COMMENTO DI SILVANO FAUSTI "UNA COMUNITA' LEGGE IL VANGELO DI MATTEO"

Messaggio nel contesto

«La pietra che i costruttori hanno scartato, questa è diventata testata d'angolo», dice Gesù ai capi del popolo. Dichiara così qual è il suo potere e da dove gli viene: è quello della «pietra scartata» diventata «testata d'angolo», quello del Figlio croci­fisso e risorto. La croce, stoltezza e debolezza per sapienti e potenti, è sapienza e potenza di Dio che salva l'uomo, distruggendo i suoi deliri di morte.

Gesù è il Messia che viene nel nome del Signore (v. 9), perché viene sull'asina. Ciò per cui è scartato, è il potere stesso di Dio, che alla fine sarà riconosciuto pro­prio da chi lo crocifigge (27,54).

Questo potere, che da sempre il Figlio ha in ciclo, gli viene conferito in terra da coloro che lo rifiutano - dai signori del tempio e del popolo, che non conoscono il Signore della gloria (ICor 2,6-8). Questi scatenano ciecamente contro di lui la loro violenza di morte. E lui si fa loro salvatore e Signore, perché assorbe in sé il loro male senza restituirlo, rivelando così chi è Dio e chi è l'uomo a sua immagine.

Senza soluzione di continuità con la parabola precedente, questo brano è un'allegoria della storia d'Israele, che nella parabola successiva sarà estesa alla Chiesa. Espone una «teologia della storia» in senso forte: dice come Dio vede la no­stra realtà, rivelando le «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (13,35). Dal punto di vista di Dio il mistero che sta all'origine del mondo è il suo amore di Padre verso i figli nel Figlio: tutto è fatto per lui e in vista di lui, e tutto in lui sussiste (Col l,16s). Ma noi, per ignoranza, strutturiamo tutto sul nostro egoismo, che ci uccide come figli e come fratelli.

Due cose occulte stanno quindi ora all'origine del mondo: il Corpo del Figlio e il cadavere del fratello. E Dio ne fa una sola: il fratello, al quale togliamo la vita, è il  Figlio che dà la vita per noi. La storia è un libro sigillato che solo l'Agnello immo­lato è in grado di aprire e leggere (Ap 5,9). Dio ha voluto fin dall'inizio un mondo bello, riflesso della sua gloria; ma noi ne abbiamo fatto un mondo brutto, pieno di violenza, che uccide il fratello. Al Signore, che rispetta la nostra libertà, non rimane che diventare lui stesso il fratello su cui si scarica la nostra violenza, per restituirci nel suo amore la nostra verità di figli. È una soluzione veramente divina: anche chi si oppone a lui, non fa che eseguire il suo disegno. La storia è una progressiva mani­festazione del mistero di un Dio che vince il nostro male portandolo su di sé, e fa del nostro sommo misfatto la sua mirabile opera di salvezza per tutti.

Il racconto narra l'intreccio tra la nostra infedeltà e la sua fedeltà. Il suo ve­nirci incontro e il nostro rifiuto. È una passione infelice, senza sbocco. La nostra è una provocazione sorda e continua, con una perversità latente che solo alla fine si esprime. Il brano presenta il braccio di ferro tra il potere dell'uomo, che è violenza distruttiva e autodistruttiva, e quello di Dio, che è amore più forte della morte.

Nell'uccisione del Figlio si compie tutto, sia la nostra perversità sia la sua bontà. Il nostro male esaurisce la sua carica negativa, togliendo la vita all'autore della vita; e Dio si manifesta tale, donando la sua vita a noi che gliela rubiamo. Nel­l'uccisione del Figlio otteniamo davvero la sua eredità: abbiamo tra le mani il frutto che ci fa simili a Dio (Gen 3,5)! Il Figlio, che nella sua mitezza si fa oggetto di pre­potenza, eredita da noi la nostra nudità, e noi da lui la sua veste di figlio (27,35).

Il racconto inizia descrivendo la cura che Dio ha per la sua vigna: manifesta il suo amore con i fatti, perché lo comprendiamo e possiamo fare quel frutto che ci rende simile a lui (vv. 33-34).

