Venerdì della III settimana di Quaresima


Il martirio di Rabbi Akiva



Secondo il Talmud, per cercare di eliminare per sempre l'Ebraismo, 
il governo Romano proibì ai Maestri Ebrei di insegnare la Torah. 
Tuttavia, Rabbi Akiva si rifiutò di seguire questo decreto 
e fu catturato e condannato a morte.
Mentre il torturatore gli bruciava la pelle, 
il Rabbino sorrideva e recitava le preghiere della sera, 
collegandosi così con il sacrificio serale nel Tempio di Gerusalemme. 
I suoi discepoli volevano risparmiargli quell'ultimo sforzo: 
"Maestro, ora però sei dispensato!".
Ma Rabbi Akiva disse:
«Per tutta la vita mi sono tormentato a causa del verso: 
"Amerai il Signore tuo Dio con tutta l'anima",
con il mio ultimo respiro,
e mi sono sempre chiesto quando sarei stato capace 
di adempiere questo precetto, 
ed ora che finalmente posso adempierlo, non dovrei farlo?»
Allora egli cominciò a recitare lo Shemà: 
"Ascolta Israele, Hashem è il nostro Dio, Hashem è uno" 
(Shemà Yisrael, Hashem Elohenu Hashem echad) 
e morì mentre pronunciava l'ultima parola.
Si racconta che in quel momento una voce dal Cielo proclamò: 
«Tu sei beato Akiva, il tuo respiro si è spento con "Echad". 
Tu sei beato Akiva, avrai una parte nel Mondo Avvenire.»


(Questo racconto si trova nel Talmud Bavlì, Berachot 61b)


Dal Vangelo secondo Marco 12,28-34. 
In quel tempo, si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore;
amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.
E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi».
Allora lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui;
amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.



IL COMMENTO


La saggezza dell'uomo consiste nel saper rispondere ad una domanda, quella decisiva. Il vangelo di oggi ci svela che vi è una risposta intelligente da cui deriva una vita altrettanto intelligente, sapiente, gustosa. La domanda cui rispondere è: "Qual'è il primo dei comandamenti?". Possiamo esprimere il significato della parola comandamento, attraverso le diverse sfumature che si colgono dai termini ebraici che traduce: come una parola che affida un incaricoun comando fissato come un ordine di servizio, la legge "incisa" che orienta e dirige il compimento di una missione. Situando in questo orizzonte la parola comandamento scopriamo in esso una ricchezza forse sconosciuta. Esso, secondo la tradizione di Israele, è sempre una parola di vita. Osservare, compiere i comandamenti è la via alla riuscita della vita, perchè la vita è una missione affidata a ciascun uomo: "Vi ho costituiti perchè andiate e portiate frutto, ed il vostro frutto rimanga" (Gv.15).

La domanda decisiva che appare nel Vangelo di oggi allora può significare: "Su che cosa fondare l'esistenza perchè sia riuscita? Che cos'è decisivo e imprescindibile nella vita? A quale comando obbedire per vivere pienamente? Cosa fare per essere felici? Quale è la parola che mi può indicare il compimento della mia vita e condurla alla realizzazione della missione che mi è affidata? Tra i tanti che sento ogni giorno, qual'è il comandamento che mi guida verso il Regno di Dio?". La nostra vita è come una freccia scoccata dall'arco verso un obiettivo ben preciso. Chet, uno dei termini ebraici del concetto di “peccato” significa fallire il bersaglioin greco è tradotto con “hamartia”, che significa letteralmente direzione sbagliata di vita, bersaglio non preso. Il termine peccato significa dunque una direzione sbagliata della propria esistenza, è relativo all'ontologia ancor prima che alla morale. S. Agostino considera il peccato come un "bene che non ha raggiunto il suo fine". Il Concilio Vaticano II afferma che il peccato è un limite che l’uomo mette alla propria crescita, “ una diminuzione per l’uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza” (GS 1,13).


