J. Ratzinger - Benedetto XVI. La fine del Tempio. (Da Gesù di Nazaret. Vol II)


LA FINE DEL TEMPIO

Prima di rivolgere la nostra attenzione nuovamente
alle parole di Gesù, dobbiamo però gettare
uno sguardo sugli avvenimenti storici dell'anno
70. Con la cacciata del procuratore Gessio Floro e
la difesa efficace di fronte al contrattacco romano,
nel 66 era iniziata la guerra giudaica che, tuttavia,
non è stata soltanto una guerra dei Giudei contro i
Romani, ma in gran parte periodicamente anche
una guerra civile tra correnti giudaiche rivaleggianti
sotto la guida dei loro capi. Fu innanzitutto
questo a conferire alla battaglia per Gerusalemme
tutta la sua atrocità.
Eusebio di Cesarea (t ca. 339) e - con valutazioni
diverse - Epifanio di Salamina (+ 403) ci riferiscono
che, già prima dell'inizio dell'assedio di Gerusalemme,
i cristiani si sarebbero rifugiati nella
regione ad Est del Giordano, nella città di Pella.
Secondo Eusebio si decisero alla fuga dopo che ai
loro «responsabili» fu affidato mediante rivelazione
uno specifico ordine (cfr Hist. eccl. III, 5).
Epifanio, invece, scrive: «Cristo aveva loro detto
di abbandonare Gerusalemme e trasferirsi altrove,
perché la città sarebbe stata assediata » (Haer.
29,8). Di fatto leggiamo nel discorso escatologico
di Gesù un pressante invito alla fuga: «Quando
vedrete l'abominio della devastazione presente là
dove non è lecito ... allora quelli che si trovano
nella Giudea fuggano sui monti» (Me 13,14).
In quale vicenda o in quale realtà i cristiani vedessero
realizzato questo segno dell'« abominio
della devastazione» e decidessero la partenza,
non è precisabile. Ma c'erano, in quegli anni della
guerra giudaica, avvenimenti a sufficienza, che
potevano essere interpretati come questo segno
annunciato da Gesù, la cui formulazione verbale è
tratta dal Libro di Daniele (9,27; 11,31; 12,11), dove
indica la profanazione ellenistica del tempio. Questa
espressione simbolica, mutuata dalla storia di
Israele, in quanto annuncio dell'avvenire, consentiva
differenti interpretazioni. Così, il testo di Eusebio
può risultare certamente ragionevole nel
senso, per esempio, che membri ragguardevoli
della comunità paleocristiana « mediante una rivelazione
» riconobbero in un certo evento il segno
preannunciato e lo interpretarono come ordine di
iniziare immediatamente la fuga.
Alexander Mittelstaedt fa notare che nell'estate
66, accanto a Giuseppe ben Gorion, l'ex sommo
sacerdote Anna II fu scelto come stratega per condurre
la guerra - quell' Anna che poco prima, nell'anno
62 d. Cr., aveva decretato la condanna a
morte del «fratello del Signore», Giacomo, capo
della comunità giudeo-cristiana (Lukas als Historiker,
p. 68). Questa scelta poteva senz'altro essere
interpretata dai giudeo-cristiani come segnale per
la partenza, anche se questa certamente può costituire
soltanto una tra molte ipotesi. La fuga dei
giudeo-cristiani dimostra, comunque, ancora in
tutta evidenza il « no » dei cristiani alla interpretazione
zelota del messaggio biblico e della figura di
Gesù: la loro speranza è di natura diversa.
Torniamo allo svolgimento della guerra giudaica.
Vespasiano, che era stato incaricato dell'operazione
da Nerone, sospese tutte le azioni militari,
quando nel 68 fu annunciata la morte dell'imperatore.
Dopo un breve intermezzo, il 1° luglio 69 Vespasiano
stesso fu proclamato nuovo imperatore.
Affidò perciò l'incarico della conquista di Gerusalemme
al figlio Tito.