Al moltiplicarsi dei suoi gesti di bontà corrisponde un crescendo della nostra cattiveria: percuotiamo e uccidiamo sistematicamente i profeti che ci richiamano a produrre il frutto desiderato (vv. 35-36). La nostra risposta alle sue premure è un'automatica e monotona reazione. Non c'è via d'uscita. All'ostinazione del suo amore, corrisponde il muro sempre più spesso del nostro rifiuto!

Alla fine il Padre manda «il» Figlio. Proprio davanti a lui esce allo scoperto l'intenzione che covavamo nei suoi confronti: ucciderlo per rapirne l'eredità (vv. 37-39). Gli ascoltatori, interpellati da Gesù, rispondono dicendo che il delitto è de­gno della più severa condanna (w. 40-41). Ma il Signore da un'altra interpreta-zione: il rifiuto dei capi sarà l'inizio di un nuovo popolo, e la pietra scartata sarà te­stata d'angolo del nuovo tempio (vv. 42-44). I capi del popolo capiscono finalmente che si parla di loro, e si accingono a fare ciò che Gesù ha appena detto (vv. 45-46).

Si dice giustamente che la storia è rivelazione. In essa infatti la violenza toglie sempre più la maschera del suo potere mortifero. Non è un caso, se proprio oggi qualcuno scrive un «Elogio della mitezza» e un «Elogio della solidarietà». Sarebbe però fuori luogo un «Elogio del nostro tempo», se non si fa prima un elogio dell'a­sina e del fico, per ridare all'uomo la sua umanità e a Dio la sua realtà.

Gesù, il Figlio dell'uomo disprezzato e ucciso fuori le mura, è la pietra scartata che diventa pietra angolare: è il Figlio che ci da l'eredità, è il Pontefice che unisce il Padre ai fratelli e questi tra di loro. La sua croce svela la distruttività della nostra violenza e la forza del suo amore. Questa è l'opera meravigliosa di Dio: la nostra miseria fa uscire la sua misericordia.

La Chiesa riconosce in Gesù l'Agnello, immolato e vittorioso (Ap 5,6.13), che vince il male con il bene (Rm 12,21), spegnendo in sé la nostra potenza di morte. Uniti a lui, israeliti e pagani, siamo figli nel Figlio, albero fruttifero e tempio dello Spirito.

Lettura del testo

v. 33: C'era un uomo, un proprietario. È il Signore, del quale è la terra e quanto contiene, l'universo e i suoi abitanti (Sai 24,1). Lui però non è un padrone. Non si appropria di nulla e di nessuno; al contrario dona tutto a tutti, fino a dare se stesso. Il nostro errore, fin dall'inizio, fu pensarlo diverso da quello che è; noi poi, essendo figli e volendo diventare simili a lui (Gen 3,5), ci siamo efficacemente dati da fare per diventare come l'avevamo immaginato.

piantò una vigna. La vigna è Israele (Is 5,1-7), il primogenito, scelto da Dio tra tutti i popoli come sua proprietà (Es 19,5). Non perché è il più numeroso o forte; è anzi il più piccolo tra tutti i popoli (cf. Dt 7,7). In lui ha voluto far brillare il suo amore di Padre per i suoi figli, in modo che diventi luce per i fratelli.

«Piantare la vigna» è un lavoro paziente e intelligente, che esige impegno e fa­tica. Bisogna cercare il terreno giusto, adeguatamente solatio, scavarlo profonda­mente e drenarlo, scegliere e piantare ogni vitigno. Il contadino fa questo con gioia, pensando al frutto. «Piantare la vigna» sintetizza l'azione di Dio per il popolo eletto, dai patriarchi ai Giudici, dalla promessa all'eredità della terra, attraverso la liberazione dall'Egitto e il dono della Parola.

Questa vigna è fatta per rispondere all'amore del Padre con l'amore verso i fratelli (7,12; 22,36-40; Dt 4,6s e Lv 19,18). Se non lo fa, è come il fico sterile.

la circondò con una siepe. La siepe delimita e protegge la proprietà da ciò che la danneggia, ladri o bestie. È simbolo della legge, che caratterizza il popolo nella sua diversità: lo rende simile a Dio, indicandogli il bene e proteggendolo dal male.

vi scavò un torchio. Il torchio, posto al centro della torre per spremere il frutto della vigna, è l'altare da cui sale quel sacrificio gradito a Dio che è la misericordia dell'uomo (9,13; 12,7). Se non c'è questo, le foglie, anche se rigogliose, sono segno di sterilità e maledizione (vedi le critiche profetiche al culto del tempio, ad es.: Is 1,10-20; 58,lss; Ger 7,lss; Am 5,21-27; MI 3,1-5).

