Giovedì della V settimana del Tempo di Quaresima


L'ANNUNCIO
In quel tempo, disse Gesù ai Giudei: “In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”.
Gli dissero i Giudei: “Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: ‘‘Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte’’. Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?”.
Rispose Gesù: “Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: ‘‘È nostro Dio!’’, e non lo conoscete. Io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò”.
Gli dissero allora i Giudei: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”. Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono”.
Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio. (Dal Vangelo secondo Giovanni 8,51-59)  



"Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò"





Il dialogo di Gesù con i giudei "che hanno creduto in Lui" si svolge nel contesto di "Ha-Dhag" – La Festa, Sukkot, la Festa delle Capanne"chi non ha assistito a questa festa ignora cosa sia una festa" (Mishnà). Le cronache dell'epoca contemporanea a Gesù raccontano di grandi feste popolari svolte nei cortili del TempioOvunque a Gerusalemme si cantavano salmi e canti popolari. A Sukkot, la gioia esplodeva nell'abbondanza di luce e acqua, elementi fondamentali per la vita, quelli con i quali Dio aveva condotto il Popolo durante l'esodo nel deserto. Sukkot era una chiamata a conversione per tornare all'essenziale, alla fonte della gioia, la Torah, spesso paragonata a luce e acqua; essa fu data proprio nel deserto per «scegliere la vita» (cfr Dt 30,1ss.). Prima della festa i rabbini ammaestravano il Popolo sui passi della Scrittura riguardanti l'acqua: "In quel giorno dirai: Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, e non avrò paura di nulla; poiché il Signore è la mia forza e il mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Voi attingerete con gioia l'acqua dalle fonti della salvezza. Abitante di Sion, grida, esulta, poiché il Santo d'Israele è grande in mezzo a te" (cfr. Is. 12, 1ss). L'originale tradotto con "salvezza" è "Yesuah"Gesù! Nell'ultimo giorno della Festa, quando l'acqua scorreva a fiumi e la gioia era giunta al suo apice, Gesù grida con tutta la forza che è proprio Lui quell'acqua viva a cui anela ogni uomo. Lui compie quanto promesso alla donna samaritana e ai figli di Abramo: ogni pensiero, ogni fatica, ogni dolore, avrebbero trovato in Lui senso e pienezza. Il raccolto della vita saebbe stato abbondante, trabocchevole, perché mayim ḥayim - l'acqua viva, lo Spirito di Colui che ha vinto la morte - scenderà ad irrigare e fecondare la terra, immagine dell'esistenza di ciascun uomo. E' Lui la salvezza, Gesù, "Dio che salva" dalla morte e dona, senza limiti, il suo stesso alito di vita, la fonte dell'esultanza senza fine. "Abramo ha visto il giorno di Cristo" perché in esso ha sperimentato la gioia della salvezza. Lui, che aveva aspettato da sempre qualcuno capace di strapparlo al destino fallimentare che sembrava ineluttabile: non aveva un figlio a cui donare se stesso in eredità, non aveva una terra a cui consegnare il proprio corpo per il riposo. Ma proprio qui la Parola di Dio ha trasformato quell'al di là di morte che lo attendeva in un futuro colmo di vita. Qui Abramo ha cominciato a "vedere il giorno di Gesù", sperimentando tutto quello che la Festa delle Capanne significava: aveva visto la luce della vita brillare nella notte del fallimento; aveva danzato e gioito all'udire la Parola di speranza; aveva dimorato nella precarietà, in attesa della manna, camminando appoggiato alla sola Parola ricevuta; aveva accolto in sé la pioggia abbondante della fertilità, l'acqua di vita che aveva dischiuso il seno sterile di Sara. Finalmente, stringeva tra le braccia Isacco, la vita scaturita dalla sua carne morta. Ma era questo il giorno di Gesù nel quale rallegrarsi? A proposito di Abramo