3 Dicembre. S. Francesco Saverio






Mc 16, 15-20

In quel tempo, apparendo agli Undici, Gesù disse loro: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.
E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno".
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano.



IL COMMENTO


Un segno è posto per indicare. I segni che accompagnano quelli che credono mostrano il Cielo. Svelano la presenza di Dio. Sono segni soprannaturali, opere, prodigi, miracoli che l'uomo, per quanto onesto, buono, rispettoso non può compiere. Su di essi vi è, inconfondibile, il copyright di Dio. Opere di Dio nella carne debole degli uomini. Non si possono pianificare in un consiglio pastorale, preparare nelle riunioni delle Conferenze Episcopali. Non si studiano. Sono miracoli, saette che trafiggono la normalità d'una vita senza Dio. Gesù non ha frequentato un corso su Dio, non lo ha imparato da nessuna parte, era, semplicemente, Suo Figlio. Così è di ogni figlio nel Figlio, d'ogni cristiano.

Alter Christus si diceva di San Francesco d'Assisi. Un altro Cristo, questo è un santo. Cioè un cristiano, colui per il quale Cristo ha versato il Suo sangue riscattandolo dal peccato e dalla morte e facendolo una cosa sola con Lui. Santo significa separato, consacrato. Diverso. Uguale a tutti eppure diverso. Santo è chi ha il cuore che brucia d'amore. Amato, infiammato dall'amore di Cristo che lo getta sulle strade del mondo ad amare dello stesso amore. Sino agli estremi confini della terra.

San Francesco Saverio. La sua vita è stata un segno, un miracolo, lampi di Cielo sulle terre che ha percorso. La Pasqua incarnata, il desiderio infinito di cercare tutto ciò che era hametz, impuro, in ogni angolo della terra, percorrendo ogni centimetro d'Asia. Come fa ogni buon ebreo la vigilia di Pesah, come ha fatto Cristo che con il Suo sangue versato ha lavato ogni impurità di ogni uomo e con la Sua carne ha offerto il vero e puro pane azzimo, pronto per il Cielo, per la vita divina.

Così San Francesco Saverio, schiavo d'ogni uomo prigioniero degli inganni del demonio, e niente più volontà, progetti, pensieri. Un chiodo fissso nella mente, la salvezza d'ogni uomo. Un fuoco inestinguibile nel cuore, l'amore a Chi lo aveva amato infinitamente. Un santo. Un miracolo. Un segno.

I veleni delle menzogne del demonio, i morsi delle tentazioni del serpente antico, nulla lo ha fermato, nulla ha avuto potere sulla vita divina che portava dentro come in un tabernacolo. E quanti malati e infermi sanati, nel cuore, nello spirito, nelle membra. E la nuova lingua dell'amore e della misericordia annunciata alle più estreme periferie come nei palazzi dei Re. Sino all'alba d'un mattino di dicembre, alle porte dell'immensa Cina come alle porte del Cielo, quando, esausto, solo con il Suo Signore, abbandonato da tutti, come il Suo Signore, ha fatto ritorno al Padre. Come Cristo. Con Cristo.

La sua vita è oggi un segno per tutti noi, dell'irripetibile avventura che è la vita di Dio nell'uomo. Arriva il Natale, è Cristo che bussa alle nostre porte, spalanchiamole e lasciamoci travolgere dal fuoco del Suo amore, sino agli estremi confini che Lui ha da sempre pensato per noi.




Mc 16, 15-20



COMENTARIO


Una señal es puesta para indicar. Las señales que acompañan los que creen enseñan el Cielo. Desvelan la presencia de Dios. Son señales sobrenaturales, obras, prodigios, milagros que el hombre, por cuánto honesto, bueno, respetuoso, no puede cumplir. Sobre de ellos hay, inconfundible, el copyright de Dios. Obras de Dios en la carne débil de los hombres. No se pueden planear en un consejo pastoral, preparar en las reuniones de las Conferencias Episcopales. No se estudian. Son milagros, saetas que traspasan la normalidad de una vida sin Dios. Jesús no ha frecuentado un curso sobre Dios, no lo ha aprendido de ninguna parte, fue, sencillamente, Su Hijo. Así es de cada hijo en el Hijo, de cada cristiano.