costruì una torre. La torre richiama il tempio, che serve a custodia della vigna e deposito dei frutti. Non dovrebbe essere pieno di mercanti e briganti, ma casa di co­munione con il Padre e con i fratelli, aperta a tutte le genti.

la affidò a dei coltivatori. Sono gli ascoltatori di Gesù, i capi del popolo, e quanti con loro si identificano. Dovrebbero, come Adamo, collaborare all'azione di Dio coltivando e custodendo il giardino (Gen 2,15), e non distruggerlo per posse­derlo.

emigrò. Dio non è impiccione. All'uomo fa dono di tutto. Soprattutto della li­bertà di agire come lui! Fatto al sesto giorno, ha il compito di portare la creazione al settimo, al riposo di Dio. Per questo lui è assente: la sua presenza di Padre è affidata alla responsabilità di figli adulti, che vivono da fratelli. Addirittura emigra all'e­stero: si fa estraneo, e lo incontriamo in ogni straniero che cerca accoglienza (cf. 25,31-46).

In questo versetto si sottolinea, con verbi di azione, la fatica di quel Dio che con la semplice parola ha creato tutto: è la cura del suo amore per formarsi un figlio adulto, il primogenito. Non è un padrone che fa lavorare altri per rapirne i frutti -come fanno i padroni di questo mondo. Lavora personalmente, a sue spese, e senza vantaggio; l'unica ricompensa per il padre è la felicità del figlio. «Pianta» con cura la vigna, vitigno per vitigno, perché ognuno fruttifichi secondo il suo cuore; la «cinge» di una siepe, che la protegga come le sue braccia; vi «scava» un torchio nella roccia, perché possa godere del proprio frutto; «costruisce» una torre, perché vegli su di lei e la custodisca; «emigra» altrove, per darle la libertà di essere come lui.

v. 34: il tempo dei frutti. La vigna è coltivata in vista di quel frutto che rallegra Dio e l'uomo (Gdc 9,13; cf. Sai 104,15): è l'amore per i fratelli, di cui ha fame tanto il Figlio quanto il Padre.

inviò i suoi servi. Invece di «servo», in greco c'è «schiavo». Lo schiavo è pro­prietà del suo signore. Schiavi sono i profeti, che appartengono a Dio, come Dio ap­partiene a loro (cf. Ct 2,16; 6,3; 7,11). Essere l'uno dell'altro per amore, è la vita stessa del Padre e del Figlio, e di chiunque ha il suo Spirito. I profeti vivono il mede­simo dramma del loro Signore che li manda. Vedi in particolare Elia, Geremia e il Battista (cf. 16,14). Sono inviati ai fratelli come testimoni, martiri dell'amore che chiama a conversione.

Oltre l'istituzione del tempio e della monarchia, comune a tutti i popoli - il re rappresenta Dio in terra e il tempio gli garantisce la protezione di Dio - in Israele c'è un'anti-istituzione: il profetismo. Il profeta è contro ogni sacralizzazione e asso-lutizzazione del tempio e della legge, e, a maggior ragione, del re, che dovrebbe ri­spettarla. Egli è contro la violenza religiosa e politica: richiama alla fraternità, ricor­dando al re l'osservanza della legge, e agli osservanti della legge l'amore di Dio e del prossimo.

per prenderne i frutti. Il Signore ha «fame» del frutto della vigna (21,18), come ha «bisogno» dell'asina (21,3). Egli desidera che l'uomo, suo figlio, si realizzi nell'a­more e nella libertà di servire, come lui.

v. 35:presi i suoi servi, ecc. È la sorte dei profeti (cf. 23,29-32): portando la mi­tezza del Padre, sono preda della violenza dei fratelli. Sono martiri, testimoni in­sieme del nostro male e del suo amore: sono i giusti, prefigurazione del Giusto, sul quale ricade l'ingiustizia (cf. Sap 2,12-20). Nelle loro ferite si spurga la virulenza della nostra cattiveria (cf. Is 53,1-12); nel loro silenzio si spegne la nostra menzogna. Chi opera il bene - può parere scandaloso - non resta mai impunito!

