Alla lavanda dei piedi seguono, nel Vangelo di
Giovanni, i discorsi di addio di Gesù (capp.
14-16) che alla fine, nel capitolo 17, sfociano in una
grande preghiera, per la quale il teologo luterano
David Chytraeus (1530 - 1600) coniò il termine di
«Preghiera sacerdotale». Nel tempo dei Padri del-
la Chiesa è stato soprattutto Cirillo d'Alessandria
(t 444) a sottolineare il carattere sacerdotale della
preghiera. André Feuillet cita nella sua monogra-
fia su Giovanni 17 un testo di Ruperto di Deutz (t
1129/30), in cui il carattere essenziale della pre-
ghiera è riassunto in modo molto bello: « Haec
pontifex summus propitiator ipse et propitiatorium, sa-
cerdos et sacrificium, pro nobis oravit - Così ha pre-
gato per noi il sommo sacerdote, che era Egli stes-
so propiziatore e offerta di espiazione, sacerdote e
sacrificio» (Joan., in: PL 169, coli. 764B; cfr Feuillet,
p.35).
1. LA FESTA GIUDAICA DELL'ESPIAZIONE
COME SFONDO BIBLICO DELLA PREGHIERA SACERDOTALE
Ho trovato la chiave per la giusta comprensione
di questo grande testo nel già menzionato libro di
Feuillet. Egli dimostra che questa preghiera è
comprensibile solo sullo sfondo della liturgia del-
la festa giudaica dell'Espiazione (Yom kippùr). Il ri-
tuale della festa con il suo ricco contenuto teologi-
co viene realizzato nella preghiera di Gesù - « rea-
lizzato» nel senso letterale: il rito viene tradotto
nella realtà che esso significa. Ciò che lì era rap-
presentato in atti rituali, ora avviene in modo rea-
le e avviene definitivamente.
Per capire questo, dobbiamo innanzitutto guar-
dare al rituale della festa dell'Espiazione descritto
in Levitico 16 e 23,26-32. In quel giorno, il sommo
sacerdote, mediante i rispettivi sacrifici (due capri
per un sacrificio espiatorio, un ariete per un olo-
causto, un giovenco: 16,5s), deve compiere l'espia-
zione prima per se stesso, poi per «la sua casa»,
cioè per la classe sacerdotale di Israele in genere, e
infine per l'intera comunità di Israele (cfr 16, 17).
«Così farà l'espiazione sul santuario per l'impu-
rità degli Israeliti, per le loro trasgressioni e per
tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda del
convegno che si trova fra di loro, in mezzo alle lo-
ro impurità » (16,16).
Durante questi riti, l'unica volta nell'anno, il
sommo sacerdote pronuncia al cospetto di Dio il
santo Nome normalmente indicibile, che Dio ave-
va rivelato presso il roveto ardente - quel Nome,
mediante il quale Egli si era reso, per così dire,
tangibile per Israele. Lo scopo del grande giorno
dell'Espiazione è quindi di ridare a Israele, dopo
le trasgressioni di un anno, la sua qualità di « po-
polo santo», di ricondurlo nuovamente alla sua
destinazione di essere il popolo di Dio in mezzo al
mondo (cfr Feuillet p. 56 e 78). In questo senso si
tratta di ciò che è l'intento più intimo della crea-
zione nel suo insieme: di dar origine ad uno spa-
zio di risposta all'amore di Dio, alla sua santa vo-
lontà.
Secondo la teologia rabbinica, infatti, l'idea del-
l'alleanza, l'idea di creare un popolo santo come
« interlocutore » di Dio e in unione con Lui prece-
de l'idea della creazione del mondo, ne è anzi l'in-
tima ragione. Il cosmo viene creato non perché ci
siano molteplici astri e tante altre cose, ma perché
ci sia uno spazio per 1'« alleanza », per il «sì»
dell'amore tra Dio e l'uomo che gli risponde. La
festa dell'Espiazione ristabilisce ogni volta que-
st'armonia, questo senso del mondo disturbato ri-
petutamente dal peccato, e costituisce perciò il
culmine dell'anno liturgico.
La struttura del rito descritto in Lenitico 16 è preci-
samente ripresa nella preghiera di Gesù: come il
sommo sacerdote compie l'espiazione per sé, per
la classe sacerdotale e per l'intera comunità di
Israele, così Gesù prega per se stesso, per gli apo-
stoli e infine per tutti coloro che, a causa della loro
parola, successivamente avrebbero creduto in Lui
- per la Chiesa di tutti i tempi (cfr Gv 17,20). Egli
santifica « se stesso » e procura santità ai suoi. Sul
fatto che in ciò - nonostante la delimitazione nei
confronti del «mondo» (cfr 17,9) - si tratti in fin
dei conti della salvezza di tutti, della « vita del
mondo » nella sua totalità (cfr 6, 51), dovremo an-
cora riflettere. La preghiera di Gesù Lo manifesta
come il sommo sacerdote del grande giorno del-
l'Espiazione. La sua croce e il suo innalzamento
costituiscono il giorno dell'Espiazione del mondo,
in cui l'intera storia del mondo, contro tutta la col-
pa umana e tutte le sue distruzioni, trova il suo
senso, viene introdotta nel suo vero « perché » e
« dove ».
A questo riguardo la teologia di Giovanni 17
corrisponde perfettamente a ciò che la Lettera agli
Ebrei sviluppa nel dettaglio. L'interpretazione del
culto veterotestamentario nella prospettiva di Ge-
sù Cristo, presentata in essa, è anche l'anima della
preghiera di Giovanni 17. Ma anche la teologia di
san Paolo si orienta verso questo centro che, nella
Seconda Lettera ai Corinzi, si fa sentire nella forma
di una drammatica implorazione: « Vi supplichia-
mo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con
Dio! » (5,20).