Kierkegaard scriveva: “Ciascuno diventa grande in rapporto alla sua attesa; uno diventa grande con l’attendere il possibile, un altro con l’attendere l’eterno, ma colui che attese l’impossibile, divenne più grande di tutti”. Pur avendo visto Isacco, il figlio della promessa, ad Abramo mancava qualcosa. E a te, in questa vigilia della Pasqua, manca qualcosa? Hai creduto in Gesù, hai visto molti segni del suo amore nella tua vita. Hai sperimentato la sua potenza ridare vita al tuo matrimonio sterile, al tuo corpo sottomesso al peccato. Ma non è solo per questo che sei stato chiamato nella Chiesa. Non era solo per avere Isacco che Dio aveva chiamato Abramo. Manca l'esperienza decisiva, preparata per ciascuno di noi in questa Pasqua: vedere e sperimentare l'impossibile che, come Abramo, abbiamo intuito potersi compiere sin dal primo momento in cui abbiamo ascoltato la voce di Dio. Manca la prova decisiva, l'amore pieno e incondizionato, frutto della notte oscura della fede, la più dura, nella quale vedere la luce della Pasquail giorno eterno del Messia GesùIl nomade Abramo si trovava proprio come al culmine della Festa delle Capanne, quando l'acqua scorre a fiumi. Era infatti presso il pozzo di Bersabea, nel territorio dei Filistei; i suoi piedi calcavano la Terra che Dio gli aveva promesso, guardava Isacco e, al colmo della gioia per le grazie che Dio gli aveva concesso, "invocò il nome del Signore, Dio dell’eternità”. E proprio in questo luogo di festa, "Dio mise alla prova Abramo e gli disse: 'Abramo!'. Rispose: 'Eccomi!'. Riprese: 'Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò". Una lancia gli si conficcò nel cuore: ma come, il Signore mi viene a chiedere proprio il segno del suo amore, la prova che Lui esiste e ha provveduto alla mia vita? Come se nel bel mezzo della festa di Sukkot Dio fosse disceso ordinando al Popolo di ritornare in Egitto e perdere tutto quanto costituiva la ragione della sua gioia. E qui, al culmine dell'angoscia, Abramo, per non assaporare la morte, ha imparato a "custodire" la parola, secondo il significato originale della parola "osservare". Custodisce chi ha qualcosa di prezioso: Abramo, per custodire davvero Isacco, doveva passare dalla promessa a Colui che aveva promesso, dalla creatura al Creatore. Per amare Isacco, doveva conoscere sino in fondo l'amore di Dio che glielo aveva donato, passando da una religiosità naturale a una fede adulta nella quale consegnarsi al Padre senza riserve. Salendo il Moria, Abramo ha imparato a sorvegliare, proteggere, amare la Parola, "nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio"; come San Giuseppe che "è custode perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo!" (Papa Francesco). Come Abramo e come i giudei, anche noi siamo chiamati, attraverso le vicende della nostra vita ad amare e custodire la Parola di Gesù più d'ogni altra cosa. E' la porta della Pasqua, la finestra spalancata sul giorno di Cristo, il Getsemani e il Moria che ci attendono ad ogni suono della sveglia. Ogni giorno, infatti, ci è dato come il "giorno di Cristo": ascoltare la Parola e custodirla significa accogliere la volontà del Padre ed entrarvi. Non sappiamo che cosa ci riserverà questo giorno; facciamo dei piani, prendiamo appuntamenti, ma non abbiamo in mano nulla. Solo sappiamo che "sul Monte il Signore provvede", che quello che ci accadrà sarà parte del giorno di Cristo nel quale vedere il suo amore e rallegrarci. Anche di un tamponamento, anche di un insulto e di una umiliazione, anche dei nervi della moglie e dell'ira del nemico. Ma è impossibile! Ecco, è impossibile offrire a Dio se stessi, gli affetti e i suoi stessi doni. E' impossibile perché di fronte al Moria del sacrificio ci ronza dentro la domanda velenosa: "chi ti credi di essere" per farmi questo? E' impossibile per chi "non ha conosciuto" il Padre nel potere del Figlio che ne "osserva la Parola", e per