(da J.Ratzinger, La coscienza nel tempo, Conferenza alla Reinhold-Schneider-Gesellschaft, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Torino, 1987, p.159 e 163)
Nei suoi Colloqui con Hitler, Hermann Rauschning, che nel 1933-34 era presidente del senato della libera città di Danzica, riferisce la seguente dichiarazione del dittatore fatta in sua presenza: “Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza e morale, e dalle pretese di una libertà e autodeterminazione personale, di cui ben pochi possono essere all’altezza”.
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. Del tutto affine è quanto Göring dichiarò allo stesso autore: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza si chiama Adolf Hitler”. La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà...
E’ certamente possibile che sotto il concetto di coscienza si insinui come la canonizzazione di un super-io, che blocca l’uomo nella sua realizzazione. Il richiamo assoluto rivolto alla persona nella sua responsabilità è allora coperto e sopraffatto da un sistema di convenzioni che viene esibito falsamente come voce di Dio, mentre non è in verità che la voce del passato, la cui paura impedisce il presente. La coscienza può diventare anche un alibi per la propria ostinazione e indocilità, quando una caparbia incapacità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà alla voce interiore. La coscienza diventa allora il principio di un egoismo soggettivo che si pone come assoluto, allo stesso modo in cui, viceversa, può diventare il principio del passaggio dall’io a un “sì” impersonale o a un io estraneo. In questo senso il concetto di coscienza ha bisogno di costante purificazione, e la pretesa della coscienza come pure il richiamo ad essa hanno bisogno di lealtà e di prudenza, consapevole dei possibili abusi di grandi valori quando la si chiama in gioco troppo in fretta. Chi ha in bocca con troppa facilità la parola “coscienza” si rende sospetto in modo simile a coloro che pronunciano banalmente e a ripetizione il santo nome di Dio, dunque da idolatri e non da veri adoratori. Ma la vulnerabilità della coscienza, la possibilità dell’abuso non possono cancellarne la grandezza, Reinhold Schneider ha detto: “Che cosa è la coscienza se non la consapevolezza della nostra responsabilità davanti alla totalità della creazione e davanti a chi l’ha creata?”. Coscienza significa, detto molto semplicemente, riconoscere l’uomo, se stesso e l’altro da sé come creazione e rispettare in quest’uomo il suo creatore. Ciò definisce il confine di ogni potere e gli indica a un tempo la direzione.
(da J.Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005)
Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste quando abbiamo detto che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma di rimando sorge immediatamente l'obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività? Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti, non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune oggettivo di più alto livello?
È strano che certi teologi trovino difficile accettare la dottrina precisa e limitata dell'infallibilità pontificia, ma non abbiano problemi nel riconoscere de facto l'infallibilità a chiunque abbia una coscienza.
In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della soggettività come tale.
Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di Dio dentro di noi. Con questo concetto viene stabilito il carattere assolutamente inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi legge umana. L'esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l'uomo, da all'uomo una dignità assoluta.
Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria? Contraddice forse sé stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un'azione, anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro o addirittura esige da lui di compiere questa stessa azione?
Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi di coscienza individuali con la voce di Dio. La coscienza non è un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann.
Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come super “io”, come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che ci hanno formati e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal punto che essa non ci parla più esteriormente, ma dal più intimo di noi stessi.
In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sorgente reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un altro, una guida estranea in noi stessi. La coscienza non sarebbe allora un organo di libertà, ma una schiavitù interiorizzata dalla quale l'uomo dovrebbe logicamente liberarsi per scoprire l'ampiezza della sua reale libertà.
Organo, non oracolo
Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni della coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente.
Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto una educazione formale, reagiscono spontaneamente contro l'ingiustizia. Essi danno un «sì» spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli a crescere.
D'altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà o una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è stato appreso o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è diventata un senso interiore di ciò che è buono.
Qual'è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull'argomento: la coscienza è un organo, non un oracolo. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma essendo un organo ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola.
Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall'esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, che cioè possiamo esprimerci con il linguaggio. L'uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo diventa soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l'uomo è «un essere che ha bisogno dell'aiuto di altri per diventare ciò che è in sé stesso» (R. Spaemann).
Noi vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L'uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell'aiuto degli altri.
La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incontriamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l'uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza.
Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l'assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere.
In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla. La coscienza ha diritto al rispetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona la rispetta e ha per essa la cura che la sua dignità merita.
Il diritto della coscienza e l'obbligo di formarla.
Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di dominare l'utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa infine conseguire la propria validità.
Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza.
Sarebbe quindi semplicistico porre una affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo.
Che cosa c'è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazione? O è una alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole?
È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere esercitata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un'apertura in maniera consona alla gravita della questione.
Se io credo che la Chiesa ha le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina nella Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell'autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una risonanza interiore della sua parola all'interno della coscienza, ciò che significa qualcosa di più che una semplice dichiarazione occasionale di massimo livello.
(da J.Ratzinger, Coscienza e verità, Conferenza a Dallas ed a Siena, in La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Torino, 1991, pag.113-137)
Nell’attuale dibattito sulla natura propria della moralità e sulle modalità della sua conoscenza, la questione della coscienza è divenuto il punto nodale...
La coscienza vi è presentata come il baluardo della libertà di fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità. In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un modello superato, “preconciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità, la quale attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più intimi e cerca in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini. Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema che dev’essere sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità.
E’ fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame di coscienza, o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti, se così fosse, ciò varrebbe a dire che non c’è nessuna verità, almeno in materia di morale e di religione, ossia nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo circostante e alla comunione degli uomini...
(La tesi che la coscienza morale sia infallibile) viene presumibilmente esposta per primo da J.G.Fichte: “La coscienza non erra mai e non può mai errare”, poiché è “essa stessa giudice di ogni convinzione, non conosce alcun giudice sopra di sé”. Essa decide in ultima istanza ed è essa stessa inappellabile (System der Sittenlehre 1789, III, §15; Werke, vol.4 Berlin, 1971, p.174)... Gli argomenti in contrario già formulati in precedenza da Kant, vennero approfonditi da Hegel per il quale la coscienza “come soggettività formale... è sul punto di rovesciarsi in male”.
Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza. Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la salvezza.
Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile da portare, adatta solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a quel giogo morale che la fede della Chiesa cattolica comporta. La coscienza erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza. La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità. Non è la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo sta a suo agio più nelle tenebre che nella luce; la fede non è un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la fede ad altri?
Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi ad essa. A tal riguardo è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo: la coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci dispensa dalla verità, essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo sociale, che, come minimo denominatore comune tra le diverse soggettività, ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti, nella società e su quanto in essa è diventato abitudine.
Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo. Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può esser definito come una protesta della coscienza contro l’esistenza soddisfatta di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera da teatro”, come dice Görres. “Sono i mostri che, tra altri bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti Hitler e Himmler o Stalin. Forse i padrini della mafia non hanno sensi di colpa, anche se probabilmente nascondono molti cadaveri in cantina insieme ai relativi sensi di colpa. Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.
Qualcosa di analogo, d’altro canto, possiamo trovare anche in san Paolo, il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò che Dio attende da loro (Rm 2,1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo la presenza del tutto inevitabile della verità, dell’unica verità del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità di Do a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato.
Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa orientale conferma questa diagnosi. Le personalità più attente e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale. Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita e un pericolo ben più grave dei danni economici che si sono creati. Il nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era, secondo lui, oscurata. La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene, per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e a un pericolo mortale. In altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti e abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno.
Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla verità, che è avvenuta precedentemente e che ora si prende la sua rivincita, è la vera colpa; una colpa che sulle prime culla l’uomo in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.
A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita. Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale.
La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi. In molti ambienti oggi non ci si chiede più che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero, nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista, rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in un modo ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo; l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale. Abbiamo così raggiunto il punto veramente scottante della questione: Quando i contenuti non contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria che domina ogni cosa, sia esso rivoluzionario o reazionario. Questa è precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della somiglianza con Dio. Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”, nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. E’ proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.
Ciò significa che il primo, per così dire, ontologico livello del fenomeno della coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme. Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine, che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, non è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimento, così che colui che ne viene interpellato, se non è interiormente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco. Egli se ne accorge: “Questo è ciò a cui mi inclina la mia natura e ciò che essa cerca!”. Su questa anamnesi del Creatore, che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità e il diritto della missione. Il vangelo può, anzi, dev’essere predicato ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr. Is 42,4). Infatti la missione si giustifica, se i destinatari, nell’incontro con la parola del vangelo, ri-conoscono: “Ecco, questo è proprio quello che io aspettavo”.
Il papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal soggetto può essere solo una determinazione imposta dall’esterno. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un’antropologia della coscienza quale abbiamo cercato di delineare a poco a poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.