E non è forse vero che l'essere gli uomini non
riconciliati con Dio, con il Dio silenzioso, misterio-
so, apparentemente assente e tuttavia onnipresen-
te, costituisce il problema essenziale di tutta la
storia del mondo?
La Preghiera sacerdotale di Gesù è la messa in at-
to del giorno dell'Espiazione, è per così dire la fe-
sta sempre accessibile della riconciliazione di Dio
con gli uomini. A questo punto s'impone la do-
manda circa la connessione tra la Preghiera sacer-
dotale di Gesù e l'Eucaristia. Ci sono tentativi di
interpretare questa preghiera come una specie di
« Preghiera eucaristica », di presentarla, per così
dire, come la versione giovannea dell'istituzione
del Sacramento. Tali tentativi non sono sostenibili.
Ma esiste una connessione più profonda.
Nel parlare di Gesù col Padre, il rituale del
giorno dell'Espiazione viene trasformato in pre-
ghiera: qui si rende concreto quel rinnovamento
del culto a cui miravano la purificazione del tem-
pio e le parole pronunciate da Gesù per spiegare
tale avvenimento. I sacrifici di animali sono supe-
rati. Prende il loro posto ciò che i Padri greci chia-
mavano thysia logiks, sacrificio a modo di parola, e
che Paolo qualifica molto similmente come logike
latreia, come culto modellato sulla parola, corri-
spondente alla ragione (cfr Rm 12,1).
Certo, questa « parola », che prende il posto dei
sacrifici, non è semplicemente parola. È anzitutto
non solo un parlare umano, ma è parola di Colui
che è « la Parola » e quindi trascina tutte le parole
umane dentro il dialogo interiore di Dio, nella sua
ragione e nel suo amore. Ma ancora per un altro
verso è più che parola, perché questa Parola eter-
na ha detto: « Tu non hai voluto né sacrificio né of-
ferta, un corpo invece mi hai preparato » (Ebr 10,5;
cfr Sai 40,7). La Parola è carne; e di più: è un corpo
donato, è sangue versato.
Con l'istituzione dell'Eucaristia, Gesù trasfor-
ma il suo essere ucciso in « parola », nella radica-
lità del suo amore che si dona fino alla morte. Così
Egli stesso diventa «tempio». In quanto la Pre-
ghiera sacerdotale è una forma di messa in atto
dell'auto-donazione di Gesù, essa costituisce il
nuovo culto ed è dall'interno collegata con l'Euca-
ristia: quando tratteremo l'istituzione di questo
sacramento, dovremo ritornare su tutto ciò.
Prima di rivolgere la nostra attenzione ai singoli
temi della Preghiera sacerdotale, occorre tuttavia
menzionare ancora un altro riferimento all'Antico
Testamento, pure questo messo in luce da André
Feuillet. Egli rileva che l'approfondimento spiri-
tuale e il rinnovamento dell'idea del sacerdozio,
incontrati in Giovanni 17, sono già stati compiuti
in anticipo nei carmi di Isaia sul Servo di YHWH,
specialmente in Isaia 53. Il Servo di YHWH, che
carica su di sé l'iniquità di tutti (53, 6), che offre se
stesso in espiazione (53,10), che porta il peccato di
molti (53, 12), svolge in tutto ciò il ministero del
sommo sacerdote, adempie la figura del sacerdo-
zio dal di dentro. È insieme sacerdote e vittima e
in questo modo realizza la riconciliazione. Con ciò
i carmi del Servo di YHWH riprendono tutto il
cammino di approfondimento dell'idea del sacer-
dozio e del culto, come era già stato fatto nella tra-
dizione profetica, specialmente in Ezechiele.
Anche se in Giovanni 17 non si trova alcun riferi-
mento diretto ai carmi del Servo di YHWH, la visio-
ne di Isaia 53 è, tuttavia, fondamentale per il nuovo
concetto di sacerdozio e culto, che appare nell'intero
Vangelo di Giovanni e, particolarmente, nella Preghie-
ra sacerdotale. Abbiamo incontrato tale legame in
modo manifesto nel capitolo sulla lavanda dei piedi;
appare chiaramente percepibile anche nel discorso
sul buon pastore, in cui Gesù per cinque volte dice
di questo pastore che egli offre la vita per le pecore
(cfr Gv 10,11.15.17.18ss), riprendendo così in modo
evidente Isaia 53.
Nella novità della figura di Gesù Cristo - visi-
bile nella rottura esterna col tempio e con i suoi
sacrifici - è tuttavia conservata l'intima unità con
la storia della salvezza dell'antica alleanza. Se
pensiamo alla figura di Mose che, intercedendo
per la salvezza di Israele, offre a Dio la sua vita, si
rende evidente ancora una volta questa unità, la
dimostrazione della quale costituisce uno scopo
essenziale del Vangelo di Giovanni.
2. QUATTRO GRANDI TEMI DELLA PREGHIERA
Dalla grande ricchezza di Giovanni 17 vorrei ora
scegliere quattro temi principali, nei quali appaio-
no aspetti essenziali di questo testo importante e
con ciò del messaggio giovanneo in generale.
«Questa è la vita eterna... »
C'è innanzitutto il versetto 3: « Questa è la vita
eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui
che hai mandato, Gesù Cristo ».
Il tema «vita» (zòè), che fin dal Prologo (1,4)
pervade tutto il Vangelo, appare necessariamente
anche nella nuova liturgia dell'espiazione, che si
realizza nella Preghiera sacerdotale. La tesi di Ru-
dolf Schnackenburg ed altri, secondo cui questo
versetto sarebbe un'aggiunta successiva perché la
parola « vita » in Giovanni 17 non ricorre più in se-
guito, a mio avviso nasce - così come la distinzio-
ne delle fonti nel capitolo sulla lavanda dei piedi -
da quella logica accademica che assume come cri-
terio la forma compositiva di un testo elaborato
oggi dagli studiosi per valutare il modo tanto di-
verso di parlare e di pensare che troviamo nel
Vangelo di Giovanni.