Questi, secondo Giuseppe Flavio, deve essere
arrivato davanti alla città santa presumibilmente
proprio nel periodo delle festività della Pasqua, il
14 del mese di Nisan, quindi nel 40° anniversario
della crocifissione di Gesù. Migliaia di pellegrini
affluivano a Gerusalemme. Giovanni di Gishala,
uno dei capi dell'insurrezione, in lotta tra loro, fece
penetrare di nascosto nel tempio combattenti
armati, travestiti da pellegrini, che lì iniziarono
una carneficina dei seguaci del suo rivale Eleazar
ben Simon, contaminando così un'altra volta il
santuario col sangue di innocenti (Mittelstaedt,
p. 72). Ciò tuttavia non era che una prima dimostrazione
delle crudeltà inimmaginabili, che in seguito
si sarebbero sviluppate con una brutalità
crescente, in cui il fanatismo degli uni e il furore
in espansione degli altri si sarebbero a vicenda incentivati.
Non dobbiamo qui trattare dei particolari della
conquista e della distruzione della città e del tempio.
Può tuttavia essere utile riportare il testo, in
cui Mittelstaedt riassume il decorso terribile del
dramma: « La fine del tempio si svolge in tre tappe:
dapprima c'è la sospensione del sacrificio regolare,
per la quale il santuario è ridotto ad una
fortezza; segue poi il dare alle fiamme che a sua
volta si svolge in tre tappe... E infine c'è lo smantellamento
delle rovine dopo la caduta della città.
Le distruzioni decisive... avvengono mediante il
fuoco; gli smantellamenti successivi erano ormai
soltanto uno strascico... Chi era sopravvissuto e
non era morto neppure a causa delle carestie o
delle epidemie, aveva la prospettiva del circo, della
miniera o della schiavitù» (pp. 84s).
Secondo Giuseppe Flavio, il numero dei morti
ammontava a 1.100.000 (De bello lud. VI 420). Orosio
(Hist. adv. pag. VII 9,7) e, similmente, Tacito (Hist.
V 13) parlano di 600.000 morti. Mittelstaedt è
dell'avviso che queste cifre siano esagerate e realisticamente
si dovrebbe supporre il numero di circa
80.000 morti (p. 83). Chi legge i rapporti interi e
prende coscienza della quantità di omicidi, massacri,
saccheggi, incendi, fame, vilipendi di cadavere
e distruzione dell'ambiente (disboscamento totale
in un cerchio di 18 km intorno alla città), può capire
che Gesù - riprendendo una parola del Libro di
Daniele (12,1) - commenti l'avvenimento dicendo:
« Quelli saranno giorni di tribolazione, quale non
vi
è mai stata dall'inizio della creazione, fatta da Dio,
fino ad ora, né mai più vi sarà » (Me 13,19).
In Daniele a questa parola di minaccia segue
una promessa: « In quel tempo sarà salvato il tuo
popolo, chiunque si troverà scritto nel libro »
(12,1). Anche nel discorso di Gesù, l'orrore non ha
l'ultima parola: i giorni saranno abbreviati e gli
eletti salvati. Dio lascia una misura grande - stragrande
secondo la nostra impressione - di libertà
al male e ai cattivi; ciononostante la storia non gli
sfugge dalle mani.
In tutto questo dramma, che purtroppo è solo un
esempio di tante altre tragedie della storia, c'è un
evento centrale per la storia della salvezza - evento
che significa un taglio netto dalle ampie conseguenze
anche per l'intera storia delle religioni e, in
genere, per quella dell'umanità: il 5 agosto dell'anno
70, « a causa della carestia e della mancanza di
materiale fu necessario sospendere il sacrificio
quotidiano
nel tempio » (Mittelstaedt, p. 78).
È vero che dopo la distruzione del tempio per
opera di Nabucodònosor nel 587 a. Cr. il fuoco sacrificale
era restato spento per 70 anni circa e una
seconda volta, tra gli anni 166 e 164 a. Cr., sotto il
dominatore ellenista Antioco IV, il tempio era stato
profanato e il ministero sacrificale all'unico Dio
era stato sostituito da sacrifici a Zeus. Ma in ambedue
i casi il tempio era risorto e il culto prescritto
dalla Torà era stato ripreso.