Alter Christus se dijo de San Francisco de Asís. Otro Cristo, ésto es un santo. Es decir un cristiano, quien por el que Cristo ha derramado Su sangre rescatándolo del pecado y de la muerte, para hacerlo una cosa sola con Él. Santo significa separado, consagrado. Diferente. Igual a todos sin embargo diferente. Santo es quien tiene el corazón que quema de amor. Amado, inflamado por el amor de Cristo que lo echa sobre las calles del mundo a amar con el mismo amor. Hasta a los extremos confines de la tierra.

San Francisco Javier. Su vida ha sido una señal, un milagro, relámpagos del Cielo sobre las tierras que ha recorrido. La Pascua encarnada, el deseo infinito de buscar todo lo que era hametz, impuro, en cada rincón de la tierra, recorriendo cada centímetro de Asia. Como hace cada buen judío las vísperas de Pesah, como ha hecho Cristo que con Su sangre derramada ha lavado cada impureza de cada hombre y con Su carne ha ofrecido el auténtico y puro pan ácimo, listo por el Cielo, por la vida divina.

Así San Francesco Javier, esclavo de cada hombre prisionero de los engaños del demonio. Y nada más voluntad, proyectos, pensamientos. Un clavo fijo en la mente, la salvación de cada hombre. Un fuego inextinguible en el corazón, el amor a Quién quiso infinitamente él. Un santo. Un milagro. Una señal.

Los venenos de las mentiras del demonio, los mordiscos de las tentaciones del serpiente antiguo, nada lo ha parado, nada ha tenido poder sobre la vida divina que llevó dentro como en un tabernáculo. Y cuánto enfermos y enfermos saneados, en el corazón, en el espíritu, en los membros. Y la nueva lengua del amor y de la misericordia anunciada a las más extremas periferias como en los palacios de los Reyes. Hasta al alba de un mañana de diciembre, a las puertas de la inmensa China como a las puertas del Cielo, cuando, exhausto, sólo con Su Señor, abandonado por todos como Su Señor, ha vuelto al Padre. Cómo Cristo. Con Cristo.

Su vida es hoy, para todos nosotros, una señal de la irrepetible aventura que es la vida de Dios en el hombre. La Navidad llega, es Cristo que llama a nuestras puertas, abrámosle y dejamos atropelladonos por el fuego de Su amor, hasta a los extremos confines que Él ha pensado desde siempre por nosotros.


San Francesco Saverio

di Antonio Socci


In Navarra, nel castello della famiglia Xavier, il 7 aprile 1506 nasce il quinto e ultimo figlio di Giovanni de Jassu e di Maria de Azpilcueta. Si chiama Francesco. Arrivato a diciotto anni, è un giovanotto atletico, di forte temperamento e dotato di un certo fascino. Ottiene buoni risultati nello studio e così la famiglia decide - pur con mille sacrifici - di mandarlo a frequentare l’università più autorevole del tempo, quella di Parigi.Il giovane navarrino arriva nel 1525 a Parigi, che è un focolaio delle nuove idee riformatrici e contestatrici. E si trova subito a gravitare attorno a tali ambienti. In questi anni la Chiesa è al centro di un ciclone. Adriano VI, che fu papa mentre la bomba protestante stava esplodendo e stava devastando la Chiesa, scrisse: «Noi sappiamo bene che anche in questa Santa Sede, fino ad alcuni anni or sono, sono accadute cose abbominevolissime». Le condizioni della cristianità appaiono gravi. E d’altronde certi rigoristi che lamentano la dilagante corruzione ecclesiastica (intellettuali umanisti impregnati di culture neopagane) rappresentano evidentemente per la Chiesa una sciagura ben più grande di quella che si suole vedere in papati come quello del Borgia. Eppure oggi, a distanza di quasi cinque secoli, sappiamo che anche in quella situazione, che a uno sguardo puramente umano poteva sembrare disperata per le sorti del cristianesimo, erano presenti piccoli "semi" da cui si sarebbe sprigionata una rinascita cristiana stupefacente, una sorta di nuovo inizio. Ma un osservatore che avesse attraversato la cristianità in quegli anni dove avrebbe dovuto guardare per vedere quei semi? Un osservatore che si fosse trovato nella cripta della piccola chiesa di Montmartre, a Parigi, il 15 agosto 1534, avrebbe visto una scena del tutto normale: sette uomini che parlavano fra loro. Niente di speciale. Se non il motivo del loro convenire, che traspariva dal loro comportamento. Un casuale osservatore sarebbe rimasto incuriosito dalle loro facce che mostravano una determinazione, un’intensità e una sorta di unità d’intenti inconsuete: si sarebbe detto - a guardarli bene - che fossero molto legati l’uno all’altro. Inusuale - a voler capire fino in fondo il mistero che li univa e li aveva fatti convenire lì - era quello che si stavano dicendo.