L'espressione « vita eterna » non significa - co-
me pensa forse immediatamente il lettore moder-
no - la vita che viene dopo la morte, mentre la vi-
ta attuale è appunto passeggera e non una vita
eterna. « Vita eterna » significa la vita stessa, la vi-
ta vera, che può essere vissuta anche nel tempo e
che poi non viene più contestata dalla morte fisi-
ca. E ciò che interessa: abbracciare già fin d'ora
«la vita», la vita vera, che non può più essere di-
strutta da niente e da nessuno.
Questo significato di «vita eterna» appare in
modo molto chiaro nel capitolo sulla risurrezione
di Lazzaro: « Chi crede in me, anche se muore, vi-
vrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in
eterno» (Gv ll,25s). «Io vivo e voi vivrete», dice
Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena (Gv
14,19), mostrando con ciò ancora una volta che
per il discepolo di Gesù è caratterizzante che egli
« vive » - che egli quindi, al di là del semplice esi-
stere, ha trovato ed abbracciato la vera vita, della
quale tutti sono in ricerca. In base a tali testi, i pri-
mi cristiani si sono chiamati semplicemente « i vi-
venti» (hoi zöntes). Essi avevano trovato ciò che
tutti cercano: la vita stessa, la vita piena e perciò
indistruttibile.
Ma come si può giungere a ciò? La Preghiera
sacerdotale dà una risposta forse sorprendente,
ma nel contesto del pensiero biblico già preparata:
la « vita eterna » l'uomo la trova mediante la « co-
noscenza » - presupponendo con ciò il concetto
veterotestamentario di «conoscere», secondo cui
conoscere crea comunione, è un essere tutt'uno
con il conosciuto. Ma naturalmente non qualunque
conoscenza è la chiave della vita, bensì il fatto
«che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che
hai mandato, Gesù Cristo» (17,3). Questa è una
specie di formula sintetica della fede, nella quale
appare il contenuto essenziale della decisione di
essere cristiani - la conoscenza donata a noi dalla
fede. Il cristiano non crede una molteplicità di co-
se. Crede, in fondo, semplicemente in Dio, crede
che esiste solo un unico vero Dio.
Questo Dio, però, gli si rende accessibile in Co-
lui che Egli ha mandato, Gesù Cristo: nell'incontro
con Lui avviene quella conoscenza di Dio che di-
venta comunione e con ciò diventa «vita». Nella
formula duplicata - « Dio e colui che ha manda-
to » - si può sentire l'eco di ciò che ricorre molte
volte soprattutto negli oracoli del Signore presenti
nel Libro dell'Esodo: devono credere in « me » - in
Dio - e in Mose, il suo inviato. Dio mostra il suo
volto nell'inviato - in definitiva nel Figlio suo.
«Vita eterna» è quindi un avvenimento relaziona-
le. L'uomo non l'ha acquisita da sé, per se soltanto.
Mediante la relazione con Colui che è Egli stesso la
vita, anche l'uomo diventa un vivente.
Stadi preparatori di questo pensiero profonda-
mente biblico si possono trovare anche in Platone,
che ha accolto nella sua opera tradizioni e rifles-
sioni assai diverse sul tema dell'immortalità. Così
c'è in lui anche l'idea secondo cui l'uomo può di-
ventare immortale unendo se stesso a ciò che è
immortale. Quanto più egli accoglie in sé la verità,
si lega alla verità e aderisce ad essa, tanto più vive
in riferimento a ciò ed è colmato di ciò che non
può essere distrutto. Nella misura in cui, per così
dire, attacca se stesso alla verità, nella misura in
cui è sostenuto da ciò che permane, egli può esse-
re sicuro della vita dopo la morte - di una vita
piena di salvezza.
Ciò che qui viene cercato solo a tentoni, appare
in magnifica chiarezza nella parola di Gesù. L'uo-
mo ha trovato la vita, quando si attacca a Colui
che è Egli stesso la vita. Allora molte cose in lui
possono essere distrutte. La morte può toglierlo
dalla biosfera, ma la vita che la trascende, la vita
vera, quella rimane. In questa vita che, distin-
guendola dal bios, Giovanni chiama zöe, l'uomo
deve inserirsi. È la relazione con Dio in Gesù Cri-
sto che dona quella vita che nessuna morte è in
grado di togliere.
È ovvio che con questo "vivere in relazione"
s'intende un modo dell'esistenza ben concreto;
s'intende che fede e conoscenza non sono un qual-
siasi sapere presente nell'uomo fra altre cose, ma
che costituiscono la forma della sua esistenza. An-
che se in questo punto non si parla dell'amore, è
tuttavia evidente che la «conoscenza» di Colui
che è l'amore stesso diventa amore in tutta la va-
stità del suo dono e della sua esigenza.
«Consacrali nella verità... »
In secondo luogo vorrei scegliere il tema della
consacrazione e del consacrare - il tema che indica
nel modo più forte la connessione con l'evento
della riconciliazione e col sommo sacerdozio.
Nella preghiera per i discepoli Gesù dice:
«Consacrali nella verità; la tua parola è verità...
Per loro io consacro me stesso, perché siano an-
ch'essi consacrati in verità » (Gv 17,17.19). Dai testi
ove sono riferite le dispute di Gesù con i suoi av-
versari prendiamo ancora un brano che rientra in
questo contesto: lì Gesù si qualifica come «colui
che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo »
(10,36). Si tratta quindi di una triplice «consacra-
zione»: il Padre ha consacrato il Figlio e lo ha
mandato nel mondo; il Figlio consacra se stesso e
chiede che, a partire dalla sua consacrazione, i di-
scepoli siano consacrati nella verità.