La distruzione dell'anno 70, invece, era definitiva:
i tentativi di una ricostruzione del tempio sotto
gli imperatori Adriano, durante l'insurrezione
di Bar Kochba (132-135 d. Cr.), e Giuliano (361)
fallirono. La rivolta di Bar Kochba ebbe anzi la
conseguenza che Adriano vietò al popolo ebreo
l'accesso al territorio di Gerusalemme e dintorni.
Al posto della città santa l'imperatore ne costruì
una nuova, che poi fu chiamata « Aelia Capitolina
», dove si celebrava il culto a Giove Capitolino.
« Solo l'imperatore Costantino, nel IV secolo, permise
ai giudei di visitare la città una volta l'anno
nella ricorrenza della distruzione di Gerusalemme
per far lutto presso il muro del tempio » (Gnilka,
Nazarener, p. 72).
Per il giudaismo, la cessazione del sacrificio, la
distruzione del tempio dovette essere uno shock tremendo.
Tempio e sacrificio stanno al centro della
Torà. Ora non c'era più nessuna espiazione nel
mondo, niente che potesse far da contrappeso al
suo crescente inquinamento in conseguenza del
male. E ancora: Dio, che su questo tempio aveva
posto il suo nome e quindi, in modo misterioso,
abitava in esso, ora aveva perso questa sua dimora
sulla terra. Dove era l'alleanza? Dove la promessa?
Una cosa è chiara: la Bibbia - l'Antico
Testamento
- doveva essere letta in un modo nuovo. Il giudaismo
dei sadducei, che era totalmente legato al tempio,
non è sopravvissuto a questa catastrofe, e
anche
Qumran, che in verità era in opposizione al tempio
erodiano, ma aspettava un tempio nuovo, è scomparso
dalla storia. Esistono due risposte a tale
situazione
- due modi di leggere in maniera nuova l'Antico
Testamento dopo l'anno 70: la lettura alla luce
di
Cristo, sulla base dei profeti, e la lettura rabbinica.
Delle correnti giudaiche del tempo di Gesù è
sopravvissuto solo il fariseismo, che nella scuola
rabbinica di Jamnia ha trovato un nuovo centro e
ha elaborato un modo particolare di leggere e di
interpretare, nell'epoca ormai priva del tempio,
l'Antico Testamento con la Torà come suo centro.
Solo a partire da quel momento parliamo di « giudaismo
»"nel senso proprio del termine, quale modo
di considerare e leggere il canone degli scritti
biblici come rivelazione di Dio senza il mondo
concreto del culto nel tempio. Questo culto non
esiste più. A tale riguardo, anche la fede di Israele
dopo l'anno 70 ha assunto una forma nuova.

Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo
come nostro compito il far sì che questi due modi
della nuova lettura degli scritti biblici - quella cristiana
e quella giudaica - entrino in dialogo tra loro,
per comprendere rettamente la volontà e la parola
di Dio.
In retrospettiva, Gregorio Nazianzeno (t 390 ca.)
ha cercato di stabilire, a partire dalla fine del tempio
gerosolimitano, una specie di periodizzazione
della storia delle religioni. Egli parla della pazienza
di Dio, che non impone all'uomo niente di incomprensibile:
Dio agisce come un buon pedagogo
o un medico. Lentamente abolisce certe usanze,
ne tollera altre e così porta l'uomo a fare progressi.
«Non è una cosa facile cambiare costumi
vigenti e da molto tempo venerati... Che cosa intendo
dire? Il primo Testamento sopprimeva gli
idoli, ma tollerava i sacrifici. Il secondo metteva fine
ai sacrifici, ma non proibiva la circoncisione.
