Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò in Galilea predicando il Vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo”. Dobbiamo sfatare subito due pregiudizi. Primo, la conversione non riguarda solo i non credenti, o quelli che si dichiarano “laici”; tutti indistintamente abbiamo bisogno di convertirci; secondo, la conversione, intesa in senso genuinamente evangelico, non è sinonimo di rinuncia, sforzo e tristezza, ma di libertà e di gioia; non è uno stato regressivo, ma progressivo.
Prima di Gesù, convertirsi significava sempre un “tornare indietro” (il termine ebraico, shub, significa invertire rotta, tornare sui propri passi). Indicava l’atto di chi, a un certo punto della vita, si accorge di essere “fuori strada”; allora si ferma, ha un ripensamento; decide di cambiare atteggiamento e tornare all’osservanza della legge e di rientrare nell’alleanza con Dio. Fa una vera e propria inversione di marcia, una “conversione ad U”. La conversione, in questo caso, ha un significato morale; consiste nel cambiare i costumi, nel riformare la propria vita.
Sulle labbra di Gesù, questo significato cambia. Convertirsi non significa più tornare indietro, all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa piuttosto fare un balzo in avanti ed entrare nel Regno, afferrare la salvezza che è venuta agli uomini gratuitamente, per libera e sovrana iniziativa di Dio.
Conversione e salvezza si sono scambiate di posto. Non è c’è più, per prima cosa, la conversione da parte dell’uomo e quindi la salvezza, come ricompensa da parte di Dio; ma c’è prima la salvezza, come offerta generosa e gratuita di Dio, e poi la conversione come risposta dell’uomo. In questo consiste il “lieto annuncio”, il carattere gioioso della conversione evangelica. Dio non aspetta che l’uomo faccia il primo passo, che cambi vita, che produca opere buone, quasi che la salvezza sia la ricompensa dovuta ai suoi sforzi. No, prima c’è la grazia, l’iniziativa di Dio. In questo, il cristianesimo si distingue da ogni altra religione: non comincia predicando il dovere, ma il dono; non comincia con la legge, ma con la grazia.
“Convertitevi e credete”: questa frase non significa dunque due cose diverse e successive, ma la stessa azione fondamentale: Convertitevi, cioè credete! Convertitevi credendo! La fede è la porta per cui si entra nel Regno. Se ci fosse detto: la porta è l’innocenza, la porta è l’osservanza esatta di tutti i comandamenti, la porta è la pazienza, la purezza, uno potrebbe dire: non è per me; io non sono innocente, non ho tale o tal’altra virtù. Ma ti viene detto: la porta è la fede. A nessuno è impossibile credere perché Dio ci ha creati liberi e intelligenti, proprio per renderci possibile l’atto di fede in lui.
La fede ha diverse facce: c’è la fede-assenso dell’intelletto, la fede-fiducia. Nel nostro caso, si tratta di una fede-appropriazione. Di un atto, cioè, per cui uno si appropria, quasi di prepotenza, di una cosa. San Bernardo usa addirittura il verbo usurpare: “Io, quello che mi manca lo usurpo dal costato di Cristo!”.
“Convertirsi e credere” significa propriamente realizzare una sorta di colpo di mano. Con essa, prima ancora di aver faticato e acquistato meriti, noi conseguiamo la salvezza, ci impossessiamo addirittura di un “regno”. Ma è Dio stesso che ci invita a farlo; lui ama subire questi colpi di mano, ed è il primo a stupirsi che “così pochi lo facciano”.
“Convertitevi!”, non è,come si vede, una minaccia, una cosa che rende tristi e costringe ad andare a testa china e perciò da ritardare il più possibile. Al contrario, è un’offerta incredibile, un invito alla libertà e alla gioia. È la “buona notizia” di Gesù agli uomini di tutti i tempi.
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