Che significa «consacrare»? «Consacrato»,
cioè « santo » (qadoS nella Bibbia ebraica) nel sen-
so pieno secondo la concezione biblica è solo Dio
stesso. Santità è l'espressione usata per esprimere
il suo particolare modo d'essere, l'essere divino
come tale. Così la parola «santificare, consacra-
re » significa il trasferimento di una realtà - di
una persona o di una cosa - nella proprietà di
Dio, specialmente la sua destinazione al culto.
Ciò può essere, da una parte, la consacrazione
per il sacrificio (cfr Es 13,2; Dt 15,19); dall'altra,
può significare la consacrazione al sacerdozio
(cfr Es 28,41) - la destinazione di un uomo a Dio
e al culto divino.
Il processo della consacrazione, della « santifi-
cazione», comprende due aspetti che apparente-
mente si oppongono a vicenda, ma in realtà inte-
riormente vanno insieme. Da una parte, «consa-
crazione » nel senso di « santificazione » è una se-
gregazione dal resto dell'ambiente, appartenente
alla vita personale dell'uomo. La cosa consacrata
viene elevata in una nuova sfera non più a dispo-
sizione dell'uomo. Ma questa segregazione inclu-
de allo stesso tempo essenzialmente il «per». Pro-
prio perché donata totalmente a Dio, questa realtà
esiste ora per il mondo, per gli uorriini, li rappre-
senta e li deve guarire. Possiamo dire anche: se-
gregazione e missione formano un'unica realtà
completa.
Questa connessione si rende molto evidente, se
pensiamo alla vocazione particolare di Israele: da
una parte, il popolo è segregato da tutti gli altri
popoli, ma dall'altra, lo è proprio per svolgere un
incarico per tutti i popoli, per tutto il mondo. È ciò
che s'intende con la qualifica di Israele come « po-
polo santo».
Ritorniamo al Vangelo di Giovanni. Che cosa signi-
ficano le tre consacrazioni (santificazioni), di cui lì
si parla? Innanzitutto ci viene detto che il Padre
ha mandato il Figlio nel mondo e lo ha consacrato
(cfr 10,36). Che cosa significa? Gli esegeti ci fanno
notare che un certo parallelismo con questa frase è
rinvenibile nelle parole della vocazione del profe-
ta Geremia: « Prima di formarti nel grembo mater-
no, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce,
ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazio-
ni» (Ger 1,5). Consacrazione significa la rivendica-
zione totale dell'uomo da parte di Dio, la « segre-
gazione » per Lui, che tuttavia è allo stesso tempo
una missione per i popoli.
Anche nella parola di Gesù, consacrazione e
missione sono strettamente connesse l'una con
l'altra. Si può dunque dire che questa consacrazio-
ne di Gesù da parte del Padre è identica all'incar-
nazione: esprime insieme l'unità piena col Padre e
l'esserci pienamente per il mondo. Gesù appartie-
ne interamente a Dio e proprio per questo è total-
mente a disposizione « di tutti ». « Tu sei il Santo
di Dio », gli aveva detto Pietro nella sinagoga di
Cafarnao, offrendo con ciò un'ampia professione
cristologica (Gv 6,69).
Ma se il Padre lo ha « consacrato », che cosa si-
gnifica allora: «Io consacro (hagiàzo) me stesso»
(17,19)? È convincente la risposta che Rudolf Bult-
mann dà a questa domanda nel suo commento a
Giovanni: « Qui, nella preghiera di addio nell'im-
mediatezza della passione e in collegamento con
Yhypèr autori (per loro), hagiàzo significa un " con-
sacrare" nel senso di "consacrare per il sacrifi-
cio"». In questo contesto Bultmann cita, appro-
vandola, una parola di san Giovanni Crisostomo:
« Mi consacro - dono me stesso come sacrificio »
(Das Evangelium des Johannes, p. 391, nota 3; cfr an-
che Feuillet, pp. 31 e 38). Mentre la prima «consa-
crazione » si riferisce all'incarnazione, qui si tratta
della passione come sacrificio.
Bultmann ha illustrato l'intima connessione tra
le due « consacrazioni » in modo molto bello. La
consacrazione di Gesù da parte del Padre, la sua
« santità », è un « essere per il mondo ossia per i
suoi ». Questa santità « non è un essere diverso dal
mondo in modo statico, sostanziale, ma è una san-
tità che Egli acquista man mano nel compimento
del suo impegno per Dio e contro il mondo. Que-
sto compimento, però, significa sacrificio. Nel sa-
crificio Gesù è, nel modo che è proprio di Dio, così
contro il mondo che al contempo Egli è per esso ».
(ibid., p. 391). In questa affermazione si può criti-
care la radicale distinzione tra l'essere sostanziale
e il compimento del sacrificio: l'essere « sostanzia-
le » di Gesù è, come tale, totalmente una dinamica
dell'«essere per»; ambedue sono inseparabili. Ma
forse anche Bultmann ha voluto dire proprio que-
sto. Bisogna inoltre dargli ragione, quando di que-
sto versetto di Gv 17,19 egli dice che «l'allusione
alle parole nell'ultima cena è incontestabile » (ibid.,
p. 391, nota 3).
Così in queste poche parole abbiamo davanti la
nuova liturgia dell'espiazione di Gesù Cristo, la li-
turgia della nuova alleanza, in tutta la sua gran-
dezza e purezza. Gesù stesso è il sacerdote man-
dato nel mondo dal Padre; Egli stesso è il sacrifi-
cio, che si rende presente nell'Eucaristia di tutti i
tempi. In qualche modo Filone d'Alessandria ave-
va intuito in anticipo il giusto significato, quando
parlava del Logos come sacerdote e sommo sacer-
dote (Leg. all. III 82; De somn. I 215; II 183; un ac-
cenno anche in Bultmann, ibid.). Il senso della fe-
sta dell'Espiazione è pienamente compiuto nel
« Verbo » che si è fatto carne « per la vita del mon-
do » (Gv 6,51).
