontana e sconosciuta madre, di cui le avevano parlato certi
pellegrini venuti da Roma.
«Come
ti amavano le viscere di tua madre, così io ti amo...» le scrisse Chiara,
descrivendole amorosamente Gesù come «lo specchio della vita» che ella deve
ormai usare per adornarsi in maniera davvero regale.
«Aggrappati
povera a Cristo povero» è l’invito che Chiara non teme di rivolgere perfino a
schiere di principesse e di regine.
Era
ormai divenuta vecchia, ma non voleva morire; non prima che il papa le avesse
definitivamente confermato, con tanto di sigillo pontificio, la Regola che
lei stessa aveva scritto, al termine della sua esperienza.
Era
il primo caso, nella storia della Chiesa, di una donna che scriveva una regola
per altre donne.
E
diceva che aspettava solo di poter baciare quel sigillo, e il giorno dopo
morire.
E
Innocenzo IV venne. Tornava dal Concilio di Lione, ed era stato assente
dall’Italia per anni.
Entrò
commosso nella povera celletta.
«Padre
Santo», - disse Chiara morente - «ho bisogno di essere perdonata da tutti i
miei peccati».
«Figlia
mia» - le rispose il papa - «volesse il cielo che io avessi bisogno di perdono
tanto quanto ne hai tu!».
Quando
l’indomani giunse un cardinale a consegnarle la implorata Bolla pontificia, la
baciò come aveva desiderato. Il giorno dopo morì.
Negli
ultimi istanti l’avevano udita mormorare: «Vai sicura, perché hai una buona
scorta. Vai sicura, perché Colui che ti ha creata ti ha santificata, e
proteggendoti sempre, come una madre protegge suo figlio, ti amò con tenero
amore».
Le
chiesero a chi ella rivolgesse quelle parole. Rispose: «Io parlo alla mia anima
benedetta».
E
aggiunse: «Sii benedetto, Tu o Signore, che mi hai creata!».
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