questo ha fatto un idolo anche dei miracoli che Lui ha compiuto nella sua vita; non è dal matrimonio che dobbiamo cercare la vita, ma in Colui che il matrimonio ricrea ogni giorno. Ciò è possibile solo a chi è entrato con Cristo nella Pasqua e ha sperimentato la gioia autentica sgorgare dalla Croce. Essere cristiani,  capaci cioè di un amore puro e disinteressato, passa per il sacrificio di Isacco, la prova più duraSul Moria Abramo ha sperimentato questo amore, ha visto il giorno che non muore, il volto di Cristo impresso in quel figlio offerto e riscattato. Dopo l’intervento dell’angelo, infatti, Abramo, secondo il Targum, ha chiamato quel luogo: "Qui il Signore fu visto"Al culmine dell'angoscia Abramo ha visto che "Dio è favorevole", ha visto il giorno di Cristo, la gioia vera, quella che annunciava Sukkot, la gioia della Torah compiuta, della luce e dell'acqua della vita che non si esauriscono e illuminano e fecondano per l'eternità. Il giorno di Gesù è la gioia vera ed autentica che i discepoli hanno sperimentato la sera di Pasqua: "In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete... Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia... Ora siete nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia" (Gv. 16, 20.22). Come i discepoli, Abramo ha visto il giorno di Cristo perché da Lui, ritornato vittorioso dalla tomba, è stato visto attraverso lo sguardo di Isacco salvato dalla morte. E' questa l'esperienza più profonda, quella che ci attende nella notte di Pasqua, madre di ogni notte che incontreremo nella storia: guardare Cristo fisso negli occhi, come Abramo ha fissato suo figlio. Piangere con lui le lacrime del Getsemani, tremare con Lui quando tutto, ma proprio tutto ci è tolto, e sperimentare la luce della Pasqua che brilla nell'obbedienza del Figlio, di Abramo, di Isacco; l'obbedienza che il Padre vuol donare a ciascuno di noi. In essa potremo sperimentare che "prima che Abramo fosse", prima che ogni giorno, prima del nostro matrimonio, dei figli, del lavoro, del nostro carattere e dei nostri difetti, del nostro corpo, dei problemi; Gesù è Dio e ti ha amato "prima" di entrare in ospedale per un intervento di routine e "prima" che l'anestesista sbagliasse di un millimetro l'iniezione lasciandoti con una gamba insensibile per non si sa quanto tempo; Gesù è "Io sono" vita e gioia e luce prima che ciascuno di noi fosse. "Io sono" dentro la nostra storia significa Dio Onnipotente disciolto in ogni suo frammento, più potente della morte, del tuo peccato, dello sbandamento del figlio, della morte improvvisa della madre, dell'abbandono di tuo padre. Significa vedere "Io sono" in noi per "non vedere più la morte"; "custodire la Parola" per vedere la "gloria" che il Padre dà a Cristo incarnato in ogni evento della nostra vita; "conoscere il Padre" nell'amore che smentisce la "menzogna" che ci vuole ingannare dicendoci che chi ci è accanto, la sofferenza e la croce "sono dei demoni"; contemplare lo sguardo luminoso di Cristo risorto deposto sulle nostre ore, nel quale vedremo riflesso il giorno che non conosce tramonto. Non vi è altra gioia che ci interessa, abbracciare Isacco ridonato in ogni fratello, abbracciare Cristo in ogni evento, perché Lui è vivo nel passato che non accettiamo, nel presente che non comprendiamo e nel futuro che ci impaurisce.





αποφθεγμα Apoftegma



L’espressione "vita eterna" non significa 
la vita che viene dopo la morte,
mentre la vita attuale è appunto passeggera e non una vita eterna.
"Vita eterna" significa la vita stessa, 
la vita vera,
che può essere vissuta anche nel tempo
e che poi non viene più contestata dalla morte fisica.
È ciò che interessa: 
abbracciare già fin d’ora la "vita"
la vita vera,
che non può più essere distrutta da niente e da nessuno.


J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, volume II

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