Arriviamo ora alla terza consacrazione di cui si
parla nella preghiera di Gesù: «Consacrali nella
verità » (17,17). « Io consacro me stesso, perché sia-
no anch'essi consacrati in verità » (17,19). I disce-
poli devono essere coinvolti nella consacrazione
di Gesù; anche in loro deve compiersi questo pas-
saggio di proprietà, questo trasferimento nella sfe-
ra di Dio e con ciò realizzarsi il loro invio nel
mondo. «Io consacro me stesso, perché siano an-
ch'essi consacrati in verità»: il loro passaggio nel-
la proprietà di Dio, la loro « consacrazione » è le-
gata alla consacrazione di Gesù Cristo, è parteci-
pazione al suo essere consacrato.
Tra i due versetti 17 e 19, che parlano della
consacrazione dei discepoli, c'è una differenza
piccola, ma importante. Nel versetto 19 si dice
che essi devono essere consacrati «in verità»:
non solo ritualmente, ma veramente, nell'intero
loro essere - così, secondo me, è da tradurre
questo versetto. Nel versetto 17, invece, si dice:
«Consacrali nella verità». Qui la verità è qualifi-
cata come forza della santificazione, come « loro
consacrazione ».
Secondo il Libro dell'Esodo la consacrazione sa-
cerdotale dei figli di Aronne si compie mediante
la vestizione con gli indumenti sacri e mediante
l'unzione (cfr 29,1-9); nel rituale del giorno dell'E-
spiazione si parla anche di un bagno completo
primo di indossare le vesti sacre (cfr Lev 16,4). I
discepoli di Gesù vengono santificati, consacrati
«nella verità ». La verità è il lavacro che li purifica,
la verità è la veste e l'unzione di cui hanno biso-
gno-
Questa « verità » purificatrice e santificatrice, in
ultima analisi, è Cristo stesso. In Lui devono esse-
re immersi, di Lui devono essere come « rivestiti »,
e così sono resi partecipi della sua consacrazione,
del suo incarico sacerdotale, del suo sacrificio.
Dopo la fine del tempio, il giudaismo anche da
parte sua ha dovuto cercare una nuova interpreta-
zione delle prescrizioni cultuali. Esso vedeva ora
la « santificazione » nel compimento dei coman-
damenti - nell'immersione nella parola sacra di
Dio e nella volontà di Dio che vi si esprime (cfr
Schnackenburg, Johannesevangelium, III, p. 211).
Nella fede dei cristiani, Gesù è la Torà in perso-
na, e così la santificazione si realizza nella comu-
nione del volere e dell'essere con Lui. Se con la
consacrazione dei discepoli nella verità si tratta in
ultima analisi della partecipazione alla missione
sacerdotale di Gesù, allora possiamo scorgere in
queste parole del Vangelo di Giovanni l'istituzione
del sacerdozio degli apostoli, del sacerdozio neo-
testamentario che, nel più profondo, è un servizio
alla verità.
«Io ho fatto conoscere loro il tuo nome...»
Un altro tema fondamentale della Preghiera sacer-
dotale è la rivelazione del nome di Dio: « Ho ma-
nifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato
dal mondo» (Gv 17,6). «Io ho fatto conoscere loro
il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore
con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro »
(17,26).
È ovvio che con queste parole Gesù si presenta
come il nuovo Mose, che porta a termine ciò che
ha preso inizio con Mose presso il roveto ardente.
Dio aveva rivelato a Mose il suo «nome». Questo
«nome» era più di una parola. Esso significava
che Dio si lasciava invocare, era entrato in comu-
nione con Israele. Così, nel corso della storia della
fede di Israele, diventava sempre più evidente che
con « nome di Dio » si intendeva alludere alla sua
«immanenza»: al suo «esserci» in mezzo agli uo-
mini, un « esserci » in cui Egli è totalmente presen-
te e, tuttavia, trascende infinitamente tutto ciò che
è umano e mondano.
L'espressione «nome di Dio» significa: Dio co-
me Colui che è presente tra gli uomini. Così si di-
ce del tempio in Gerusalemme che lì Dio ha « fis-
sato la sede del suo nome» (cfr Dt 12,11 e passim).
Israele non avrebbe mai osato dire semplicemen-
te: lì abita Dio. Sapeva che Dio era infinitamente
grande, che trascendeva e abbracciava l'universo.
E tuttavia era veramente presente: proprio Lui. È
questo che s'intende quando si dice: « Lì Egli ha
stabilito il suo nome ». È realmente presente, ep-
pure rimane sempre immensamente più grande
ed inafferrabile. Il « nome di Dio » è Dio stesso co-
me Colui che si dona a noi; nonostante tutta la
certezza della sua vicinanza e tutta la gioia per
questo fatto, Egli resta sempre infinitamente più
grande.
Questo è il concetto del nome di Dio in base al
quale Gesù parla. Quando dice di aver fatto cono-
scere il nome di Dio e di volerlo far conoscere an-
cora, non intende con ciò riferirsi ad una qualche
parola nuova che Egli avrebbe comunicato agli
uomini come parola particolarmente adatta per
qualificare Dio. La rivelazione del nome è un nuo-
vo modo della presenza di Dio tra gli uomini, un
modo nuovo e radicale nel quale Dio si rende pre-
sente tra gli uomini. In Gesù Dio entra totalmente
nel mondo degli uomini: chi vede Gesù, vede il
Padre (cfr Gv 14,9).
Se possiamo dire che nell'Antico Testamento
l'immanenza di Dio era data nella dimensione
della parola e dell'adempimento liturgico, questa
immanenza è ora diventata ontologica: in Gesù
Dio si è fatto uomo. Dio è entrato nel nostro stesso
essere. In Lui Dio è veramente il « Dio-con-noi ».