Una volta accettata l'abolizione [di tale usanza],
[gli uomini] rinunciavano a ciò che era soltanto
tollerato» (cit. da Bärbel pp. 261/263). Nella visione
del Padre della Chiesa, anche i sacrifici, pur
previsti dalla Torà, appaiono come una cosa soltanto
tollerata - come una tappa nel percorso verso
il culto giusto - come qualcosa di provvisorio,
che durante il cammino doveva essere superato e
che Cristo ha superato.
Ma ora si pone decisamente la domanda: come ha
visto tutto ciò Gesù stesso? E come Egli è stato capito
dai cristiani? Non dobbiamo qui esaminare in
che misura i singoli dettagli del discorso
escatologico
di Gesù risalgano alla sua parola personale. Che
Egli abbia preannunciato la fine del tempio - e precisamente
la sua fine teologica, storico-salvifica - è
fuori dubbio. Questo confermano, accanto al discorso
escatologico, soprattutto il detto circa la casa
lasciata deserta, dal quale siamo partiti (cfr Mt
23,37s; Le 13,34s) e la parola dei falsi testimoni nel
processo a Gesù (cfr Mt 26,61; 27,40; Me 14,58;
15,29; At 6,14), che ritorna sotto la croce come parola
di scherno ed è riportata in Giovanni, come
parola
di Gesù stesso, nella versione giusta (cfr 2,19).
Gesù aveva amato il tempio come proprietà del
Padre (cfr Le 2,49) ed aveva gradito insegnare in
esso. Lo aveva difeso come casa di preghiera per
tutte le nazioni ed aveva cercato di prepararlo per
questo scopo. Ma Egli sapeva anche che l'epoca di
questo tempio era superata e che sarebbe arrivato
qualcosa di nuovo che era collegato con la sua
morte e risurrezione.
La Chiesa nascente doveva mettere insieme e
insieme leggere questi frammenti in gran parte
misteriosi delle parole di Gesù - le sue affermazioni
sul tempio e soprattutto sulla croce e sulla
risurrezione -, per riconoscere alla fine in tali
frammenti l'intero complesso di ciò che Gesù aveva
voluto esprimere. Ciò non era affatto un compito
facile, venne però affrontato a partire dalla
Pentecoste, e possiamo dire che nella teologia
paolina tutti gli elementi essenziali della nuova
sintesi erano stati trovati già prima della fine materiale
del tempio.
Sul rapporto della comunità primitiva col tempio,
gli Atti degli Apostoli ci dicono che « ogni giorno
erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando
il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e
semplicità di cuore » (2,46). Sono quindi menzionati
due luoghi di vita della Chiesa nascente: per
la predicazione e la preghiera ci si riunisce nel
tempio, che continua ad essere considerato ed accettato
come la casa della parola di Dio e della
preghiera; lo spezzare il pane - il nuovo centro
« cultuale » dell'esistenza dei fedeli - avviene invece
nelle case come luoghi dell'assemblea e della
comunione grazie al Signore risorto.
Anche se non si sono ancora esplicitamente
prese le distanze dai sacrifici secondo la Legge, si
delinea tuttavia ormai una distinzione essenziale.
Ciò che fino a quel momento erano stati i sacrifici,
viene sostituito dallo «spezzare il pane». Dietro
questa semplice parola, però, si nasconde l'accenno
all'eredità dell'ultima cena, alla comunione nel
corpo del Signore - alla sua morte e alla sua risurrezione.
Per la nuova sintesi teologica, che vede la fine storico-
salvifica del tempio realizzata, già prima della
distruzione materiale di esso, nella morte e risurrezione
di Gesù, emergono due grandi nomi:
Stefano e Paolo.
Stefano, nella comunità primitiva di Gerusalemme,
appartiene al gruppo degli « ellenisti », un
gruppo di giudeo-cristiani di lingua greca che, nel
loro modo nuovo di interpretare la Legge, prepararono
il cristianesimo paolino. Il grande discorso,
con cui Stefano, secondo il racconto degli Atti degli
Apostoli, cerca di illustrare la sua nuova visione
della
storia della salvezza, viene troncato nel punto
decisivo. Lo sdegno dei suoi avversari è già arrivato
all'estremo e si sfoga nella lapidazione dell'annunciatore.