Quei sette "compagni" stavano pronunciando una specie di voto, s’impegnavano a servire Gesù Cristo in castità e povertà, ad andare in pellegrinaggio in Terra Santa o - se non fosse stato possibile - ad andare a Roma mettendosi a disposizione totale del Papa. Era il giorno dell’Assunta. Questo gruppo di sette uomini si chiamerà Compagnia di Gesù. Resta un interrogativo storico irrisolto perché contro questi uomini disarmati si siano poi coalizzati e scatenati i più formidabili poteri, anche occulti, politici ed economici del mondo. Che cosa trovarono in loro di così minaccioso re, governi, corti, imperi finanziari e lobbies commerciali?Forse quella loro "unità", che neanche le migliori compagnie di ventura conoscevano? O la loro audacia? O la capacità (politica?) di farsi stimare e aiutare da singoli personaggi potenti che da loro rimanevano colpiti? Francesco Saverio, che avevamo lasciato a Parigi, dov’era appena arrivato nel 1525, lo ritroviamo il 15 agosto 1534 proprio in questa cripta parigina: è uno dei sette compagni. Com’è finito lì? Che cosa è accaduto nel corso di questi nove anni di tanto speciale da aver toccato una vita che sembrava dover anticipare quella di un Voltaire, di un Casanova o di un D’Artagnan?Francesco, da studente, alloggiava nel collegio di Santa Barbara. Suo compagno di camera e di studi è un giovane della Savoia, Pietro Favre. Francesco è esuberante e coltiva grandi ambizioni. Pietro, suo coetaneo, ha un carattere buono e paziente. Diventano subito amici. E come accade di solito in questi casi le conoscenze dell’uno si comunicano all’altro.Pietro un giorno presenta a Francesco un suo amico, uno studente per la verità abbastanza particolare, perché è sulla quarantina: oggi si direbbe un fuori corso. Si chiama Ignazio, ha un volto magro e un passo vistosamente claudicante. Prima infatti faceva il soldato: durante l’assedio di Pamplona si è preso una palla di cannone sulla gamba e adesso ne porta le conseguenze.Ignazio esercita un certo ascendente su Pietro e su molti altri studenti. Francesco, che intanto nel 1530 ha preso il diploma di maestro e ha cominciato a insegnare, è dapprima scontroso e diffidente. Con lui è «duro e difficoltoso», forse proprio perché sente sempre più forte la curiosità e l’attrazione nei confronti di una personalità potente come quella di Ignazio. A poco a poco cambierà.Ignazio, che ne capisce il carattere audace e le grandi ambizioni, lo vincerà definitivamente ripetendogli una frase del Vangelo: «Che giova all’uomo conquistare il mondo intero se poi perde se stesso?».

Da qui comincia la conversione di Francesco, cioè la sua adesione alla compagnia di Ignazio, di Pietro e degli altri convenuti quel 15 agosto nella cappella di Montmartre. Francesco ha 28 anni. Ancora vivente diventerà una leggenda. Non perché cercò l’avventura. Ma perché visse l’obbedienza cercando di far sue la fede, la speranza e la carità di Ignazio. Prima servendo per tre anni insieme ai compagni negli ambienti fetidi delle prigioni e degli ospedali del tempo. Poi a Roma, facendo il segretario di Ignazio, Generale della Compagnia.E infine partendo, nel volgere di ventiquattro ore, da Roma, per sempre, verso gli estremi confini del mondo perché richiestogli da Ignazio. Era accaduto che nel 1539 il re del Portogallo aveva chiesto sei gesuiti per le Indie orientali. Ignazio aveva risposto: «Signor ambasciatore, se su dieci ne partono sei, per il resto del mondo che cosa rimarrà?».Ne manda due. Ma accade l’imprevisto. Uno dei due muore arrivando a Lisbona, l’altro arriva solo alla vigilia della partenza, oltretutto con un terribile attacco di sciatica. Così all’ultimo momento Ignazio chiama Francesco e gli dice: «Non può partire nessuno, Francesco, devi andare tu». Il Saverio non ha incertezze, in pochi minuti raccoglie le sue povere cose e parte per sempre, sapendo (lo scrive nella sua prima missiva) «che in questa vita ci "vedremo" ormai solo per lettera». Un giovane addetto all’ambasciata, fino ad allora dedito alla dolce vita di corte, colpito da Francesco confessò: «Per la prima volta in vita mia compresi che cosa vuol dire essere un cristiano».