L'incarnazione, mediante la quale questa nuova
forma d'essere di Dio come Uomo si è realizzata,
diventa per mezzo del suo sacrificio un avveni-
mento per l'umanità intera: come Risorto Egli vie-
ne nuovamente per fare di tutti il suo Corpo, il
tempio nuovo. La «rivelazione del nome» ha di
mira che « l'amore con il quale mi hai amato sia in
essi e io in loro» (17,26). Ha di mira la trasforma-
zione del cosmo, affinché esso in unità con Cristo
diventi in modo totalmente nuovo la vera dimora
di Dio.
Basii Studer ha fatto notare che, agli inizi del cri-
stianesimo, « ambienti influenzati dal giudaismo »
avrebbero « sviluppato una particolare cristologia
del nome». «Nome, Legge, Alleanza, Principio,
Giorno » divennero allora titoli di Cristo (Gott und
unsere Erlösung..., p. 56 e 61). Si sa: lo stesso Cristo
come persona è « il nome » di Dio, l'accessibilità di
Dio per noi.
« Ho fatto conoscere il tuo nome e lo farò cono-
scere ». - L'auto-donazione di Dio in Cristo non è
una cosa del passato: « Lo farò conoscere ». In Cri-
sto Dio viene continuamente incontro agli uomini,
affinché essi possano andare incontro a Lui. Far
conoscere Cristo significa far conoscere Dio. Me-
diante l'incontro con Cristo, Dio viene verso di
noi, ci attrae in sé (cfr Gv 12,32), per condurci, per
così dire, al di là di noi stessi verso l'ampiezza in-
finita della sua grandezza e del suo amore.
«Tutti siano una cosa sola...»
Un altro grande tema della Preghiera sacerdotale
è la futura unità dei discepoli di Gesù. Con ciò lo
sguardo di Gesù - in modo unico nei Vangeli - va
oltre la comunità dei discepoli del momento e si
volge verso tutti coloro che « per la loro parola
crederanno » (Gv 17,20): il vasto orizzonte della
comunità futura dei credenti si apre attraverso le
generazioni, la futura Chiesa è inclusa nella pre-
ghiera di Gesù. Egli invoca l'unità per i futuri di-
scepoli.
Quattro volte il Signore ripete questa richiesta;
due volte viene indicato come scopo di tale unità
che il mondo creda, anzi, che « riconosca » che Ge-
sù è stato mandato dal Padre: « Padre santo, cu-
stodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato,
perché siano una sola cosa, come noi» (v. 11).
«Tutti siano una sola cosa: come tu, Padre, sei in
me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mon-
do creda che tu mi hai mandato» (v. 21). «...siano
una sola cosa come noi siamo una sola cosa ... sia-
no perfetti nell'unità e il mondo riconosca che tu
mi hai mandato...» (vv. 22s).
In nessun discorso riguardante l'ecumenismo
manca il riferimento a questo « testamento » di
Gesù - al fatto che, prima di andare sulla croce,
Egli scongiurando abbia implorato il Padre per
l'unità dei futuri discepoli, della Chiesa di tutti i
tempi. E va bene così. Ma tanto più urgente è la
domanda: per quale unità Gesù ha pregato? Qual
è la sua richiesta per la comunità dei credenti nel
corso della storia?
È istruttivo sentire di nuovo su questa doman-
da Rudolf Bultmann. Egli dice innanzitutto - co-
me è scritto nel Vangelo - che questa unità è fon-
data nell'unità tra il Padre e il Figlio, per poi con-
tinuare: « Si fonda, quindi, non in dati di fatto na-
turali o di carattere storico-universale e non può
neppure essere stabilita mediante organizzazione,
istituzioni e dogmi... L'unità può essere creata so-
lo mediante la parola dell'annuncio, in cui il Rive-
latore - nella sua unità col Padre - ogni volta è
presente. E sebbene l'annuncio per la sua realizza-
zione nel mondo abbia bisogno delle istituzioni e
dei dogmi, questi, tuttavia, non possono garantire
l'unità di un annuncio autentico. D'altra parte, a
causa dell'effettivo frazionamento della Chiesa -
che, del resto, è proprio la conseguenza delle sue
istituzioni e dei suoi dogmi - l'unità dell'annuncio
non deve necessariamente essere vanificata. La
Parola può risuonare in modo autentico ovunque
la tradizione venga mantenuta. Poiché l'autenti-
cità dell'annuncio non è... controllabile e poiché
la fede che risponde alla Parola è invisibile, anche
l'unità autentica della comunità è invisibile... È
invisibile, perché non è affatto un fenomeno mon-
dano...» (Das Evangelium des Johannes, pp. 393s).
Queste frasi sono sorprendenti. Molte cose in
esse sarebbero da discutere, innanzitutto il concet-
to di « istituzioni » e di « dogmi », ma ancora di
più, poi, quello di «annuncio», che ovviamente
creerebbe esso stesso l'unità. È vero che nell'an-
nuncio il Rivelatore è presente nella sua unità col
Padre? Non è forse spesso sorprendentemente as-
sente? Ebbene, Bultmann ci dà un certo criterio ri-
guardo all'ambiente dove la Parola risuona «in
modo autentico»: ovunque «la tradizione venga
mantenuta». Quale tradizione?, bisogna allora do-
mandare. Da dove proviene, in che cosa consiste?
Non ogni annuncio è dunque «autentico»; ma co-
me possiamo riconoscerlo? L'« annuncio autenti-
co» creerebbe, esso stesso, l'unità. Il «fraziona-
mento di fatto » della Chiesa non sarebbe in grado
di ostacolare l'unità proveniente dal Signore, ci in-
segna Bultmann.
Non c'è quindi nessun bisogno dell'ecumeni-
smo, perché l'unità viene creata nell'annuncio e
non viene ostacolata dalle divisioni della storia?
Forse è anche significativo che Bultmann usi la
parola «Chiesa», dove parla di frazionamento e
invece la parola «comunità», dove tratta dell'u-
nità. L'unità dell'annuncio non è controllabile, ci
dice. Per questo l'unità della comunità sarebbe in-
visibile come lo è la fede. L'unità sarebbe invisibi-
le, perché « non è affatto un fenomeno mondano ».