Il dialogo tra lo scriba ed il Signore riveste allora una importanza capitale: come vivere sapientemente, perchè la nostra vita non sia sprecata fallendo il bersaglio, preda del peccato. Ed è una domanda decisiva perchè ci svela che non è possibile vivere confondendo pensieri, affezioni e azioni nel grigio del compromesso; o si è sapienti o si è stolti, o con il Signore o contro di Lui: "Gesù, vedendo che aveva risposto intelligentemente"... ovvero con discernimento, con sapienza. "Il principio della sapienza è il timore del Signore", che significa vivere abbandonati alla sua volontà in un'intimità di amore, e sperimentare la Sua presenza nella nostra vita come una presenza unica, perchè Lui è unico. E' la sapienza più genuina che scopre l'evidenza della realtà più profonda, la verità su cui poggia l'universo: Dio esiste, ed è unico. Unico nell'amore, ad ogni uomo in qualunque situzione si trovi. Unico nella misericordia. Unico nel potere con il quale ci libera. La sapienza è amarlo con tutto noi stessi, consegnandogli tutto di noi, amarlo di amore esclusivo, amore unico per l'Unico amore.

L'incipit delle Dieci Parole di Vita, vergate con il fuoco dell'amore divino e rivelate sul Sinai, rammentano un'esperienza. L'ascolto è preceduto e accompagnato da un'esperienza: la liberazione dall'Egitto. Nella liberazione l'esperienza di Dio. Lo stesso incipit dello Shemà, il comandamento più grande. L'amore a Dio e al prossimo scaturisce dall'esperienza dell'unicità di Dio. Per questo prima di essere un comandamento, esso è un'affermazione, un annuncio e una profezia, la rivelazione di un'identità. Ascolta Israele, il Signore è uno. Il comandamento più grande rivela la grandezza di Colui che comanda, la sua unicità. La missione affidata ad Israele prima e alla Chiesa poi, l'incarico che costituisce la vita di ciascuno di noi, rivela l'identità di Colui che incarica e affida la missione. E nella sua identità è rivelata anche quella dell'apostolo, dell'inviato. Liberatore e liberato, in questa relazione sperimentata è gestato, nasce e si compie il comandamento più grande.

Nel dialogo tra lo scriba e Gesù si legge in filigrana tutta la storia di Israele che, proprio in quel momento, trova pienezza e compimento. E' il dialogo tra il Liberatore-Gesù e il liberato-scriba che si incontrano nell'amore. Per questo Gesù conclude congratulandosi con lo scriba dicendogli che non è lontano dal Regno di Dio: aderendo alle sue parole lo scriba riconosce in quel comando la missione della sua vita; essa infatti consiste nell'esodo dalla condizione servile alla libertà, dall'Egitto alla Terra Promessa, dalla morte alla vita, dal peccato al compimento, all'amore totale e senza condizioni. La missione di Gesù e la missione dello scriba-discepolo coincidono! Gesù è, nello stesso tempo, Dio e il prossimo oggetti dell'amore esclusivo e geloso di cui il comandamento dello Shemà. Ma anche lo scriba è l'oggetto dello stesso amore "unico" da parte di Gesù. Dio è l'unico da amare con tutto se stesso perchè e l'unico che ama ogni uomo con tutto se stesso come fosse l'unico al mondo. I due rimangono l'uno nell'altro nell'amore e compiono così lo Shemà che li conduce nel Regno eterno del Padre.