Noi, invece di ascoltare la voce dei profeti, tagliamo loro la gola. Più il Signore ci chiama con la loro parola e il loro esempio, più ci allontaniamo da lui. Chiamati a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo! Ma Dio è Dio, e non uomo. Per questo freme; ma non di ira, bensì di compassione, e viene a noi nella sua misericor­dia (cf. Os 11,2.7.9).

v. 36: di nuovo inviò altri servi, più numerosi dei primi. Dio non si stanca; molti­plica con generosità i suoi appelli. E noi ripetiamo, autisticamente, con violenza sem­pre più folle, il nostro rifiuto. Sordi alla Parola, uccidiamo chi la dice, facendo monu­menti a quelli che i nostri padri hanno ucciso. Ma questo non ci dissocia dalla loro colpa; ci serve solo da alibi per continuare le loro malefatte, testimoniando così di es­sere loro degni figli (23,29-32). Circa la sorte dei profeti, vedi anche Eb 11,32-40.

v. 37: alla fine inviò loro il Figlio suo (cf. Eb l,ls). Dio non ha nulla di più da dirci che la sua stessa Parola, nulla di più da darci che il suo stesso Figlio. Il quale non si vergogna di chiamarsi nostro fratello (cf. Eb 2,lls)!

v. 38: / coltivatori, visto il Figlio. È il Figlio perfetto come il Padre (5,48), irra­diazione della sua gloria, impronta della sua sostanza, che tutto sostiene con la sua Parola (Eb 1,3). È il Figlio che fa la volontà del Padre, il quale fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti (5,45).

è l'erede: venite, uccidiamolo, e avremo la sua eredità. Davanti al Figlio si svela l'intenzione perversa dei fratelli: la sua diversità manifesta la nostra. Noi vogliamo la morte del Padre e del fratello, per impadronirci dell'eredità; vogliamo possedere in proprio ciò che è donato (Gen 3; Ez 16). Questo è il movente della violenza che consuma la nostra storia: appropriarci del dono, non accorgendoci che così lo di­struggiamo. E siccome tutto è dono - il mondo, il mio io e Dio stesso - tutto è tra­volto nelle fauci della morte.

Noi vogliamo l'eredità del Figlio, il tesoro del Padre, ignorando che essa è lo Spirito d'amore, vita di ambedue. Ma proprio uccidendo il Figlio, ne otteniamo l'e­redità: a noi, che gli togliamo la vita, egli dona la sua vita.

In questo modo il bene trionfa di ogni male!

v. 39: presolo, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. È la storia che sta accadendo a Gesù, della quale gli ascoltatori (allora come adesso!) sono attori. Tra due giorni lo prenderanno nell'orto, lo cacceranno fuori le mura e lo uccideranno sul Golgota.

v. 40: Il Signore della vigna cosa farà a quei coltivatori? Gesù domanda agli ascoltatori il giudizio su ciò che stanno facendo. La loro risposta, senza pietà, è la stessa di Davide a Natan, che gli sta parlando del suo peccato (cf. 2Sam 12,5s). Gesù dice in anticipo ciò che essi intendono fare. Quando sarà accaduto, sapranno al­meno che «c'è un profeta», che ha predetto il loro male e l'ha portato su di sé, co­scientemente e liberamente. Solo allora potranno dire: «Ho peccato contro il Si­gnore» (2Sam 12,13) e capire che «davvero costui era Figlio di Dio» (27,54).

v. 41: sterminerà malamente quei malvagi. È la lettura della storia che facciamo noi: pensiamo che Dio sia più violento dei cattivi, e li ripaghi con la stessa moneta. La condanna che, senza saperlo, pronunciamo su di noi, sarà portata dal Signore stesso, che per noi si è fatto maledizione e peccato, perché noi diventassimo giusti­zia di Dio (Gai 3,13; 2Cor 5,21).

affiderà la vigna ad altri coltivatori, ecc. Questi coltivatori «altri» saranno quanti, vedendo il segno del Figlio dell'uomo, si batteranno il petto (24,30), ricono­scendo il proprio no e il suo eterno sì. Essi porteranno frutto, accettando il dono che il Messia crocifisso fa a quanti glielo rapiscono. Tra questi «altri» c'è la Chiesa di Matteo, composta da giudei che hanno ascoltato i profeti e riconosciuto, nel per­dono, il loro Signore (cf. Ger 31,31-34).

v. 42: la pietra che i costruttori hanno scartato, ecc. (Sai 118,22s). Questo stesso salmo, citato anche nell'ingresso messianico (21,9), offre a Gesù un'altra interpreta-zione del fatto, veramente divina. «Pietra» e «il Figlio» in ebraico si richiamano ('eben e haben): colui che abbiamo disprezzato, proprio questi è il Figlio che, in quanto ucciso, da la vita per tutti. Così diviene pietra angolare del nuovo tempio, che unisce ciclo e terra, divinità e umanità, giudei e pagani, formando di tutti un solo popolo, annullando ogni inimicizia e condanna tra gli uomini (cf. Ef 2,14-18).

dal Signore venne questo, ed è una meraviglia. Questa è l'opera del Signore, la meraviglia da lui compiuta davanti ai nostri occhi. Noi, del bene che lui ci da, ne fac­ciamo del male; lui, del male che noi gli diamo, ne fa un bene.

Con l'uccisione del Figlio noi abbiamo usato la nostra libertà - massimo bene che ci rende simili a lui - per compiere il massimo male, addirittura impensabile: uc­cidere l'autore della vita (At 3,15). E lui ne fa il sommo bene, per tutti: il dono di sé. Come Giuseppe ai suoi fratelli, Gesù dice: «Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si av­vera: far vivere un popolo numeroso» (Gen 50,20).

Davvero tutto, anche il male, coopera al bene (cf. Rm 8,28). Tutti si sono riu­niti contro il Cristo, per compiere ciò che la mano e il cuore di Dio aveva preordi­nato che avvenisse (At 4,28), per realizzare il suo disegno e la sua parola (cf. Ap 17,17). Con i perversi, Dio è astuto (Sai 18,27), divinamente astuto: noi facciamo dei suoi doni un furto, e lui fa del nostro furto il suo dono!

Il risultato ultimo della nostra violenza - oltre l'uccisione della vita non può andare nessun potere di morte! - non è la distruzione di tutto. Come dal caos primi­tivo la Parola creò il mondo, ora lo ricrea nuovo, pieno della sua gloria. Veramente grande e santo è Dio!

v. 43: sarà levato loro il regno e dato a un popolo (pagano) che ne faccia i frutti. Nel Regno ci precedono pubblicani e prostitute (v. 31), quelli che hanno dato frutti di conversione. Il nuovo popolo è fatto da quanti, giudei o no, si riconoscono pecca­tori e accettano nel Figlio crocifisso l'eterno sì del Padre a tutti i suoi figli. Costoro conoscono l'amore del Padre, e possono portare il frutto di una vita fraterna.

v. 44: chi cade su questa pietra, sarà sfracellato, ecc. È un versetto misterioso, che allude a Dn 2,31-45. Il sasso che frantuma il gigantesco colosso e diventa una grande montagna, la forza di Dio che fa crollare l'idolo grande, splendido e terribile che l'uomo si è costruito, è la debolezza della croce. Gesù crocifisso è la pietra di scandalo per tutti, il giudizio di Dio su Israele, sulla Chiesa e su ogni uomo, perché ormai tutti siamo un solo popolo, uniti nella colpa e nel perdono. Queste parole non sono da leggere in senso antigiudaico, ma universale. La storia di Israele è pro­fezia di ogni altra: ciò che è accaduto al primogenito, è ammonimento per noi (ICor 10,11). Coloro sui quali la pietra è caduta, sono i giudei che per primi hanno rice­vuto il Figlio della promessa. Coloro sui quali cade, siamo noi, partecipi della stessa promessa (cf. Gen 12,3).

Il Messia crocifisso, pietra di scandalo - presto o tardi tutti cadiamo su di lui come lui è caduto sui nostri padri -, sfracella e stritola la nostra immagine di Dio e di uomo, per restituire a Dio la sua gloria e all'uomo la sua libertà.

v. 45: i sommi sacerdoti e i farisei. Agli anziani, che c'erano all'inizio (v. 23), succedono i farisei, ai quali sarà dedicato in particolare il e. 23. La parabola è diretta a loro e a noi, a chiunque non riconosce il potere del Figlio, che è quello dell'asina e del suo asinelio.