Come un conquistatore disarmato dominerà gli eventi. Sia quando si trova con il mal di mare sulle navi della peggiore feccia. Sia fra i poverissimi pescatori di perle del Paravar, di Ceylon o della Malacca. Sia in guerra con i pirati, e ancor più con mille malattie e morbi tropicali, con la fame e la sete, con le autorità portoghesi, alle prese con mercanti e negrieri senza scrupoli. Intento a battezzare bambini e adulti, a migliaia per volta. A radicare le sue missioni impiantando scuole, collegi, organizzando ospedali, imparando decine di strane lingue… Attraversa tutti i mari, verso Giava, il Borneo, le Isole del Moro, poi su su verso Formosa, passando dalle feroci tribù dei tagliatori di teste alla raffinata civiltà giapponese che per primo racconterà agli europei. Fa tre volte naufragio, sfugge a decine di attentati, ai musulmani, talvolta nascosto nella foresta.Migliaia e migliaia di chilometri in nave, stringendo amicizie con mercanti e gente di tutti i tipi per far conoscere Gesù Cristo. Ai suoi amici scriveva: «Vivere senza godere di Dio non sarebbe una vita, ma una morte continua».E nel gennaio 1552, alla fine di questa incredibile avventura durata dieci anni, annotò: «Mi sembra veramente di poter dire che nella mia vita non ho mai ricevuto tanta gioia e allegrezza».Un giornalista francese, Jean Lacouture, ha scritto un libro, dove racconta l’audacia dei gesuiti. Lacouture ha dichiarato: «Sì, hanno scelto la vita, con tutti i suoi compromessi. […] Hanno scelto di andare nel mondo per insegnare il Vangelo, di affrontare il quotidiano, con quanto implica di tragico, di corrotto, di menzognero».

Da dove nasce tanta audacia? Francesco continuamente tiene presente il ricordo struggente dei volti degli amici che si confondono con il volto e il nome di Gesù Cristo. Non fa che ricordarli, chiede a Ignazio che gli scriva «una lettera così lunga che io impieghi tre giorni a leggerla». Vuole sapere tutto di tutti i compagni. Notte e giorno pensa a loro, parla di loro, scrive loro e il suo cuore s’infiamma, la sua gratitudine arriva alle lacrime. Quando muore, a 46 anni, dentro una capanna di foglie, sull’Isola di Sancian, davanti alla Cina (dove voleva arrivare), nella notte del 2 dicembre 1552, sembra avere solo la compagnia di un crocifisso e di un cinese che aveva convertito e che doveva fargli da interprete. Ma si scoprirà al suo collo un piccolo contenitore: dentro c’era una reliquia dell’apostolo san Tommaso, la formula della sua professione e le firme autografe dei suoi amici ritagliate dalle loro lettere. Non erano lontani. Li aveva sul suo cuore.



San Francisco Javier

de Antonio Socci


En Navarra, en el castillo de la familia Xavier, el 7 de abril de 1506 nace el quinto y último hijo de Juan de Jassu y de Maria de Azpilcueta. Se llama Francisco. Llegado a los dieciocho años, es un mancebo atlético, de fuerte carácter y dotado de cierto atractivo. Consigue buenos resultados en el estudio y así la familia decide - incluso con mil sacrificios - de enviarlo a frecuentar la universidad más acreditada del tiempo, la de París. El joven navarro llega en el 1525 a París, que es un foco de las nuevas ideas reformada y contestatarias. Y se encuentra enseguida a gravitar alrededor de tales entornos. En estos años la Iglesia es al centro de un ciclón. Adriano VI, que fue papa mientras la bomba protestante estaba estallando y estaba devastando la Iglesia, escribió: "Nosotros sabemos bien que también en este Santa Sede, hasta a algunos años, cosas orrorosas ha ocurrido".