Gesù e lo scriba figli di Israele conoscono le vicende del proprio popolo. Egitto, Mitraym, in ebraico significa "angoscia, luogo dove l'umano è definitivamente incastrato e rinserrato". In Egitto il popolo ha vissuto nella condizione servile. Ciò non significa solamente la schiavitù in senso fisico. In Egitto il Popolo ha vissuto incastrato nel servizio agli idoli, e forse si è esso stesso sottomesso all'idolatria. Essa è sempre dissipazione e disordine dell'uomo, del suo cuore, della sua mente, delle sue forze. Disordine in ebraico si dice "Faraone". Asservito al Faraone il Popolo santo aveva perduto la sua identità, l'arco scoccato stava fallendo il bersaglio, e la vita scorreva slegata nella fatica della schiavitù. In questa situazione fallimentare è avvenuto l'impossibile, Dio stesso è sceso a liberare il Popolo per condurlo al bersaglio autentico, al compimento della sua missione. Il comandamento più grande, la sintesi di tutta la Torah e dei profeti, è quindi il sigillo ed il segno dell'opera unica compiuta dall'unico che ne aveva il potere. "Il Popolo ebraico attesta, compiendo il primo comandamento, che "solo il SIgnore suo Dio" può fare questo. Testimonia che ne è beneficiario. Accetta e decide, per quanto possibile, di assumere la liberazione dalla servitù del Faraone. Vuole servire il Solo Signore, rendergli culto, orientare tutte le sue forze, tutto il suo cuore, tutta la sua anima, tutto il suo tutto, a questo solo culto" (Marie Vidal, Un ebreo chiamato Gesù). E Dio era solo, non v'era con Lui alcun dio straniero. Lui ha spiegato le Sue ali e ha liberato il Suo popolo. Ha rivelato se stesso nella forza incommensurabile del Suo amore, l'unico che ha reso possibile l'impossibile. Non vi sono altri dei, non si allineano altri signori. E' uno. E' Dio. L'unica risposta alla questione che ci pone la vita è amarlo perchè è unico: amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze è l'unica vita ragionevole, intelligente, sapiente.

Lo Shemà, l'ascolto che si fa obbedienza e compimento di un amore esclusivo, è il comandamento più grande perchè è il comandamento dell'uomo libero. La libertà è la missione affidata ad ogni uomo creato ad immagine e somigliante del Dio libero che, liberamente lo ha tratto dal nulla per puro amore. Non esiste vita autentica dove non esiste libertà, perchè non esiste amore laddove permane la schiavitù. Dove regna il Faraone vi è disordine e l'uomo vive dissipato; cuore, anima e forze si combattono conducendo l'uomo ad una schizofrenia interiore che lo distrugge. San Giovanni della Croce commentando la citazione di Dt 6,5 afferma come "tutto il lavoro necessario per giungere all'unione con Dio, consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio... quando la volontà indirizza le passioni, potenze e appetiti verso Dio e li distoglie da tutto ciò che non è Lui, allora conserva la forza dell'anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze". E' quanto afferma anche la sapienza di Israele: "Bisogna benedire Dio per il male e per il bene, perchè è scritto: Amerai.... con tutto il cuore: con le tue due inclinazioni, il bene e il male..." (Ber. 9,5). Anche il Targum offre una interpretazione analoga, il che significa che era quella diffusa nel I secolo, al tempo di Gesù. Secondo la concezione rabbinica molto simile a quella di San Giovanni della Croce, vi sono due "istinti", uno buono e uno cattivo. Quest'ultimo, in sè, è moralmente neutro. Diventa cattivo solo quando non è condotto nelle vie della Torah. Il pio ebreo prega ogni giorno così: "Possa l'istinto cattivo non acquistare potere sopra di noi. Costringi il nostro istinto a rimanere a te sottomesso". Esiste il demonio e la schiavitù e sottomissione ad esso preclude qualunque altra libertà. Il dialogo di Gesù con i giudei del capitolo 8 del vangelo di Giovanni verte sullo Shemà, anche se non appare esplicitamente. La libertà sorge dalla Verità annunciata dalle parole di Gesù:  "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre;  se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero... Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio". L'ascolto della sua Parola è l'unica possibilità offerta all'uomo per essere libero davvero, affrancato dal potere del demonio, dalla schiavitù idolatrica che esso suppone. La Parola di Gesù è dunque lo Shemà capace di ri-orientare la vita sul cammino del compimento, dove cuore, anima e forze sono impiegate per amare. Lo Shemà che genera e gesta i figli di Dio perchè vivano liberi come il Padre loro.