Ma il vero punto del dissenso è espresso
in modo assolutamente chiaro nell'esposizione
dell'accusa presentata al sinedrio: « Lo abbiamo infatti
udito dichiarare che Gesù, questo Nazareno,
distruggerà questo luogo [cioè il tempio] e sovvertirà
le usanze che Mose ci ha tramandato » (At
6,14). Si tratta della parola di Gesù sulla fine del
tempio di pietra e sul nuovo tempio tutto diverso
- parola che Stefano ha fatto sua ed evidentemente
ha posto al centro della sua predicazione.
Anche se non possiamo ricostruire nei particolari
la visione teologica di santo Stefano, ne è tuttavia
chiaro il punto essenziale: è superata l'epoca
del tempio di pietra con il suo culto sacrificale.
Dio stesso, infatti, ha detto: « Il cielo è il mio trono
e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete
costruirmi? O quale sarà il luogo del mio riposo?
Non è forse la mia mano che ha creato tutte
queste cose? » (At 7,49s; cfr Is 66, ls).
Stefano conosce la critica dei profeti al culto.
Per lui, con Gesù il periodo del sacrificio nel tempio
è passato e con ciò anche l'epoca del tempio
stesso; ora le parole del profeta assumono la loro
piena ragione. È iniziato qualcosa di nuovo, in cui
si adempie ciò che, in realtà, è la cosa originaria.
La vita e il messaggio di santo Stefano sono rimasti
un frammento che s'interrompe improvvisa
mente con la lapidazione che, però, allo stesso
tempo porta a compimento la sua vita e il suo
messaggio: nella sua passione è diventato una cosa
sola con Cristo. Il processo come la morte assomigliano
alla passione di Gesù. Come il Signore
crocifisso prega anche lui: « Signore, non imputare
loro questo peccato! » (At 7,60). Ad un altro spettava
completare la visione teologica ed edificare
in base ad essa la Chiesa delle genti: a Paolo, che
come Saulo aveva approvato l'uccisione di Stefano
(cfr At 8,1).
Non è compito di questo libro tracciare le linee
fondamentali della teologia di Paolo o anche
soltantodella sua concezione del culto e del tempio. Qui
sitratta solo di sottolineare che la cristianità
nascente,molto prima della distruzione materiale del
tempio,era convinta che il ruolo di esso nella storia della
salvezzaera giunto al termine - come Gesù aveva
preannunciato con la parola sulla « casa lasciata
deserta» e con il discorso sul nuovo tempio.
La grande lotta di san Paolo nell'edificazione
della Chiesa delle genti, del cristianesimo «libero
dalla Legge », non si riferisce, per la verità, al tempio.
Il contrasto con i vari gruppi del giudeo-cristianesimo
gira intorno alle «consuetudini» di
fondo, in cui si esprimeva l'identità giudaica: la
circoncisione, il Sabato, le prescrizioni alimentari e
le norme di purezza. Mentre sulla questione della
necessità di queste « consuetudini » per raggiungere
la salvezza si svolse una lotta drammatica anche
tra i cristiani - lotta che alla fine portò all'arresto
dell'apostolo a Gerusalemme - stranamente non si
trova da nessuna parte la traccia di un conflitto sul
tempio e sulla necessità dei suoi sacrifici, e questo
nonostante il fatto che, secondo il racconto degli
Atti degli Apostoli, « anche una grande moltitudine
di sacerdoti aderiva alla fede » (6,7).
Paolo, tuttavia, non ha tralasciato questo problema:
al contrario, costituisce il centro del suo insegnamento
il messaggio che nella croce di Cristo
tutti i sacrifici sono portati a compimento, in Lui
si è realizzata l'intenzione di tutti i sacrifici - l'espiazione
- e così Gesù stesso ha preso il posto del
tempio, è Lui il nuovo tempio.