Las condiciones de la cristianidad aparecen graves. Y de otra parte ciertos rigoristas que lamentan la difusa corrupción eclesiástica, (intelectuales humanistas impregnados de culturas neopaganas), representan por la Iglesia una desgracia bien más grande de aquélla que se suele ver en papados como lo del Borgia. Sin embargo hoy, a distancia de casi cinco siglos, sabemos que también en aquella situación, que pudo parecer desgraciada por las suertes del cristianismo a una mirada puramente humana, fueron presentes pequeñas "semillas" de que se habría emanado un renacimiento cristiano estupefaciente, un tipo de nuevo inicio. ¿Pero un observador que hubiera atravesado la cristianidad en aquellos años dónde habría debido mirar para ver aquellas semillas? Un observador que se hubiera encontrado en la cripta de la pequeña iglesia de Montmartre, en París, el 15 de agosto de 1534, habría visto una escena completamente normal: siete hombres que hablavan entre ellos. Nada especial. Si no el motivo del convenir, que traslució de su comportamiento. En un casual observador habría quedado despertada la curiosidad por sus caras que enseñaron una determinación, una intensidad y un tipo de unidad de intentos insólitos: se habría dicho - a mirarlos bien - que eran muy atados el uno al otro. Inusual - a querer entender hasta el final el misterio que los unió y los hizo convenir allí - fue lo que estaban diciendo.

Aquellos siete "compañeros" estaban pronunciando una especie de voto, se empeñaron a servir Jesús Cristo en castidad y pobreza, a ir de peregrinacion en Tierra Santa o - si no hubiera sido posible - a ir a Roma metiéndose a disposición total del Papa. Fue el día de la Asuncion. Este grupo de siete hombres se llamará Compañía de Jesús. Queda un interrogante histórico no resuelto porque contra estos hombres desarmados se hayan en fin aliados y azuzados los más formidables poderes, también ocultos, políticos y económicos del mundo. ¿Qué encontraron en ellos a de así amenazador reyes, gobiernos, imperios financieros y lobbies comerciales? ¿Quizás aquella sus "unidad", que tampoco las mejores compañías de suerte conocieron? ¿O su osadía? ¿O la capacidad de hacerse estimar y ayudar de personajes potentes que quedaron asombrados de ellos?

Francisco Javier, que dejamos a París, dónde apenas llegó en el 1525, lo hallamos el 15 de agosto de 1534 en esta cripta parisiense: es uno de los siete compañeros. ¿Cómo es acabado allí? ¿Qué ha ocurrido en el curso de estos nueve años de tan especial de haber tocado una vida que pareció deber adelantar aquella de un Voltaire, de un Casanova o de un D'Artagnan? Francisco, de estudiante, alojó en el colegio de Santa Bárbara. Su compañero de cuarto y de estudios es un joven de Savoya, Pedro Favre. Francisco es exuberante y cultiva grandes ambiciones. Pedro, su coetáneo, tiene un carácter bueno y paciente. Enseguida se vuelven amigos. Y como generalmente ocurre en estos casos los conocimientos del uno se comunican al otro. Pedro un día le presenta a Francisco a un amigo suyo, un estudiante por la verdad bastante particular, porque tienes unos cuarenta años: se diría hoy uno fuera de curso. Se llama Ignacio, tiene un rostro delgado y un paso llamativamente claudicante. Antes en efecto fue el soldado: durante el asedio de Pamplona se ha cogido una pelota de cañón sobre la pierna y ahora lleva de ello las consecuencias. Ignacio ejerce ciertamente uno ascendiente sobre Pedro y sobre muchos otros estudiantes. Francisco, que mientras tanto en el 1530 ha tomado el diploma de maestro y ha empezado a enseñar, es, en un primer momento, hosco y desconfiado. Con él es "duro y dificultoso", quizás justo porque siente cada vez más fuerte la curiosidad y la atracción respecto a una personalidad potente como la de Ignacio. A poco a poco cambiará. Ignacio, que entiende de Francisco el carácter audaz y las grandes ambiciones, lo vencerá definitivamente repitiéndole una frase del Evangelio: "¿Qué le sirve al hombre conquistar el mundo entero si luego se pierde a si mismo?."