Il significato autentico dell’autorità dottrinale del papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il papa (N.d.R. Fa riferimento all’espressione del card J.H.Newman, contenuta nella lettera al duca di Norfolk: “Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per il papa”) perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede, che dev’essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale.
Dopo queste considerazioni sul primo livello, essenzialmente ontologico, del concetto di coscienza, dobbiamo ora rivolgerci alla sua seconda dimensione, il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medievale venne designato con l’unico termine di “conscientia” (coscienza).
Su questo piano, il piano del giudicare (quello della “conscientia” in senso stretto), vale il principio che anche la coscienza erronea obbliga. Quest’affermazione è pienamente intelligibile nella tradizione di pensiero della scolastica. Nessuno può agire contro le sue convinzioni, come già aveva detto san Paolo (Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ciò nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione dell’anamnesi dell’essere. La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, i criminali che agiscono con convinzione come Hitler e Stalin rimangono colpevoli. Questi esempi macroscopici non devono tranquillizzarci su noi stessi, piuttosto dovrebbero risvegliarci e farci prendere sul serio la gravità della supplica: “liberami dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13).
La ricerca estremamente chiara di I.G.Belmans, Le paradoxe de la conscience erronée d’Abélard à Karl Rahner, in Rev. Thom 90 (1990), pp. 570-586 mostra che questa è esattamente la posizione anche di san Tommaso. Belmans dimostra che la pubblicazione del libro di Sertillanges su san Tommaso nel 1942 ha dato inizio ad una molto diffusa falsificazione della dottrina dell’Aquinate sulla coscienza. Semplificando, la falsificazione consiste nel fatto che viene citato solamente l’articolo 5 (“Bisogna seguire una coscienza erronea?”) della Summa Theol. I-II q. 19, mentre viene del tutto tralasciato l’articolo 6 (“E’ sufficiente seguire la propria coscienza per agire bene?”). Ciò significa che a Tommaso viene ora attribuito l’insegnamento di Abelardo, che l’Aquinate, invece, si riprometteva invece di superare. Abelardo aveva sostenuto che coloro i quali avevano crocifisso Cristo non avevano peccato, poiché avevano agito per ignoranza. L’unico modo di peccare consisterebbe, invece, nell’agire contro coscienza. Le teorie moderne circa l’autonomia della coscienza possono rifarsi ad Abelardo, non a Tommaso.
(ancora da J.Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette, 2005)
Natura, ragione e oggettività
La parola del Magistero non è più plausibile, oggi, per molti cristiani, perché la sua ragionevolezza e la sua oggettività non sono più trasparenti. Il Magistero è accusato di partire da una interpretazione obsoleta della realtà. Come gli stoici dei tempi antichi, - si dice - il Magistero ragiona a partire dalla «natura». Ma l'espressione stessa di «natura» è stata completamente sorpassata insieme all'intera epoca metafisica.
In un primo tempo, questo cosiddetto naturalismo della tradizione del Magistero venne considerato in contrapposizione al personalismo della Bibbia. L'opposizione tra natura e persona, come modello fondamentale per l'argomentazione, era considerata, nello stesso tempo, una contrapposizione tra tradizione filosofica e tradizione biblica. Eppure è un fatto riconosciuto da tempo che non esiste un «biblicismo» puro, e che anche il «personalismo» ha i propri aspetti filosofici.
Assistiamo oggi a un movimento che è quasi il diretto opposto del precedente: la Bibbia è in larga misura scomparsa dalle opere moderne di teologia morale. Domina, al suo posto, la tendenza a un'analisi razionale particolarmente vigorosa, accompagnata dalla rivendicazione dell'autonomia della morale, che non si basa né sulla natura né sulla persona, ma sulla storicità e su modelli di comportamento sociale orientati verso il futuro. Bisogna cercare di scoprire ciò che è socialmente compatibile e ciò che serve a costruire una futura società umana.
La «realtà» sulla quale si basa l'«oggettività» non è più una natura che precede l'uomo, ma è piuttosto il mondo che egli stesso ha strutturato, che può analizzare in maniera semplice, e dal quale può estrapolare ciò che il futuro porterà. Qui ci troviamo di fronte alla vera ragione per cui il cristianesimo di oggi manca in larga misura di una autentica plausibilità, e non solo nel campo della morale.
Come abbiamo già visto, a seguito del mutamento filosofico introdotto da Kant, la divisione della realtà in soggettivo e oggettivo è diventata dominante.