A chi consegnare se stessi se non vi è nessun altro che Lui? Chi amare se non ci ha creato, amato e redenti se non Lui solo? Come dividere il nostro amore con idoli vani, inesistenti, incapaci d'amare e di salvare? Tutto ha origine da un'esperienza nella nostra concretissima vita. Non si tratta di un impegno, di buona volontà. Si tratta d'amore. Un bambino ama chi lo ama. Un bambino entra nel Regno dei cieli. Un bambino è il più saggio perchè vive rispondendo "naturalmente" ad un'evidenza: l'amore dei suoi genitori. Con i limiti della carne, con i capricci e le marachelle, che non intaccano assolutamente la saggezza semplice dello spirito d'un bambino. Egli va dove va suo Padre, è come il vento, oggi a Roma domani a Tokyo: cambiano le situazioni, emergono nuove difficoltà, aumentano i problemi, ma lui resta aggrappato a suo Padre, non teme, perchè ama con tutto se stesso. Questo amore che sorge dall'essere amato è la roccia su cui fondare l'esistenza, la stabilità nell'instabilità, la certezza nella precarietà. Lo Shemà è il fondamento del matrimonio, del fidanzamento, dell'amicizia, del lavoro, della Chiesa stessa. Lo Shemà irrora di eternità tutto il transitorio della vita generando la libertà di amare in qualunque circostanza, senza illusioni, nella santa indifferenza che sbriciola ogni preteso assoluto che vorrebbe rubare mente, anima e corpo. Non vi è argomento di discussione, non vi è problema, difficoltà o sofferenza, non vi è precarietà, non vi è differenza e attrito, non vi è male che abbia ragione dell'amore che compie lo Shemà. Non vi è difetto della moglie o impuntatura del marito, non vi è ribellione del figlio, non vi è tentazione della carne che abbia potere sullo Shemà, perchè esso incarna il Cielo in ogni questione della terra, mette in fila le priorità e i valori, illumina le questioni più intricate, sciogliendole dal laccio che le vorrebbe innalzare in un assoluto teso a nascondere il fondamento autentico. Lo Shemà è l'antidoto al fallimento delle relazioni: chi vive lo Shemà non dirà mai "non ti amo più, sono cambiati i miei sentimenti, non è più come prima"; perchè lo Shemà compiuto inchioda ogni relazione sul robusto Legno della Croce, il luogo della libertà che si fa dono, sia quel che sia, costi quel che costi. Lo Shemà è il sigillo della Grazia e dell'elezione a vivere sulla terra l'amore celeste, la missione affidata alla Chiesa e a ciascuno di noi.

Dio infatti è unico perchè il Suo amore è l'unico che scende con noi e in noi, nella sofferenza più profonda, nei dolori di un cancro, nelle angosce dei tradimenti e dei fallimenti, nei tormenti dei dubbi, in tutti gli istanti delle nostre vite. Lui è l'unico che ci ama così come siamo. Lui solo può darci la vita nella morte, orientare tutto di noi verso il compimento della missione affidata. L'esperienza del Suo amore genera il radicale e assoluto amore a Lui. Da esso sgorga, naturalmente, l'amore al prossimo, il dono totale che giunge sino al nemico, perchè ogni uomo, qualunque sia la sua situazione, reca scolpito il cromosoma divino. Ascoltare è dunque amare. Ascoltare la Verità è obbedire alla Verità; non a caso in ebraico i due verbi coincidono. Nulla di sentimentale, erotico e passionale. Un amore crudo, reale, totale, ragionevole e sapiente. L'amore crocifisso di Colui che, unico, ci ha donato tutto. Nel Suo tutto consegnato il nostro tutto consegnato. Amore per amore. La liturgia celeste che appare nel dialogo tra Gesù e lo scriba, tra Gesù e ciascuno di noi oggi, e ogni giorno: Ascoltare e proclamare nella vita, per pura Grazia, lo Shemà, l'unicità dell'amore di Dio, un canto di gioia nel compimento della propria vita secondo la volontà-comandamento-parola del Padre.