De aquí empieza la conversión de Francisco, es decir su adhesión a la Compañía de Ignacio, de Pedro y de los demás reunidos aquel 15 de agosto en la capilla de Montmartre. Francisco tiene 28 años. Todavía viviente se convertirá en una leyenda. No porque buscó la aventura. Sino porque vivió la obediencia tratando de hacer suyos la fe, la esperanza y la caridad de Ignacio. Antes sirviendo para tres años junto a los compañeros en los entornos fétidos de las prisiones y los hospitales del tiempo. Luego en Roma, siendo el secretario de Ignacio, General de la Compañía. Y por fin partiendo, en veinticuatro horas, de Roma, para siempre, hacia los extremos confines del mundo porque solicitado de Ignacio. Ocurrió que en el 1539 el rey de Portugal pidió a seis jesuitas por las Indias orientales. Ignacio contestó: "¿Sr. embajador, si sobre diez parten seis, por el resto del mundo qué quedará?." Manda dos de ello.

Pero ocurre el imprevisto. Uno de los dos muere llegando a Lisboa, el otro llega sólo a la víspera de la salida, además con un terrible ataque de ciática. Tan a última hora Ignacio llama a Francesco y le dice: "No puede partir nadie, Francisco, tienes que ir tú." Javier no tiene incertidumbres, en pocos minutos recoge para siempre sus pobres cosas y parte, sabiendo, lo escribe en su estreno misivo, "que nos "veremos" en esta vida ya sólo por carta." Un joven empleado a la embajada, hasta a entonces entregado a la dulce vida de corte, asombrado por Francisco confesó: "Por la primera vez en vida he visto qué quiere decir ser un cristiano."

Como un conquistador desarmado dominará los acontecimientos. Sea cuando se encuentra con el mareo sobre los barcos de la peor hez. Sea entre los pobres pescadores de perlas del Paravar, de Ceilán o de Malacca. Sea en guerra con los piratas, y todavía más con mil enfermedades y morbos tropicales, con el hambre y la sed, con las autoridades portuguesas, a las tomas con mercantes y negreros sin escrúpulos. Bautiza a niños y adultos, por miles por vez. Arraiga sus misiones instalando escuelas, colegios, organizando hospitales, aprendiendo decenas de extrañas lenguas. Atraviesa todos los mares, hacia Java, el Borneo, las Islas del Moro, luego Formosa, pasando por las feroces tribus de los cortadores de cabezas hasta la elegante civilización japonesa que por primero les contará a los europeos.

Hace tres veces naufragio, huye de decenas de atentados, a los musulmánes, a veces escondido en la selva. Millares y millares de kilómetros en barco, apretando amistades con mercantes y gente de todos los tipos para hacer conocer a Jesús Cristo. A sus amigos escribió: "Vivir sin gozar de Dios no sería una vida pero una muerte continua." En el enero de 1552, al final de esta increíble aventura durados diez años, apuntó: "Me parece realmente de poder decir que en mi vida no he recibido nunca alegría como aquì ." Un periodista francés, Jean Lacouture, ha escrito un libro, dónde cuenta la osadía de los jesuitas. Lacouture ha declarado: "Sí, han elegido la vida, con todos sus compromisos... Han elegido de ir en el mundo para anunciar el Evangelio, de afrontar lo cotidiano, con cuánto implica de trágico, de corrompido, de mentiroso."

¿De dónde nace tanta osadía? Continuamente Francisco tiene presente el recuerdo vehemente de los rostros de los amigos que se confunden con el rostro y el nombre de Jesús Cristo. No hace que recordarlos, le pide a Ignacio que le escriba "una carta tan larga que yo tenga que emplear tres días en leerla." Quiere saber todo de todos los compañeros. Noche y día piensa en ellos, les escribe y su corazón se inflama, su gratitud llega a las lágrimas. Cuando muere, a los 46 años, dentro de una choza de hojas, sobre la isla de Sancian, delante de China, dónde quiso llegar, en la noche del 2 de diciembre de 1552, sólo tenia a la compañía de un crucifijo y un chino que convirtió y que tuvo que hacerle de intérprete. Pero se descubrirá a su cuello un pequeño contenedor: dentro habia una reliquia del apóstol Tomas, la fórmula de su profesión y las firmas autografe de sus amigos recortada de sus cartas. No estuvieron lejanos. Los tuvo sobre su corazón.

Nessun commento: