XVIII Domenica del Tempo Ordinario. Anno A



αποφθεγμα Apoftegma


  Tutti i santi hanno dovuto evitare “la via larga e spaziosa”, 
per vivere soli, in disparte, e là vivere nella virtù: Elia, Eliseo…, Giacobbe… 
Il deserto e l’abbandono dei tumulti della vita procurano all’uomo l’amicizia di Dio; 
quando Abramo è uscito dal paese dei Caldei è stato chiamato “amico di Dio”. 
Anche il grande Mosè, dopo essere partito dall’Egitto… 
ha parlato con Dio faccia a faccia, 
è stato salvato dalla mano di nemici ed ha attraversato il deserto. 
Tutti questi rappresentano l’uscita dalle tenebre verso l’ammirabile luce, 
e la salita verso la città celeste, 
prefigurazione della vera felicità e della festa eterna.

    Quanto a noi, abbiamo ormai la realtà che ombre e simboli annunciavano, 
cioè l’immagine del Padre, nostro Signor Gesù Cristo. 
Se sempre lo riceviamo in cibo e segniamo la porta dell'anima col suo sangue, 
saremo liberati dai pesi del Faraone e dei suoi sorveglianti… 
Ora abbiamo trovato la strada dalla terra al cielo… 
Un tempo, con la mediazione di Mosè, 
il Signore precedeva i figli d’Israele in una colonna di fuoco e di nebbia; 
ora, ci chiama lui stesso con le parole: 
“Chi ha sete venga a me e beva; chi crede in me; come dice la Scrittura: 
fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”.




L'ANNUNCIO
In quel tempo, quando udì della morte di Giovanni Battista, Gesù partì su una barca e si ritirò in disparte in un luogo deserto. Ma la folla, saputolo, lo seguì a piedi dalle città. 
Egli, sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati. 
Sul far della sera, gli si accostarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». 
Ma Gesù rispose: «Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare». 
Gli risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci!». 
Ed egli disse: «Portatemeli qua». 
E dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. 
Tutti mangiarono e furono saziati; e portarono via dodici ceste piene di pezzi avanzati. 
Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini. 
 (Dal Vangelo secondo Matteo 14, 13-21)


La notizia della morte di Giovanni era giunta a Gesù come una profezia per la sua vita. Lo aspettava un viaggio difficile, il passaggio dalla morte alla vita. E Lui, docilmente, accetta la volontà del Padre con un segno: “parte su una barca e si ritira in disparte in un luogo deserto”, indicando così come avrebbe compiuto la sua missione a Gerusalemme, dove lo avrebbero messo “in disparte” sulla Croce e sarebbe sceso nel “deserto” del sepolcro.

La “morte di Giovanni”, come quella di ogni martire, è seme di nuovi cristiani. E’ la testimonianza che sigilla con l’autenticità l’annuncio de Vangelo. Così, intrecciate tra loro, le vite di Gesù e Giovanni, del Capo e della sua Chiesa, divengono un annuncio, un kerygma che risuona ovunque.

E infatti, "le folle" hanno "saputo" dove era andato Gesù con la "barca” (la Chiesa), e lo hanno "seguito" camminando "a piedi" dalle loro "città". E’ l’immagine del catecumenato della Chiesa antica. Dai segni compiuti nei cristiani, i pagani intuivano che Gesù Cristo era veramente risorto; “sapevano” cioè che era passato all’altra riva, ed erano attirati da quella vita nuova e piena che vedevano realizzata nelle persone convertite che conoscevano.

Per questo lo “seguivano”, ovvero si facevano suoi discepoli sul cammino dell’iniziazione cristiana; diventare cristiani era una chiamata simile a quella fatta ad Abramo: dovevano “uscire” dalle loro “città” terrene, sentine di vizi, culti idolatrici, passioni e libidine per seguire Gesù “nel deserto”.

Solo in esso, come Israele, potevano scoprire che cosa vi era nel loro cuore, se l’ascolto della predicazione si stesse traducendo in obbedienza. Solo nella verità, infatti, è possibile la conversione autentica che conduce alla fede adulta dell’uomo nuovo che vive solo delle Parole che escono dalla bocca di Dio.

Il Vangelo di questa domenica punta a farci fare questo passaggio fondamentale, così come lo vivevano i catecumeni.

Per questo era importante camminare “a piedi”, come avrebbero poi fatto i pellegrini del medioevo. E’ il segno dell’umiltà, il contatto con la terra dalla quale tutti siamo tratti, la polvere alla quale siamo destinati a tornare senza lo Spirito Santo.

Il catecumenato, infatti, era come un esodo: dopo quella degli idoli, dei beni e del denaro, dovevano passare indenni con Cristo anche attraverso la tentazione del “pane”: non si diventava cristiani se non si era “passati” attraverso il deserto dove non c’è né pane né acqua. 

Come ancora oggi, è chiaro, non è cristiano chi cerca ancora le proprie sicurezze negli affetti, nel lavoro, nel prestigio, nella salute, nel denaro, nella politica, nella cultura, nel branco. E' cristiano solo chi costruisce su questa Roccia, e ha sperimentato che, mentre tutto crolla, solo la Parola di Dio rimane in eterno.

Non lo saremo se continuiamo a chiedere alla pietre che diventino pane. Per caso non siamo nella Chiesa con questa attitudine? Non cerchiamo in essa le identiche sicurezze che il mondo non ci ha saputo dare?

Stiamo seguendo Gesù perché ne abbiamo ascoltato l'annuncio risuonato nelle nostre parrocchie; eravamo piccoli, o più grandicelli, al catechismo o invitati da qualche amico a fare esperienza di un movimento, di un cammino di fede... O ci hanno condotti per mano mamma e papà, nonostante le nostre resistenze...

Sia come sia, c'era qualcosa di speciale in quello che abbiamo ascoltato. Il Vangelo, le Beatitudini, la speranza, l'amore dal quale nessuno ci avrebbe mai separato, il perdono. l'essere amati così come siamo, i fratelli, l'eucarestia e la gioia della comunione, beh tutto questo e molto altro ci ha sedotto...

E abbiamo cominciato a camminare, inciampando, cadendo, fermandoci, zoppicando, ma abbiamo camminato; abbiamo visto segni nella nostra vita e in quella degli altri. I Papi ad esempio, quanto ci hanno aiutato, le giornate mondiali della gioventù: quanti di noi, durante quei pellegrinaggi, si sono innamorati di quella che oggi è la propria moglie... 

E siamo giunti ad oggi, come vi giungevano i catecumeni, a questo tempo dove la "fame" scava un buco nello stomaco, e ci rendiamo conto di non avere ancora l'esperienza che Gesù è l'unico capace di saziarci. "Sul far della sera", quando giunge l'ora di "mangiare", si desta, infatti, l’uomo vecchio ancora vivo in noi. Nell'"ora tarda" che corrispondeva a quella del pasto principale, l'uomo della carne ci vorrebbe allontanare da Gesù, convincendoci che solo nei "villaggi" del mondo ci si possa sfamare

Il demonio spesso ci gioca proprio così: attira l’attenzione sul "luogo deserto" nel quale Gesù si è ritirato, insinuandoci che laddove Egli ci porta non vi è possibilità di vita, gioia e pace. Come accadde al Popolo di Israele nel deserto, crediamo alle sue menzogne che promettono pane e libertà. 

Ciò accade, ad esempio, quando scopriamo che il nostro matrimonio è in realtà un vero e proprio "eremo", secondo l'originale greco, dove la “fame” di affetto e pienezza si fa sentire. Quando il rapporto si rivela difficile se non impossibile, e sperimentiamo che di esso non possiamo nutrirci. 

E’ vero che ci siamo sposati per fare la volontà di Dio, e così ci siamo aperti alla vita, ci siamo fidanzati, studiamo e lavoriamo. Ma arriva "la sera", il momento in cui la carne esige il contraccambio per aver obbedito e seguito, e niente, ci accorgiamo che quello che abbiamo creduto essere comunione e felicità si rivela un luogo inospitale e senza cibo. Il coniuge si chiude in se stesso proprio quando ne avremmo più bisogno, i figli ci sfuggono spezzando i sogni e le speranze riposte su di loro, il fidanzato si rivela un egoista, gli amici ci volgono le spalle infilati nei propri problemi.

Ma non ci siamo sposati per restare soli, non ci fidanziamo nel desiderio di rinchiuderci in un eremo. Non fa per noi, no?  

Che fare allora? Non resta che scappare dall'eremo che è la volontà di Dio, e "andare nei villaggi a comprare da mangiare". Ma occorrono soldi, sforzi, compromessi. Occorre tornare al mondo e abbandonarsi ai suoi costumi e ai suoi valori, perché nei villaggi nessuno ti regala nulla.

Quanti di noi, pur avendo seguito il Signore, anche nel presbiterato e nella vita religiosa, al sopraggiungere della sera di delusioni e frustrazioni, si è lasciato sedurre dal demonio ed è tornato sui propri passi, sino all'Egitto dal quale l'amore di Dio lo aveva liberato? E che sofferenze…

Ma, nell'eremo dove ha attirato la nostra vita, il Signore ci annuncia questa domenica che "non occorre" che alcuno sia "congedato" per andare a cercare pane e salvezza!

Lo dice innanzi tutto ai suoi discepoli, alla Chiesa troppo spesso tentata di seguire la carne e il pensiero del mondo per divenire una ONG attenta alla pancia e dimentica dell'anima. 