L'oggettivo non è semplicemente la realtà in sé stessa, ma la realtà in quanto oggetto del nostro pensiero, in quanto cioè è misurabile e passibile di calcolo. Il soggettivo invece sfugge alla spiegazione «oggettiva». Questo significa, tuttavia, che la realtà che incontriamo parla soltanto il linguaggio del calcolo, ma non contiene alcuna espressione morale. Le forme radicali in costante espansione della teoria dell'evoluzione portano alla stessa conclusione, anche se da un punto di partenza differente. Il mondo non presuppone alcuna ragione: ciò che vi è di ragionevole in esso è risultato di una combinazione di accidenti, il cui continuo accumulo ha creato in seguito un tipo di necessità.
Secondo tale punto di vista, il mondo non contiene alcun significato, ma soltanto traguardi, posti dalla stessa evoluzione. Se il mondo è quindi un fotomontaggio di apparenze statiche, la massima direttiva morale che può dare all'uomo sarà dunque che questi deve impegnarsi in un qualche tipo di fotomontaggio del futuro, e che deve dirigere tutto conformemente, a ciò che considera utile. Il modello si trova quindi sempre nel futuro: sotto questo aspetto, il massimo miglioramento possibile del mondo è l'unico comandamento morale.
La Chiesa invece crede che in principio era il Verbo, e che quindi l'essere stesso porta il linguaggio del Logos, la ragione non solo matematica, ma anche estetica, morale. Ecco che cosa s'intende quando la Chiesa ribadisce che la «natura» ha un valore morale. Nessuno dice che il biologismo debba diventare la norma dell'uomo. Questo concetto è stato proposto solo da una certa corrente di un’evoluzione radicale.
La Chiesa difende dichiaratamente il significato della creazione, e mette in pratica ciò che intende quando dice: io credo in Dio, Creatore del Cielo e della terra. Vi è una ragione dell'essere, e quando l'uomo si stacca totalmente da essa riconoscendo solo il valore di ciò che ha costruito egli stesso, in quel momento egli abbandona ciò che è morale in senso stretto. In un modo o in un altro, stiamo cominciando a renderci conto che la materialità contiene un'espressione spirituale, e non è semplicemente destinata al calcolo e all’uso. Possiamo intravedere che vi è una ragione che ci precede, che essa sola può mantenere in equilibrio la nostra ragione e può impedirci di cadere in una non-ragione esteriore.
Necessità dell'esercizio
In definitiva, il linguaggio dell'essere, il linguaggio della natura, è identico al linguaggio della coscienza. Ma per ascoltare quel linguaggio è necessario, come per qualsiasi linguaggio, esercitarlo. Ora, poiché l'organo preposto a questa funzione è stato mortificato nel nostro mondo tecnologico, ecco che manca una qualsiasi plausibilità. La Chiesa tradirebbe non soltanto il suo messaggio ma il destino stesso dell'umanità, se rinunciasse a essere custode dell'essere e del suo messaggio morale. In questo senso, può essere contrapposta a ciò che è «plausibile», ma nello stesso tempo rappresenta le più profonde rivendicazioni della ragione.
Diventa evidente, a questo punto, che anche la ragione è un organo e non un oracolo. E anche la ragione richiede esercizio e comunità.
Che una persona sia capace di attribuire una ragione all'essere e di decifrare la propria dimensione morale, dipende dal fatto che risponda o non risponda alla domanda su Dio. Se il Verbo che è principio non esiste, non vi può neanche essere un Verbo nelle cose. Ciò che Kolakowski scopriva recentemente, diventa allora enfaticamente vero: quando non vi è Dio, non vi è morale, anzi non vi è neanche umanità.
In questo senso, analizzando le cose più a fondo, tutto dipende da Dio, da un Dio che è Creatore e che ha rivelato sé stesso. Per questa ragione, ancora una volta, abbiamo il bisogno della comunità la quale può garantire quel Dio che nessuno da solo potrebbe pretendere di portare nella propria vita.
La questione di Dio, punto centrale, non è una questione per specialisti. La percezione di Dio è proprio quella semplicità che gli specialisti non potranno mai monopolizzare, che invece può essere percepita soltanto mantenendo una semplicità di visione. Forse ci riesce oggi così difficile affrontare l'essenza dell'umanità, perché non siamo più capaci di semplicità.