Basti un breve cenno. Il testo più importante si
trova nella Lettera ai Romani 3,23ss: « Tutti hanno
peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono
giustificati gratuitamente per la sua grazia, per
mezzo della redenzione in Cristo Gesù. È lui che
Dio ha stabilito apertamente come strumento di
espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue,
a manifestazione della sua giustizia per la remissione
dei peccati passati ».
La parola qui tradotta con « strumento di espiazione
», in greco suona «hilasterion», in ebraico
«kapporet». Così si chiamava il coperchio dell'arca
dell'alleanza. È il luogo sul quale, in una nube, appare
YHWH, il luogo della misteriosa presenza di
Dio. Nel giorno dell'Espiazione - lo Yom kippùr
(cfr Lev 16) - questo luogo sacro viene asperso con
il sangue del giovenco immolato come vittima di
espiazione, « la cui vita viene così offerta a Dio al
posto di quella degli uomini peccatori meritevoli
di morte » (Wilckens II 1, 235). L'idea di fondo è
che il sangue del sacrificio, nel quale sono stati
assorbiti tutti i peccati degli uomini, toccando la divinità
stessa viene purificato e così, mediante il
contatto con Dio, anche gli uomini rappresentati
da questo sangue vengono resi mondi: un pensiero,
questo, che nella sua grandezza e, insieme, nella
sua insufficienza è commovente, un pensiero
che non poteva rimanere l'ultima parola della storia
delle religioni, né l'ultima parola nella storia
della fede di Israele.
Se Paolo applica la parola hilasterion a Gesù, indicandolo
come il coperchio dell'arca dell'alleanza
e quindi come il luogo della presenza del Dio
vivente, allora l'intera teologia veterotestamentaria
del culto (e con essa le teologie del culto di tutta
la storia delle religioni) viene « abolita » ed insieme
innalzata ad un'elevatezza totalmente nuova.
Gesù stesso è la presenza del Dio vivente. In
Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto.
In Lui si realizza ciò che il rito del giorno dell'Espiazione
intendeva esprimere: nella donazione di
sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il
peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie
in esso. Accostarsi alla croce, entrare in comunione
con Cristo significa entrare nell'ambito della
trasformazione e dell'espiazione.
Tutto ciò per noi oggi è difficile da capire; nella
riflessione a riguardo dell'ultima cena e della
morte in croce di Gesù dovremo su ciò ampiamente
tornare e sforzarci di comprendere. Qui si è
trattato in fondo solo di mostrare che Paolo ha già
interamente previsto l'abolizione del tempio ed
introdotto la sua teologia sacrificale nella cristologia.
Per Paolo, nella crocifissione di Cristo il tempio con
il suo culto è « demolito »; al suo posto ora sta la
vivente arca dell'alleanza del Cristo crocifissoe risorto.
Se con Ulrich Wilckens possiamo supporre
che il passo di Romani 3,25 è una «formula
della fede dei giudeo-cristiani » (1/3, p. 182), allora
vediamo quanto presto questa convinzione fosse
già maturata nella cristianità - che cioè essa sapeva
fin dall'inizio questo: il Risorto è il nuovo tempio,
il vero luogo di contatto tra Dio e l'uomo. Per
questo, Wilckens può anche dire con ragione:
« Forse fin dall'inizio i cristiani semplicemente
non hanno partecipato al culto del tempio ... Pertanto
la distruzione del tempio nell'anno 70 d. Cr.,
per i cristiani non era un loro problema religioso »
(II/l,p. 31).
Così però si rende anche evidente che la grande
visione teologica della Lettera agli Ebrei sviluppa
soltanto nel particolare ciò che, in nucleo, è già
espresso in Paolo e che Paolo stesso, a sua volta,
aveva già incontrato, quanto al contenuto essenziale,
nella preesistente tradizione della Chiesa.
Vedremo più tardi che, a modo suo, la Preghiera
sacerdotale di Gesù reinterpreta nello stesso senso
lo svolgimento del grande giorno dell'Espiazione
e quindi il centro della teologia veterotestamentaria
della redenzione, considerandola compiuta
nella croce.


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