San Giovanni della Croce. Amare Dio con tutto se stessi.
Salita al Monte Carmelo, Cap. XVI.

Tutto il lavoro necessario per giungere all' unione con Dio, consiste nel purificare la volontà dai suoi affetti e appetiti, in modo che da umana e grossolana diventi volontà divina, cioè identificata con quella di Dio. La forza dell'anima sta nelle sue potenze, passioni e appetiti, cose tutte governate dalla volontà. Ora quando la volontà indirizza queste passioni, potenze e appetiti verso Dio e li distoglie da tutto ciò che non è Lui, allora conserva la forza dell'anima per Dio, quindi giunge ad amarlo con tutte le forze. Le affezioni disordinate, da cui nascono gli appetiti, gli affetti e le operazioni sregolate, ... sono quattro: gioia, speranza, dolore, timore. Quando esse sono rivolte a Dio attraverso un esercizio assennato, in modo che l'anima non gioisca se non di ciò che è onore e gloria di Dio, non speri in altro che in Dio, non si dolga se non di ciò che Lo ferisce, né tema se non Dio solo, è chiaro che dispone e conserva tutte le sue forze e le sue capacità per Dio. Al contrario, quanto più l'anima gode di cose diverse da Dio, tanto meno fortemente riporrà la sua gioia in Dio; quanto più porrà fiducia in qualche cosa creata, tanto meno confiderà in Dio. E così per le altre passioni”.



Sant'Alfonso Maria de' Liguori, (1696-1787), vescovo e dottore della Chiesa 
Novena del Santo Natale, Discorso 6


«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore»


        I grandi della terra si gloriano di possedere regni e ricchezze. Gesù Cristo trova la pienezza della felicità nel regnare sui nostri cuori; è quella la signoria che desidera e ha deciso di conquistare con la morte in croce: «Sulle sue spalle è il segno della sovranità» (Is 9,5). Con queste parole, molti interpreti ... intendono la croce che il nostro divino Redentore ha portato sulle spalle. «Il Re del cielo, fa notare Cornelio a Lapido, è un maestro ben diverso dal demonio: questi carica di pesanti fardelli le spalle dei suoi schiavi. Gesù, al contrario, prende su di sé tutto il peso del suo regno; abbraccia la croce e ci vuole morire per regnare sui nostri cuori». E Tertulliano dice che, mentre i re della terra «portano lo scettro in mano e la corona sulla testa come emblemi della loro potenza, Gesù ha portato la croce sulle spalle. E la croce è stata il trono su cui è salito per fondare il suo regno d'amore»...
        Affrettiamoci dunque a consacrare tutto l'amore del nostro cuore a questo Dio che, per conquistarlo, ha sacrificato il suo sangue, la sua vita, tutto se stesso. «Se tu conoscessi il dono di Dio – diceva Gesù alla Samaritana – e chi è colui che ti dice: 'Dammi da bere!'» (Gv 4,10). Cioè: se tu sapessi la grandezza della grazia che ricevi da Dio... Oh, se l'anima comprendesse che grazia straordinaria Dio le dà quando richiede il suo amore con queste parole: «Amerai il Signore Dio tuo»! Un suddito che sentisse il suo signore dirgli: «Amami», non sarebbe forse attratto da questo invito? E Dio non sarebbe capace di conquistare il nostro cuore, quando ce lo chiede con così grande bontà: «Figlio mio, dammi il tuo cuore»? (Pr 23,26) Ma quel cuore, Dio non lo vuole a metà; lo vuole per intero, senza riserve; è il suo comando: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore».





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