La morale richiede quindi non lo specialista ma il testimone. Non ne consegue, naturalmente, che l'opera scientifica riguardante i criteri della morale e la conoscenza specializzata in questo campo siano superflue. Poiché la coscienza esige esercizio, poiché la tradizione deve essere vissuta e deve svilupparsi in epoche di cambiamenti culturali, e poiché il comportamento morale è una risposta alla realtà e quindi richiede una conoscenza della realtà, per tutti questi motivi l'osservazione e lo studio del reale e delle tradizioni della morale sono anch'essi importanti.
In altre parole, cercare una conoscenza approfondita della realtà è un comandamento morale basilare.
Non senza ragione gli antichi ponevano la «prudenza» al primo posto tra le virtù cardinali, interpretandola come volontà e capacità di percepire la realtà e di rispondervi in maniera adeguata.
Il compito generale della Chiesa e di ogni credente quanto alle questioni morali potrebbe alla fine, tutto sommato, essere così brevemente caratterizzato: il credente non insegna ciò che ha scoperto da sé stesso, ma testimonia la vivente saggezza della fede, nella quale la saggezza primitiva dell'umanità viene purificata, mantenuta e approfondita. Attraverso il rapporto con Dio, nella misura in cui la coscienza sia percettiva, quella sapienza umana primitiva diventa un veicolo concreto di comunicazione con la verità attraverso la comunione cui partecipa con la coscienza dei santi, e con la conoscenza di Gesù Cristo. Così il cristiano esprime e vive non una ideologia chiusa, e neppure una teoria limitata all'interno della Chiesa, ma riapre il messaggio dell'essere e da così una risposta autentica alla questione decisiva dell'umanità di oggi e di ogni tempo: alla questione di come si può essere uomo, di come si può vivere una vita veramente umana.
Altri testi utilizzati per l’incontro
Sir 37, 7-15
7 Ogni consigliere suggerisce consigli,
ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio.
8 Guàrdati da un consigliere,
infòrmati quali siano le sue necessità
- egli nel consigliare penserà al suo interesse
- perché non getti la sorte su di te
9 e dica: «La tua via è buona»,
poi si terrà in disparte per vedere quanto ti accadrà.
10 Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco,
nascondi la tua intenzione a quanti ti invidiano.
11 Non consigliarti con una donna sulla sua rivale,
con un pauroso sulla guerra,
con un mercante sul commercio,
con un compratore sulla vendita,
con un invidioso sulla riconoscenza,
con uno spietato sulla bontà di cuore,
con un pigro su un'iniziativa qualsiasi,
con un mercenario annuale sul raccolto,
con uno schiavo pigro su un gran lavoro;
non dipendere da costoro per nessun consiglio.
12 Invece frequenta spesso un uomo pio,
che tu conosci come osservante dei comandamenti
e la cui anima è come la tua anima;
se tu inciampi, saprà compatirti.
13 Segui il consiglio del tuo cuore,
perché nessuno ti sarà più fedele di lui.
14 La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire
meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare.
15 Al di sopra di tutto questo prega l'Altissimo
perché guidi la tua condotta secondo verità.
(da S.Bastianel S.J., Moralità personale nella storia. Dispense, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1993, pagg.40-41)
Se l'ambito della moralità è definito (se ritengo che sia definibile) nei termini del mio intimo rapportarmi con la mia coscienza, senza bisogno di altri elementi, allora in realtà io assumo una figura di coscienza morale che è radicalmente segnata dal negativo; è come pretendere di legittimare moralmente il disinteresse per l'altro. Questo significa centrare la propria moralità si se stessi, cosa che è la radice dell'immoralità. Abbiamo indicato il senso specifico del vivere morale nel consegnarsi all’altro in libera responsabilità. L’atteggiamento ora indicato contraddice direttamente il dinamismo di un’autentica coscienza morale... Non occorre che io faccia un discorso, che io spieghi o difenda la possibilità di separare l'intimità della coscienza dal vivere pubblico: basta che io viva quella separazione e con ciò stesso la mia presenza sarà mediatrice di una comprensione dell'esistenza morale giustificante alla radice la possibilità di un "onesto disinteresse" dell'altro. In termini religiosi sarà il distinguere un sacro da un profano, paradossalmente mettendo sotto il termine "profano" l'uomo che è uscito dalle mani di Dio, facendo diventare profano-poco-importante quello che appartiene all'intenzionalità dell'Alleanza, cioè la solidarietà, la condivisione, la fraternità di vita.
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