È questa, allora, l'interpretazione giusta della sup-
plica di Gesù? Certamente è vero che l'unità dei di-
scepoli - della Chiesa futura -, che Gesù chiede,
«non è un fenomeno mondano ». Questo, il Signore
lo dice molto chiaramente: l'unità non viene dal
mondo; non è possibile trarla dalle forze proprie
del mondo. Le stesse forze del mondo conducono
alla divisione: noi lo vediamo. Nella misura in cui
nella Chiesa, nella cristianità, è all'opera il mondo,
si finisce nelle divisioni. L'unità può venire sola-
mente dal Padre mediante il Figlio. Essa ha a che
fare con la « gloria » che il Figlio dà: con la sua pre-
senza donata mediante lo Spirito Santo - una pre-
senza che è frutto della croce, della trasformazione
del Figlio nella morte e risurrezione.
Ma la forza di Dio opera entrando in mezzo al
mondo, in cui i discepoli vivono. Essa deve essere
di una qualità tale da permettere al mondo di « ri-
conoscerla» e così di giungere alla fede. Ciò che
non proviene dal mondo può e deve assolutamen-
te essere qualcosa che sia efficace nel e per il mon-
do e sia anche percepibile da esso. La preghiera di
Gesù per l'unità ha di mira proprio questo, che
mediante l'unità dei discepoli la verità della sua
missione si renda visibile agli uomini. L'unità de-
ve apparire, essere riconoscibile, e riconoscibile
precisamente come qualcosa che altrove nel mon-
do non esiste; qualcosa che in base alle forze pro-
prie dell'umanità non è spiegabile e che quindi
rende visibile l'operare di una forza diversa. Me-
diante l'unità umanamente inspiegabile dei disce-
poli di Gesù attraverso tutti i tempi, viene legitti-
mato Gesù stesso. Diventa evidente che Egli è ve-
ramente il « Figlio ». Così Dio si rende riconoscibi-
le come Creatore di un'unità che supera la tenden-
za del mondo alla disintegrazione.
Per questo il Signore ha pregato: per un'unità
che è possibile solo a partire da Dio e mediante
Cristo, un'unità che però appare in modo così
concreto che la forza presente ed operante di Dio
diventa evidente. Per questo la fatica per un'unità
visibile dei discepoli di Cristo rimane un compito
urgente per i cristiani di tutti i tempi e di tutti i
luoghi. L'unità invisibile della « comunità » non
basta.
Possiamo conoscere ancora qualcosa di più sulla
natura e sul contenuto dell'unità per la quale Ge-
sù prega? Un primo elemento essenziale di tale
unità è già emerso nelle nostre precedenti consi-
derazioni: essa si basa sulla fede in Dio e in Colui
che ha mandato: Gesù Cristo. L'unità della Chiesa
futura si basa quindi su quella fede che Pietro, do-
po la defezione dei discepoli, ha professato a no-
me dei Dodici nella sinagoga di Cafarnao: « Noi
abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di
Dio»(Gz> 6,69).
Questa professione è molto vicina, quanto al
contenuto, alla Preghiera sacerdotale. Incontriamo
qui Gesù come Colui che il Padre ha consacra-
to/ santificato, che si consacra per i discepoli e che
consacra gli stessi discepoli nella verità. La fede è
più di una parola, più di un'idea: essa significa
entrare nella comunione con Gesù Cristo e, me-
diante Lui, con il Padre. È il vero fondamento del-
la comunità dei discepoli, la base per l'unità della
Chiesa.
Questa fede, nel suo nucleo, è «invisibile». Ma
poiché i discepoli si legano all'unico Cristo, essa
diventa «carne» e congiunge insieme i singoli in
un vero « corpo ». L'incarnazione del Logos conti-
nua fino alla piena maturità di Cristo (cfr E/4,13).
Nella fede in Cristo come inviato dal Padre è in-
clusa, quale secondo elemento, la struttura della
missione. Abbiamo visto che santità, cioè apparte-
nenza al Dio vivente, significa missione.
Così, Gesù come il Santo di Dio, in tutto il Van-
gelo di Giovanni e proprio anche nel capitolo 17, è
l'inviato di Dio. L'intero suo essere è « essere in-
viato». Che cosa ciò significhi, si vede in un'e-
spressione del capitolo 7, dove il Signore dice: « La
mia dottrina non è mia» (v. 16). Egli vive total-
mente a partire dal Padre e non gli contrappone
null'altro, nessuna cosa solamente propria. Nei di-
scorsi di addio, tale natura caratteristica del Figlio
viene estesa e applicata anche allo Spirito Santo:
« Non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che
avrà udito» (16,13). Il Padre manda lo Spirito in
nome di Gesù (cfr 14,26); Gesù lo manda dal Pa-
dre (cfr 15,26).
Dopo la risurrezione, Gesù attira i discepoli
dentro questa corrente della missione: « Come il
Padre ha mandato me, anche io mando voi»
(20,21). Per la comunità dei discepoli di tutti i tem-
pi deve essere un segno qualificante la condizione
dell'essere inviata da parte di Gesù. Questo signi-
fica per essa sempre: « La mia dottrina non è
mia »; i discepoli non annunciano se stessi, ma di-
cono ciò che hanno udito. Essi rappresentano Cri-
sto, come Cristo rappresenta il Padre. Si lasciano
guidare dallo Spirito Santo, sapendo che in questa
fedeltà assoluta è operante allo stesso tempo la di-
namica del maturare: « Lo Spirito di verità vi gui-
derà alla verità tutta intera » (16,13).