v. 46: cercando di impadronirsi di lui. I nemici stanno eseguendo alla lettera ciò che Gesù ha appena detto. Lo faranno tra due giorni (cf. 26,2). È chiaro anche a chi ascolta che si parla di lui: è un racconto che gli svela ciò che sta facendo! Ma la grande sorpresa è vedere come l'azione dell'uomo esegua e riveli sempre il mistero nascosto - quello della nostra violenza e della vittoria dell'Agnello. Grande è la po­tenza di Dio: la malvagità nostra, alla fine, non fa che compiere la sua bontà nei no­stri confronti.

temettero la folla, ecc. La folla l'ha osannato poco prima. Tra due giorni, quando vedrà che il potere del Figlio è quello della pietra scartata, tutto il popolo dirà: «Sia crocifisso», e invocherà su di sé il suo sangue, la sua eredità (27,22.23.25). I sudditi sono come i capi, che in loro si riconoscono; per questo li vogliono e li scel­gono così (cf. Gdc 9,8-15; ISam 8,lss).

Il risultato ultimo della nostra violenza - oltre l'uccisione della vita non può andare nessun potere di morte! - non è la distruzione di tutto. Come dal caos primi­tivo la Parola creò il mondo, ora lo ricrea nuovo, pieno della sua gloria. Veramente grande e santo è Dio!

v. 43: sarà levato loro il regno e dato a un popolo (pagano) che ne faccia i frutti. Nel Regno ci precedono pubblicani e prostitute (v. 31), quelli che hanno dato frutti di conversione. Il nuovo popolo è fatto da quanti, giudei o no, si riconoscono pecca­tori e accettano nel Figlio crocifisso l'eterno sì del Padre a tutti i suoi figli. Costoro conoscono l'amore del Padre, e possono portare il frutto di una vita fraterna.

v. 44: chi cade su questa pietra, sarà sfracellato, ecc. È un versetto misterioso, che allude a Dn 2,31-45. Il sasso che frantuma il gigantesco colosso e diventa una grande montagna, la forza di Dio che fa crollare l'idolo grande, splendido e terribile che l'uomo si è costruito, è la debolezza della croce. Gesù crocifisso è la pietra di scandalo per tutti, il giudizio di Dio su Israele, sulla Chiesa e su ogni uomo, perché ormai tutti siamo un solo popolo, uniti nella colpa e nel perdono. Queste parole non sono da leggere in senso antigiudaico, ma universale. La storia di Israele è pro­fezia di ogni altra: ciò che è accaduto al primogenito, è ammonimento per noi (ICor 10,11). Coloro sui quali la pietra è caduta, sono i giudei che per primi hanno rice­vuto il Figlio della promessa. Coloro sui quali cade, siamo noi, partecipi della stessa promessa (cf. Gen 12,3).

Il Messia crocifisso, pietra di scandalo - presto o tardi tutti cadiamo su di lui come lui è caduto sui nostri padri -, sfracella e stritola la nostra immagine di Dio e di uomo, per restituire a Dio la sua gloria e all'uomo la sua libertà.

v. 45: i sommi sacerdoti e i farisei. Agli anziani, che c'erano all'inizio (v. 23), succedono i farisei, ai quali sarà dedicato in particolare il e. 23. La parabola è diretta a loro e a noi, a chiunque non riconosce il potere del Figlio, che è quello dell'asina e del suo asinelio.

v. 46: cercando di impadronirsi di lui. I nemici stanno eseguendo alla lettera ciò che Gesù ha appena detto. Lo faranno tra due giorni (cf. 26,2). È chiaro anche a chi ascolta che si parla di lui: è un racconto che gli svela ciò che sta facendo! Ma la grande sorpresa è vedere come l'azione dell'uomo esegua e riveli sempre il mistero nascosto - quello della nostra violenza e della vittoria dell'Agnello. Grande è la po­tenza di Dio: la malvagità nostra, alla fine, non fa che compiere la sua bontà nei no­stri confronti.

temettero la folla, ecc. La folla l'ha osannato poco prima. Tra due giorni, quando vedrà che il potere del Figlio è quello della pietra scartata, tutto il popolo dirà: «Sia crocifisso», e invocherà su di sé il suo sangue, la sua eredità (27,22.23.25). I sudditi sono come i capi, che in loro si riconoscono; per questo li vogliono e li scel­gono così (cf. Gdc 9,8-15; ISam 8,lss).

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