"La folla" è affamata non solo perché ha lo stomaco vuoto; anzi, la fame è il segno di un vuoto ben più profondo. Il cuore delle persone che conosciamo è sprovvisto di amore, non ha la vita di Cristo; come la Samaritana va ogni giorno al pozzo a prendere un'acqua che non disseta. E se uno è vuoto, per non impazzire e morire, cercherà di riempirsi in ogni modo: il sesso? Certo, con il sesso, e con la droga, con i viaggi, con il denaro... Tutto per riempire il vuoto che la "sera" evidenzia.

Per questo Gesù “ordina alla folla” una cosa politicamente scorrettissima: “di sedersi sull’erba”. Ma come, niente marce della pace? Niente impegno nel sociale, niente lotta contro le ingiustizie? “Seduti”, proprio i cristiani? Sì, perché essi camminano sedendosi ai piedi Gesù, come Maria… I cristiani sono discepoli di Colui che "perdendo la vita l'ha ritrovata". Non seguono un leader religioso che promette "pane", come fanno tutte le sette. 

I cristiani sono chiamati a vivere, già qui sulla terra, un anticipo della vita celeste. Per questo i catecumeni "lasciano tutto", "odiano il padre, la madre, i figli, i fratelli, perfino la propria vita", "prendono ogni giorno la propria croce e seguono Gesù". Lasciano nelle acque del battesimo le sicurezze terrene perché hanno sperimentato che al sopraggiungere della "sera" esse si rivelano effimere e incapaci di assicurare un briciolo di felicità.

E così fondano la propria esistenza sull'unica sicurezza che non inganna, che, come una roccia, resiste a ogni nottetempesta e terremoto. La sicurezza del suo amore che sazia sino a far "avanzare" vita e amore. E come si saziano? Lo scrivono gli Atti degli Apostoli: come la prima comunità cristiana, essendo "assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (cfr. Atti 2,42ss). 

Come accadde ai cristiani delle origini, anche in quelli di ogni altra generazione "un senso di timore è in tutti e prodigi e segni avvengono per opera degli apostoli": non mi dire che nella tua comunità Dio non opera "prodigi" attraverso i pastori e i catechisti. Non mi dire che non ha sperimentato ancora che Cristo è risorto... Se fosse così, se la preoccupazione di pastori, catechisti e fedeli fosse riempire la pancia, trovare lavoro, sistemare la vita, lottare per il pane, allora si spiegherebbero tante cose; ad esempio perché i giovani scappano dalle parrocchie, o perché "la folla" ha voltato le spalle alla Chiesa e si è tuffata nella mentalità del mondo.

Invece il Signore ci annuncia oggi una pienezza di vita che non abbiamo mai immaginato. Ci promette di saziare il nostro cuore e così farci segno della vita eterna in questa generazione. Chi ha sovrabbondanza di vita ama, senza misura; si dona, può ascoltare la chiamata ad essere presbitero, suora, o a formare una famiglia santa, stretta nel vincolo indissolubile del matrimonio, e dare la vita, senza difendere nulla. 

Non è un ideale irraggiungibile vivere la comunione donata alla prima comunità; anche noi siamo chiamati a vivere così: "Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore".

Le comunità cristiane vivono dell’Eucarestia, che non è impegno ma dono; per questo camminano riposando sui prati d’erba fresca, il pascolo preparato dal loro Buon Pastore. Era Pasqua infatti quel giorno di amore e moltiplicazione; era di primavera, l’unico tempo in cui la terra di Galilea si ammanta di prati…

Gesù ci aspetta, dunque, nel matrimonio, nel lavoro, nel deserto dove viviamo, per farci sperimentare quello che Lui ha vissuto nel Mistero Pasquale. Il Padre non lo ha lasciato nella “fame” di vita, lo ha risuscitato “saziandolo” di Vita eterna, così abbondante da “avanzare” ed essere “raccolta” nei “dodici canestri”, nella Chiesa.

“Dodici”, come le tribù di Israele, come gli apostoli e le comunità da loro fondate. In esse c’è la vita di Cristo risorto, il nutrimento che sazia la fame del mondo! Frutto di tanta abbondanza è anche la nostra comunità, il “canestro” intessuto con le nostre povere e deboli vite, ma colmato della vita che non muore.

Quella sera, attraverso il segno della moltiplicazione e dei "dodici canestri pieni dei pezzi avanzati", il Signore ha profetizzato l'avvento della Chiesa nel mondo: "La città", infatti, "è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d'Israele... Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello", e in essi i nostri nomi!

Siamo dunque chiamati ad essere sfamati e colmati della sovrabbondanza di vita, luce e bellezza della Chiesa, la "sposa dell'Agnello". "Il suo splendore", infatti, "è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino". 

Non a caso Gesù ha compiuto il miracolo in un luogo deserto, lontano da Gerusalemme e dal tempio: la Chiesa, infatti , è la nuova "città santa", la "nuova Gerusalemme" che "Essa, infatti, "scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio", cioè della pienezza, della dignità, della bellezza, della vita celeste. In essa non c'è "alcun tempio, perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenzaLe sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l'onore delle nazioni"

Capite? Uniti a Cristo, nelle viscere della Chiesa, per noi "non vi sarà più maledizione"; cominceremo a “vedere la sua faccia" perché "porteremo il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avremo più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché" nella nuova Gerusalemme "il Signore Dio ci illuminerà e regneremo nei secoli dei secoli" (cfr. Ap 21-22).

Sì, nella Chiesa non esiste la notte perché essa annuncia al mondo il giorno senza tramonto nel quale vivono i suoi figli. Essi entrano nella storia alla luce dell'Agnello, e così sfamano le Nazioni; anche se dentro "un vaso di creta", hanno in loro la vita di Cristo, per questo i loro cuori sono sempre aperti per accogliere i peccatori. 

E’ proprio la nostra debolezza che Gesù cerca per moltiplicare la vita e offrirla al mondo! Allora, “che cosa abbiamo”, oggi, per sfamarci e “dare da mangiare” a chi è accanto a noi? "Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!": ci siamo noi Signore, con i nostri peccati; ma abbiamo anche la tua Parola, i "cinque" rotoli della Torah; e poi ci sei Tu che ci parli; sei "qui" con noi, pescato vivo nel mare della morte come un "pesce"; sei accanto a noi e per noi nelle tue "due" nature, vero uomo e vero Dio, per fare di ciascuno un figlio libero di vivere secondo la nuova natura divina che sei venuto a donarci. 

Sì, Signore, non abbiamo altra sicurezza che Te, pesce come noi, sceso nel mare della morte come noi, ma risuscitato per trarci dai fondali bui della menzogna satanica e appoggiare la nostra vita nel tuo amore.

Per questo Gesù ci dice di "dare noi stessi da mangiare": noi stessi, che significa anche e soprattutto dare la nostra vita, consegnare ciascuno se stesso a chi ha fame. E perché questo si compia "non occorre" altro che "portare" a Lui quello che siamo, che in fondo significa convertirci; per giungere ad amare occorre sperimentare di essere amati, per colmare di Cristo la vita degli altri, è necessario prima essere saziati di Lui. Per questo, convertirci significa consegnare, attraverso le viscere di misericordia della Chiesa, i nostri peccati a Cristo e sperimentarne il perdono e la trasformazione di ciò che siamo in un prodigio donato al mondo.

Quei “cinque pani e due pesci”, infatti, sono l'immagine di ogni catecumeno che scendeva nelle acque del battesimo e vi risaliva rivestito di Cristo, ed era come "moltiplicato" nella nuova vita cristiana.

Come accade in ogni sacramento che rinnova il Mistero Pasquale di Cristo: nell’Ordine la fragilità e la piccolezza di un uomo sono trasformate in zelo e parresia che lo fanno suo ministro; nel matrimonio i limiti e le incompatibilità di un ragazzo e una ragazza sono sbriciolate per fare dei due una carne sola; nell’Olio degli infermi l’estrema debolezza di un malato diviene un’offerta coraggiosa di sé per la salvezza di tanti.

Sì, proprio ciò che il deserto ci ha illuminato, quello che siamo oggi è importante. Non si dice dei pani e dei pesci se fossero buoni o cattivi, belli o brutti, grandi o piccoli. Erano, semplicemente, pane e pesce. Erano Marco, Caterina, Mario, Francesca. Erano tu ed io. E sono diventati il cibo che ha sfamato una moltitudine.

La nostra vita, infatti, è chiamata ad essere cibo per gli affamati. E non hanno fame tua moglie, tuo figlio, tua suocera? Hanno la stessa tua fame… Per questo, frutto della “compassione” del Signore, nella Chiesa rinasciamo come pani di compassione.

Dalla memoria delle tante "guarigioni" che il Signore ha compiuto nella nostra vita scaturisce lo zelo per sfamare la "folla" di poveri che ci è accanto. La vita che riceviamo nella Chiesa è così abbondante che ci "avanzerà. Non cercheremo più nell'altro l'alimento con cui saziarci; al contrario, divenuti apostoli di Cristo, come le "dodici ceste", ci lasceremo "portare via" tempo e idee, criteri e progetti, le sicurezze ormai gettate all’anatema.


Così in ogni relazione ed evento della vita, quando calerà la "sera" della Croce, sapremo che è giunto il momento di abbandonarsi alla "benedizione" di Gesù, che trasforma in "bene" ogni male; Lui saprà "alzare con gli occhi" anche la nostra carne "verso il Cielo", e le sue mani crocifisse ci "spezzeranno" come pane consegnato a ogni uomo.


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