Per questo essenziale «essere mandati» dei di-
scepoli di Cristo, per il legame alla sua parola e alla
forza del suo Spirito, la Chiesa antica ha trovato la
forma della «successione apostolica». Il perdurare
della missione è « sacramento », cioè non una fa-
coltà gestita autonomamente e neppure un'istitu-
zione fatta dagli uomini, ma un essere « coinvolti »
nel « Verbo fin dal principio » (1 Gv 1,1), nella co-
munità dei testimoni creata dallo Spirito. La parola
greca per « successione » - diadoché - ha insieme un
senso strutturale e contenutistico: significa il per-
durare della missione nei testimoni. Ma indica an-
che il contenuto: la parola trasmessa, alla quale il
testimone viene vincolato mediante il sacramento.
Insieme con la « successione apostolica », l'anti-
ca Chiesa ha trovato (non inventato!) due altri ele-
menti fondamentali per la sua unità: il Canone
della Scrittura e il cosiddetto Simbolo della fede.
Quest'ultimo è una breve somma, non fissata nel-
le singole formulazioni, dei contenuti essenziali
della fede, una somma che nelle varie professioni
battesimali della Chiesa primitiva ha trovato una
forma elaborata secondo criteri liturgici. Questo
Simbolo della fede o Credo costituisce la vera « er-
meneutica » della Scrittura, la chiave tratta da es-
sa, per interpretarla secondo il suo spirito.
L'unità di questi tre elementi costitutivi della
Chiesa - il sacramento della successione, la Scrit-
tura, il Simbolo della fede (Credo) - è la vera ga-
ranzia che « la Parola » possa « risuonare in modo
autentico » e « la tradizione venga mantenuta » (cfr
Bultmann). Naturalmente nel Vangelo di Giovanni
non si parla in questo modo dei tre pilastri della
comunità dei discepoli, della Chiesa, ma con il ri-
ferimento alla fede trinitaria e all'essere inviati ne
sono stati tuttavia posti i fondamenti.
Torniamo ancora al fatto che Gesù prega affin-
ché, mediante l'unità dei discepoli, il mondo pos-
sa riconoscerlo come l'inviato dal Padre. Questo
riconoscere e credere non è una cosa semplice-
mente intellettuale; è l'essere toccati dall'amore di
Dio, quindi qualcosa che trasforma, il dono della
vita vera.
Si rende evidente l'universalità della missione
di Gesù: non riguarda soltanto un circolo limitato
di eletti; il suo obiettivo è il cosmo - il mondo nel-
la sua totalità. Mediante i discepoli e la loro mis-
sione il mondo nel suo insieme deve essere strap-
pato dalla sua alienazione, deve ritrovare l'unità
con Dio.
Questo orizzonte universale della missione di
Gesù appare anche in due altri testi importanti del
quarto Vangelo; innanzitutto nel colloquio nottur-
no di Gesù con Nicodèmo: « Dio ha tanto amato il
mondo da dare il suo Figlio unigenito » (3,16) e
poi - ora con l'accento sul sacrificio della vita -
nel discorso sul pane a Cafarnao: « Il pane che io
darò è la mia carne per la vita del mondo » (6,51).
Ma in che rapporto con questo universalismo
sta la parola dura che si trova nel versetto 9 della
Preghiera sacerdotale: « Io prego per loro; non
prego per il mondo »? Per comprendere l'unità in-
teriore delle due richieste apparentemente contra-
stanti, dobbiamo considerare che Giovanni usa la
parola «cosmos» - mondo - in un duplice senso.
Da una parte, essa indica tutta la buona creazione
di Dio, particolarmente gli uomini come creature
sue, che Egli ama fino alla donazione di se stesso
nel Figlio. Dall'altra, la parola designa il mondo
umano come storicamente si è sviluppato: in esso
corruzione, menzogna, violenza sono diventate,
per così dire, la cosa « naturale ». Blaise Pascal
parla di una seconda natura che, nel corso della
storia, si sarebbe sovrapposta alla prima. Filosofi
moderni hanno illustrato questa situazione storica
dell'uomo in molteplici modi; per esempio Martin
Heidegger, quando parla dell'essere condizionati
dal « si » impersonale, dell'esistere nella « non-au-
tenticità ». In maniera molto diversa appare la
stessa problematica, quando Karl Marx illustra
l'alienazione dell'uomo.
Con questo, la filosofia descrive in fondo preci-
samente ciò che la fede chiama «peccato origina-
le». Questa specie di «mondo» deve scomparire;
deve essere trasformato nel mondo di Dio. Pro-
prio questa è la missione di Gesù, nella quale i di-
scepoli vengono coinvolti: condurre il « mondo »
fuori dall'alienazione dell'uomo da Dio e da se
stesso, affinché il mondo torni ad essere di Dio e
l'uomo, nel diventare una cosa sola con Dio, torni
ad essere totalmente se stesso: Questa trasforma-
zione, però, ha il prezzo della croce e per i testi-
moni di Cristo quello della disponibilità al marti-
rio.
Se diamo, infine, uno sguardo retrospettivo all'in-
sieme della preghiera per l'unità, possiamo dire
che in essa si compie l'istituzione della Chiesa, an-
che se la parola « Chiesa » non viene usata. Che al-
tro, infatti, è la Chiesa se non la comunità dei di-
scepoli che, mediante la fede in Gesù Cristo come
inviato del Padre, riceve la sua unità ed è coinvol-
ta nella missione di Gesù di salvare il mondo con-
ducendolo alla conoscenza di Dio?
La Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. Que-
sta preghiera, però, non è soltanto parola: è l'atto
in cui Egli « consacra » se stesso, cioè « si sacrifica »
per la vita del mondo. Possiamo anche dire, rove-
sciando l'affermazione: nella preghiera l'evento
crudele della croce diventa « parola », diventa fe-
sta dell'espiazione tra Dio e il mondo. Da questo
scaturisce la Chiesa come la comunità di coloro
che, mediante la parola degli apostoli, credono in
Cristo (cfr 17,20).
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